Con la mania di classificare che infetta il nostro retaggio culturale,
la critica tende a licenziare come pessimistica e ottimistica ogni analisi
radicale della società moderna, a seconda che le malattie virulente
diagnosticate siano
o no accompagnate da un processo rigenerativo spontaneo. Ciò lascia
il campo libero ad analisi «pratiche», «equilibrate»
che dimostrano come nella società moderna nulla sia fondamentalmente
errato, che i suoi malanni sono curabili con un po' di buona volontà,
di istruzione, di valori antitradizionali ed una mezza dozzina di proposte
di riforma legislativa. Mi sento personalmente coinvolto in questo problema,
essendo stato gettato in entrambi i cestini da immondizia: sono stato
definito lugubre perché ritengo che le difficoltà della
nostra società si trovano nella loro stessa radice - cioè,
nei valori, negli assunti e negli schemi di pensiero più gelosamente
custoditi - per cui non è possibile limitarsi semplicemente a sfrondarle
via; e definito Poliyanna, in quanto sono convinto che le soluzioni esistono
già, per cui non è necessario inventarle e legiferarle,
ma soltanto incoraggiarle. Qualcuno reagirà ai capitoli iniziali
di questo libro come ad un invito alla disperazione, ma, per me, l'inizio
di una speranza concreta risiede nel riconoscimento e nell'identificazione
dei problemi. Non vedo che scopo ci sia a rifiutarsi di considerare la
possibilità che la nostra società si basi su premesse patologiche
o che la nostra stessa specie non abbia probabilità di essere vitale.
Eludere questa possibilità significa privarsi dell'occasione di
esaminare i problemi nella loro pienezza. Dimostrare che la civiltà
occidentale, ad un certo punto, ha preso una svolta sbagliata non vuol
dire non poter recuperare i propri passi. È, semplicemente, il
riconoscimento della non possibilità di costruire una
società umana al di fuori delle tendenze di quella attuale. Un
paziente in psicoterapia non può tornare letteralmente all'infanzia
per disimparare lo schema autodistruttivo da lui sviluppato durante la
crescita, sebbene possa impegnarsi in una sperimentazione molto regressiva
alfine di annullare tale apprendimento negativo. L'essenziale è
che sia capace di abbandonare l'attaccamento a questa sua linea di condotta;
sia capace, cioè, di dire a sé
stesso: «Ho perduto X anni della mia vita in una ricerca dolorosa
e inutile; è triste, sì, ma adesso mi si presenta l'occasione
di tentare un nuovo approccio». Tutto ciò è duro da
farsi. Forte è la tentazione sia di razionalizzare le
svolte errate come parte necessaria del nostro sviluppo («mi hanno
formato il carattere»), sia di negare di aver pienamente partecipato
ad esse («questo è successo prima che mi chiarissi l'argomento»).
L'abbandonarsi a queste due evasioni porta, inizialmente, alla disperazione,
ma, come fa notare AlexanderLowen, la disperazione è la sola cura
per l'illusione. Senza di essa non è possibile trasferire alla
realtà la nostra sudditanza; è una specie di periodo di
lutto per le nostre fantasie. A guesta disperazione alcuni non sopravvivono
però, senza di essa, non può verificarsi alcun cambiamento
importante all'interno di una persona. Le persone restano confinate nella
loro disperazione quando questa è incompleta, quando esiste ancora
qualche filo di speranza illusoria. Se, durante la notte, si spegne la
luce artificiale in una stanza munita di finestre, ci vuole un po' di
tempo per diventare consapevoli che l'oscurità non è totale
e che quanto più siamo abbagliati dal dopo-immagine della luce
artificiale,
tanto più ci vuole per percepire le trame sottili della luce e
delle ombre naturali, a capire che, in effetti, si può vedere.
Per esempio, una delle illusioni più comuni è l'idea del
progresso: il passato è stato barbaro, il presente è già
un miglioramento, il futuro sarà glorioso. La cancrena dello Stato
è soltanto uno stadio di transizione che
reagirà all'antibiotico sociale. Il deterioramento ecologico è
soltanto questione di bloccare le malattie generatrici di germi causate
dallo sviluppo tecnologico. Finché immaginiamo che le cose stiano
andando meglio non
riesamineremo mai gli assunti di base. L'errore fondamentale dell'idea
di progresso è il concetto secondo cui è possibile ottimizzare
tutto all'istante. Questa è un'illusione antitradizionale nutrita
in America, e il suo collasso
porta naturalmente a visioni apocalittiche. Tuttavia, una volta compreso
che l'idea di progresso non è puramente un sogno insoddisfatto
ma un'assurdità implicita, allora diventa assurdo anche il suo
opposto. È stupido che la gente continui a dire, come fanno i tecnocrati,
«questo autunno non porterà all'inverno, ma a qualche cosa
di straordinariamente meraviglioso»; però è altrettanto
stupido pensare che l'inverno non sarà seguito dalla primavera.
