Elogio della follìa
Erasmo da Rotterdam |
Alcuni
giorni fa, tornando dall'Italia in Inghilterra, per non sprecare
in chiacchiere banali il tempo che dovevo passare a cavallo, preferii
riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo
degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi
che mi sono tornati alla mente c'eri tu, Moro carissimo. Anche da
lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava,
nella consueta intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro,
la cosa più bella della mia vita. Visto, dunque, che
ritenevo di dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento
non sembrava adatto a una meditazione seria, mi venne in mente di
tessere un elogio scherzoso della Follia. "Ma quale capriccio
di Pallade - ti chiederai - ti ha ispirato un'idea del genere?"
In primo luogo, il tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine
morìa, quanto tu sei lontano dalla follia. E ne sei lontano a parere
di tutti. Immaginavo inoltre che la mia trovata scherzosa sarebbe
piaciuta soprattutto a te, che di solito ti diletti in questo genere
scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di sale, perchè nella
vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di Democrito.
Sebbene, infatti, per singolare acume d'ingegno tu sia tanto lontano
dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialità puoi
trattare familiarmente con uomini d'ogni genere, traendone anche
godimento. Quindi, non solo
accoglierai di buon grado questo mio modesto esercizio retorico,
per ricordo del tuo amico, ma anche lo prenderai sotto la tua protezione;
dedicato a te, non mi appartiene più: è tuo. E' probabile, infatti,
che non mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei
scherzi, ora di una futilità sconveniente per un teologo, ora di
un tono troppo pungente per la mansuetudine cristiana; e grideranno
che prendo a modello la commedia antica e Luciano, mordendo tutto
senza lasciare scampo. Vorrei però che quanti si sentono offesi
dalla scherzosa levità del mio tema, si rendessero conto che non
sono l'inventore del genere, e che già nel passato molti grandi
autori hanno fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cantò per scherzo
"la guerra dei topi con le rane", Virgilio la zanzara e la focaccia,
Ovidio la noce. Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate
fece l'elogio di Busiride, Glaucone quello dell'ingiustizia, Favorino
di Tersite, della febbre quartana, Sinesio della calvizie, Luciano
della mosca e dell'arte del parassita. Sono scherzi l'apoteosi di
Claudio scritta da Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse di Plutarco,
l'asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento - di cui ignoro
l'autore - del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san
Girolamo. Lasciamo perciò che certa gente, se crede, vada fantasticando
che, per svago, a volte, ho giocato a scacchi, o, se preferisce,
che sono andato a cavallo di un lungo bastone. Certo, è una bella
ingiustizia concedere a ogni genere di vita i suoi svaghi, e non
consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi quando
gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati
in modo che un lettore non del tutto privo di senno può trarne maggior
profitto che non da tante austere e pompose trattazioni. Come quando
con mucchi di parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia,
o si fa l'elogio di un principe, o si esorta a fare la guerra ai
Turchi, mentre qualcuno predice il futuro, o va formulando questioncelle
di lana caprina. In realtà, come niente è più frivolo che trattare
in modo frivolo cose serie, così niente è più gradevole che trattare
argomenti leggeri in modo da dare l'impressione di non avere affatto
scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la presunzione
non mi accieca completamente, ho fatto sì l'elogio della Follia,
ma non certo da folle. Quanto poi all'accusa di spirito mordace,
rispondo che si è sempre concessa agli scrittori la libertà d'esercitare
impunemente la satira sul comune comportamento degli uomini, purché
non diventasse attacco rabbioso. Per questo mi meraviglia tanto
di più la delicatezza delle orecchie d'oggi, che riescono a sopportare
ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una religione
così distorta che passano sopra alle più gravi offese a Cristo prima
che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un
principe, soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi.
D'altra parte, uno che critica il modo di vivere degli uomini così
da evitare del tutto ogni accusa personale, si presenta come uno
che morde, o non, piuttosto, come chi ammaestra ed educa? E, di
grazia, non investo anche me stesso con tanti appellativi poco lusinghieri?
Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a nessun genere
di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare
tutti i vizi. Se, dunque, ci sarà qualcuno che si lamenterà d'essere
offeso, sarà segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura.
Satire di questo genere, e molto più libere e mordenti, troviamo
in san Girolamo, che talvolta fece anche i nomi. Io non solo non
ho mai fatto nomi, ma ho adottato un tono così misurato che qualunque
lettore avveduto si renderà conto che mi sono proposto la piacevolezza
piuttosto che l'offesa. né ho seguito l'esempio di Giovenale: non
ho mai smosso l'oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato di
colpire quanto è risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c'è
ancora qualcuno che nemmeno così è contento, ricordi almeno questo:
che è bello essere vituperati dalla Follia e che avendola introdotta
a parlare, dovevo rimanere fedele al personaggio. Ma perché dire
queste cose a te, avvocato così straordinario da difendere in modo
egregio anche cause non egregie? Addio, eloquentissimo Moro, e difendi
con zelo la tua Morìa. dalla
campagna, 9 giugno 1508. Elogio della Follia Parla la Follia. 1.
Qualsiasi cosa dicano di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto
la Follia sia portata per bocca anche dai più folli - tuttavia,
ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di
rallegrare gli Dèi e gli uomini. Non appena mi sono presentata per
parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti
si sono illuminati di non so quale insolita ilarità. D'improvviso
le vostre fronti si sono spianate, e mi avete applaudito con una
risata così lieta e amichevole che tutti voi qui presenti, da qualunque
parte mi giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepènte degli
Dèi d'Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se foste
tornati allora dall'antro di Trofonio. Appena mi avete notata, avete
cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole
mostra alla terra il suo aureo splendore, o quando, dopo un crudo
inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci venti di Favonio,
e tutte le cose mutando di colpo aspetto assumono nuovi colori e
tornano a vivere visibilmente un'altra giovinezza. Così col mio
solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello che oratori,
peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente meditata
orazione. 2. perché poi io
sia venuta qui oggi, e vestita in modo così strano, lo saprete fra
poco, purché non vi annoi porgere orecchio alle mie parole: non
quell'orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri, ma quello
che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli:
quell'orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedicò alle parole
di Pan. Mi è venuta infatti voglia d'incarnare con voi per un po'
il personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso, che
oggi riempiono la testa dei ragazzi di capziose sciocchezze addestrandoli
a risse verbali senza fine, degne di donne pettegole. Io imiterò
quegli antichi che per evitare l'impopolare appellativo di sapienti,
preferirono essere chiamati sofisti. Il loro proposito era di celebrare
con encomi gli Dèi e gli eroi. Ascolterete dunque un elogio, e non
di Ercole o di Solone, ma il mio: l'elogio della Follia. 3. Certamente, io
non faccio alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell'estrema
dissennatezza e tracotanza di chi si loda da sé. Sia pure folle
quanto vogliono; dovranno riconoscerne la coerenza. Che cosa c'è,
infatti, di più coerente della Follia che canta le proprie lodi?
Chi meglio di me potrebbe descrivermi? a meno che non si dia il
caso che a qualcuno io sia più nota che a me stessa. D'altra parte
io trovo questo sistema più modesto, e non di poco, di quello adottato
dalla massa dei grandi e dei sapienti; costoro, di solito, per una
falsa modestia, subornano qualche retore adulatore, o un poeta dedito
al vaniloquio, e lo pagano per sentirlo cantare le proprie lodi,
e cioè un sacco di bugie. Così il nostro fiore di pudicizia drizza
le penne come un pavone, alza la cresta, mentre lo sfacciato adulatore
lo va paragonando, lui che è un pover'uomo, agli Dèi, e lo propone
quale modello assoluto di virtù, lui che da quel modello sa di essere
lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia con le penne altrui,
fa diventare bianco l'Etiope, e di una mosca fa un elefante. Io
invece seguo quel vecchio detto popolare secondo il quale, chi non
trova un altro che lo lodi, fa bene a lodarsi da sé. Ora, tuttavia, devo
esprimere la mia meraviglia per l'ingratitudine, o, come dire?,
per l'indifferenza dei mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono
di buon grado i miei benefici, eppure, in tanti secoli, non si è
trovato nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso
in lode della Follia, mentre non è mancato chi con lodi elaborate
ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto l'elogio
di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della
calvizie, e di altri flagelli del genere. 4. Da me ascolterete
un discorso estemporaneo e non elaborato, ma tanto più vero. Non
vorrei però che lo riteneste composto per farvi vedere quanto sono
brava, come usa il branco dei retori. Costoro, come sapete, di un'orazione
su cui hanno sudato trenta lunghi anni - e qualche volta l'ha fatta
un altro - giurano che l'hanno buttata giù, e magari dettata, in
tre giorni, quasi per svago. A me, invece, è sempre piaciuto moltissimo
dire tutto quello che mi salta in mente. Nessuno, perciò,
si aspetti da me che, secondo il costume di codesti oratori da strapazzo,
definisca la mia essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola.