La cultura, come la personalità, è puramente uno schema,
un adattamento di elementi universali, sì, ma dissonanti. In un
dato periodo e in un dato luogo, è possibile che un certo adattamento
risulti più conveniente di un
altro, però ogni cultura effettua scelte che massimizzano il soddisfacimento
di alcuni bisogni umani e la trascuranza di altri. Nulla può essere
eliminato totalmente. Il cambiamento saciale è puramente un riadattamento
di elementi, l'espressione della preferenza di un certo tipo di incompatibilità
piuttosto che di un altro. Una volta abbandonata la fantasia circa la
possibilità di combinare tutte le buone cose in un solo pacchetto
culturale, ci troviamo nella posizione di capire che le cure per i nostri
mali sociali peggiori sono già presenti. La disperazione è
incompleta (e, pertanto, cronica e suicida) quando crediamo ancora nella
possibilità di un'illusione, quale quella del progresso,
e quando immaginiamo di aver mancato soltanto nel raggiungerla. Questo
è il modo peggiore per conciliare i piaceri mondani con la salute
spirituale: essere, cioè, impegnati in un'impresa senza speranza
di successo. Una volta riconosciuto che l'iillusione stessa è un'assurdità,
possiamo investire nel possibile le nostre energie. A chi, per esempio,
non piacerebbe credere nella possibilità di una società
che massimizzi l'autonomia personale e, contemporaneamente, la connessione
armonica col prossimo? Però, non c'è modo di garantire che
il bisogno del singolo di restare solo potrà mai coincidere col
bisogno del suo prossimo di stare con lui. In una data situazione, ogni
società tende a proteggere un bisogno più di un altro. Accettare
il fatto che questo problema debba essere sempre negoziato fra persone,
che la privatezza e la comunanza siano bisogni antitetici che non possono
essere massimizzati simultaneamente, porta alla disperazione piena e completa,
alla disperazione del disilludersi. Però, ci pone anche in grado
di notare le nostre esperienze soddisfacenti e di costruirci sopra.
Nota linguistica
Questo libro tratta alcuni aspetti di un conglomerato simbolico gigantesco
definito generalmente «civiltà occidentale» se considerato
un lungo evento, «società industriale» se trattato
come evento assai più breve,
ovvero «società post-industriale» se visto come evento
brevissimo. I confini geografici del conglomerato sono estremamente confusi,
anche quando i confini temporali sono più chiaramente specificati.
Una parte di quello che
dirò si applica ai paesi industrializzati occidentali, una parte
a tutti i centri urbani del globo, una parte a tutte le civiltà
che spiccano nella storia, una parte solamente agli Stati Uniti. Il più
delle volte, comunque, per designare
questo conglomerato utilizzerò i termini «nostra società»
o «nostra cultura», lasciando al testo la sua collocazione
nel tempo e nello spazio. Ciò nonostante io descrivo processi,
non entità, e i processi si trovano in tutto il conglomerato, anche
se più concentrati in alcune aree, piuttosto che in altre. Un'altra
difficoltà lerminologica si centra sui vocaboli «uomo»
e «genere maschile» quando vengono utilizzati per denotare
l'umanità. Pur sensibile ai problemi di sessismo impliciti in questa
utilizzazione, ritengo egualmente ingiusto parlare di «genere femminile»
o di «umanità» per alludere alle follie della storia
patriarcale. Pertanto, mi sono sforzato - e, spero, con successo - di
utilizzare il termine «umano» in riferimento agli eventi in
condizione potenziale umana, riservando il termine «uomo»
agli eventi di un passato dominato dai maschi. Se alludessi alla tecnologia
come ad «un'estensione della donna» mi sembrerebbe di non
afferrare l'essenza più importante del come le donne, in genere,
non abbiano mai dimostrato lo stesso bisogno di monumentalizzarsi per
tutto l'ambiente. Dire la verità fatuamente è mentire. La
maggior parte delle argomentazioni circa la verità o la falsità
dei concetti, inoltre, è, in realtà, un disaccordo circa
la loro importanza. La verità è relativa al momento, al
luogo e alla persona, per cui un'enfasi assurda può, oggi, essere
necessaria a rendere disponibile la verità di domani. Quindi, parlare
di malattia, come ho fatto per tutto il libro, non è, alla lunga,
una maniera utile per pensare ai processi sociali, così come non
è utile quando si pensa ai processi psicologici o fisiologici.
Essa, spesso, crea l'illusione dell'esistenza di processi puramente nocivi
e della loro possibile eliminazione; concetto, questo, che contribuisce
molto alla goffaggine e alla distruttività delle linee di condotta
occidentali. Questo difetto mi è parso superato in importanza dal
valore dei parallelismi che potrebbero essere tratti, ma è un modo
di pensare che, mi auguro, verrà superato il più presto
possibile. Parecchi autori contemporanei stanno concentrandosi su alcuni
degli stessi problemi da me affrontati in questo libro. Coloro che sembrano
far vibrare in me le corde più forti della riconoscenza sono Gregory
Bateson, Norman Brown, David Bakan e William Thompson, ma, ovviamente,
ce ne sono molti altri. Nel caso di Bateson, il debito di riconoscenza
assume caratteristiche del tutto particolari, dacché la sua presenza,
insieme a quella di Warren Brodey, ad una conferenza alla quale anch'io
partecipai, è stata un precipitante assai importante di questo
libro.
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