Sono infatti cose di malaugurio, sia porre dei confini a colei il
cui potere è sconfinato, sia introdurre delle divisioni in lei,
il cui culto è oggetto di così universale consenso. D'altra parte
perché una definizione, che sarebbe quasi un'ombra e un'immagine,
quando potete vedermi con i vostri occhi? Che bisogno c'era
di dirvi tutto questo, come se il mio volto non bastasse, come dice
la gente, a mostrare chi sono? come se, pretendendo qualcuno ch'io
sia Minerva o Sofia, non bastasse a smentirlo il mio sguardo, che,
senza bisogno di parole, è lo specchio più schietto dell'animo.
Da me è lontano ogni trucco; non simulo in volto una cosa, mentre
ne ho un'altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono a tal punto inconfondibile,
che non possono tenermi nascosta nemmeno quelli che si arrogano
la maschera e il titolo della Saggezza, e se ne vanno in giro come
scimmie ammantate di porpora o come asini vestiti della pelle del
leone. Eppure, per accorti che siano nel fingere, le orecchie di
Mida, spuntando fuori da qualche parte, li tradiscono. Ingrati,
per Ercole, sono anche quelli che, appartenendo in pieno alla mia
parte, si vergognano a tal segno di fronte alla gente del mio nome,
che lo attribuiscono genericamente agli altri come un grave insulto.
Essendo in realtà costoro pazzi da legare proprio quando vogliono
sembrare sapienti come Talete, potremo senz'altro chiamarli a buon
diritto MORO-SOFI. 6. Anche in questo,
infatti, intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono
proprio degli Dèi se, a mo' delle sanguisughe, mostrano due lingue,
e considerano una grande impresa inserire nel discorso latino, come
in un intarsio, qualche paroletta greca, che magari era proprio
fuori posto. Se poi fanno loro difetto termini esotici, tirano fuori
da pergamene ammuffite quattro o cinque termini arcaici con cui
rendere oscuro il testo al lettore. Così chi riesce a capire è più
soddisfatto di sé, e chi non capisce ammira tanto di più quanto
meno capisce. Tra gli eletti piaceri dei nostri contemporanei, infatti,
c'è anche questo: esaltare tanto di più una cosa, quanto più è straniera.
I più ambiziosi ridono e applaudono e, come gli asini, muovono le
orecchie, dando ad intendere agli altri di avere capito tutto. E'
proprio così. Ritorno all'argomento. 7. Il nome mio lo
sapete, miei cari... Quale attributo aggiungerò? Quale, se non Arcifolli?
Con quale altro più nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare
i suoi iniziati? Ma poiché non a molti sono ugualmente noti i miei
maggiori, con l'aiuto delle Muse tenterò di parlarne. Non il Caos, né
l'Orco, né Saturno, né Giapeto, né alcun altro di questi Dèi decrepiti
e fuori moda, fu mio padre, ma Pluto lui solo, [il dio della ricchezza],
padre degli uomini e degli Dèi, con buona pace di Esiodo, di Omero
e dello stesso Giove. Un suo cenno, ora come sempre, mette sottosopra
cielo e terra. Il suo arbitrio decide della guerra e della pace,
degli imperi, dei consigli, dei giudizi, dei comizi, dei matrimoni,
dei trattati, delle alleanze, delle leggi, delle arti, delle cose
scherzose e di quelle serie; da lui dipendono tutti gli affari pubblici
e privati degli uomini. Senza il suo aiuto, tutta la folla degli
Dèi, dei poeti, e, oserò dire, perfino le stesse divinità maggiori,
o non esisterebbero, o vivacchierebbero alla meglio, di briciole.
Chi incorre nella sua ira, neppure Pallade potrebbe aiutarlo. Chi,
invece, ne gode il favore, potrebbe trarre in catene lo stesso Giove
col suo fulmine. Di tale padre io mi glorio. E questo padre non
mi generò dal suo cervello, come Giove la fosca e crudele Pallade,
ma dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la più graziosa
e lieta. E non mi generò nell'uggioso vincolo del matrimonio - in
cui nacque il famoso fabbro zoppo ma, ed è molto più dolce, in un
amplesso d'amore, come dice il nostro Omero. né, a scanso d'equivoci,
mi generò quel Pluto di Aristofane, già mezzo morto e già cieco,
ma quello in pieno vigore, fervente di giovinezza, e non solo di
giovinezza, ebbro soprattutto di schietto nettare che aveva generosamente
bevuto al banchetto degli Dèi. 8. Se poi volete
anche sapere dove sono nata, visto che oggi nel valutare il grado
di nobiltà attribuiscono la massima importanza al luogo dove si
sono messi fuori i primi vagiti: ebbene, io non sono nata nell'errante
Delo, non tra i flutti del mare, non in grotte profonde, ma proprio
nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme né aratro. Là
non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli,
malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco. Da ogni parte ti
accarezzano gli occhi e il naso moly, panacea, nepènte, maggiorana,
ambrosia, loto, rose, viole, giacinti - i giardini d'Adone. Nata
fra queste delizie, non ho cominciato la vita nel pianto; subito
ho sorriso dolcemente a mia madre. Al sommo figlio
di Crono non invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le loro
mammelle sono state due graziosissime ninfe, Mete l'Ebbrezza, figlia
di Bacco, e Apedia l'Ignoranza, figlia di Pan. Le vedete qui con
me, nel gruppo di tutte le altre mie compagne e seguaci, delle quali
se, per Ercole, vorrete sapere i nomi, da me li sentirete solo in
greco. 9. Quella che vedete
con le sopracciglia inarcate è senz'altro Filautia; quella che sembra
ridere con gli occhi, e che batte le mani, è Colacìa; quella mezza
addormentata e vinta dal sonno si chiama Lete; quella appoggiata
sui gomiti e con le mani intrecciate si chiama Misoponia; l'altra,
cinta da un serto di rose, e tutta cosparsa di profumi, Hedonè;
Anoia questa, dai mobili sguardi lascivi. Quella dalla pelle splendente
e dal corpo rigoglioso si chiama Trufè. Tra le fanciulle potete
vedere anche due Dèi: Como e Ipno, il dio del sonno profondo. Col
fedele aiuto di questa mia corte io signoreggio su tutte le cose,
e sono sovrana degli stessi sovrani. 10. Vi ho detto
origine, educazione, compagni. Ora, perché a qualcuno non paia senza
fondamento la mia pretesa al titolo di dea, drizzate le orecchie
e ascoltate di quanta utilità io sia agli Dèi e agli uomini, e quanto
si estenda il mio potere. Se, infatti, non senza saggezza qualcuno
ha scritto che essere un dio proprio questo significa: giovare ai
mortali; se a buon diritto sono stati accolti nel consesso degli
Dèi coloro ai quali i mortali debbono il vino, il grano, e simili
beni; perché io non dovrei a buon diritto essere ritenuta e proclamata
l'alfa degli Dèi, dal momento che io, io sola, sono a tutti prodiga
di tutto? 11. lnnanzitutto,
che cosa può esserci di più dolce e prezioso della vita? ma a chi,
se non a me, riportarne la desiderata origine? Non l'asta di Pallade
dal padre possente, né l'egida di Giove adunatore di nembi, generano
e propagano la stirpe umana. Lo stesso padre degli Dèi e re degli
uomini, al cui cenno trema l'Olimpo intero, quando vuol fare quello
che poi fa sempre, e cioè generare dei figli, deve deporre quel
suo famoso fulmine a tre punte, deve spogliarsi del titanico sembiante
con cui spaventa a suo piacimento tutti gli Dèi, e, come un povero
commediante qualsiasi, deve assumere la maschera di un altro personaggio.
Quanto agli stoici che si credono così vicini agli Dèi, datemene
uno che sia stoico magari tre o quattro volte, o, se volete, stoico
mille volte! Anche lui dovrà deporre, se non la barba che è l'insegna
della sapienza (comune, a dir il vero, con i caproni), certamente
il suo sussiego. Dovrà spianare la fronte, mettere da parte i suoi
princìpi adamantini, e abbandonarsi un poco a qualche leggerezza
e follia. Se vuole davvero diventare padre, insomma, anche quel
saggio deve chiamare me, proprio me. E perché, dal momento
che sto chiacchierando con voi, non essere più esplicita, secondo
il mio costume? E' forse con la testa, col volto, col cuore, con
la mano, con l'orecchio (parti considerate tutte oneste) che si
generano gli Dèi e gli uomini? No davvero! propagatrice del genere
umano è quella parte così assurda e ridicola che non si può neppure
nominare senza ridere. Quello è il sacro fonte a cui tutto attinge
la vita, quello e non la tetrade pitagorica. E, ditemi, quale uomo
vorrebbe porgere il collo al capestro del matrimonio se prima, secondo
la consuetudine di codesti saggi, ne considerasse gli svantaggi?
Quale donna accosterebbe un uomo, se conoscesse e avesse in mente
i pericolosi travagli del parto, e i fastidi di allevare i figli?
Perciò se dovete la vita al matrimonio, e il matrimonio ad Anoia
del mio seguito, comprenderete quello che dovete a me. D'altra parte
quale donna dopo la prima esperienza vorrebbe riprovarci, se non
ci fosse ad assisterla la presenza di Letes? Venere medesima, protesti
pure Lucrezio, non negherebbe mai che senza l'aiuto della mia divinità
la sua forza sarebbe insufficiente e inutile. Perciò è da quella
nostra ebbrezza giocosa che sono nati i filosofi severi, a cui ora
sono subentrati quelli che il volgo chiama monaci, e i re ammantati
di porpora, i pii sacerdoti, i pontefici, tre volte santissimi.
E infine anche tutto quel consesso degli Dèi dei poeti, così affollato
che a stento può contenerlo l'Olimpo, pur vasto che sia. 12. Eppure sarebbe
ben poco dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi
che quanto vi è di buono nella vita è anch'esso un mio dono. E che
cos'è poi questa vita? e se le togli il piacere, si può ancora chiamarla
vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene, io, che nessuno di voi era
così saggio, anzi così folle - no, è meglio dire saggio, da non
andare d'accordo con me. Del resto neppure questi stoici disprezzano
il piacere, anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla gente,
rovesciano sul piacere ingiurie sanguinose; in realtà solo per distogliere
gli altri e goderne di più, loro stessi. Ditemi, per Giove, quale
momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido,
fastidioso, senza il piacere, e cioè senza un pizzico di follia?
E di questo è degno testimone il non mai abbastanza lodato Sofocle
con quelle sue splendide parole di elogio per me: "Dolcissima è
la vita nella completa assenza di senno". Ma è tempo di esaminare
a parte tutta la questione. 13. E, tanto per
cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di
gran lunga la più lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini
per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto, sì
che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la
grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida
natura s'industria d'infondere nei neonati perché con una sorta
di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva
e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli? E l'adolescenza
che segue l'infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto
suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bontà tutti le
tendono una mano! Ma di dove, di grazia,
questa benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? E' per
merito mio che i giovani sono così privi di senno; è per questo
che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia, se non ammettessi
che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza e l'educazione
cominciano ad acquistare una certa maturità, subito sfiorisce la
loro bellezza, s'illanguidisce la loro alacrità, s'inaridisce la
loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto più si allontanano
da me, tanto meno vivono, finché non sopraggiunge la gravosa vecchiaia,
la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se
stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora
una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io,
e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di solito soccorrono con
qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, anch'io, per quanto
è possibile, non riportassi all'infanzia quanti sono prossimi alla
tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti.
Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure
su questo farò misteri. Conduco i vecchi
alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate
- il Lete che scorre agli Inferi è solo un esile ruscello. Lì, bevute
a grandi sorsi le acque dell'oblio, un poco alla volta, dissipati
gli affanni, torneranno bambini. Ma delirano ormai,
non ragionano più! Certo. E' proprio questo che significa tornare
fanciulli. Forse che essere fanciulli non significa delirare e non
avere senno? e non è proprio questo, il non aver senno, che più
piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un bambino con
la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: "Odio
il bambino di precoce saggezza". E chi, d'altra parte, vorrebbe
rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla lunga esperienza
di vita unisse pari forza d'animo e acutezza di giudizio? Così, per mio dono,
il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero
dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta di bere,
è un allegro compagno; non avverte il tedio della vita, che l'età
più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto,
torna alle tre famose lettere [AMO], che se fosse in senno ne sarebbe
infelicissimo. Invece per merito mio è felice, simpatico agli amici,
piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso scorre
dalla bocca di Nestore più dolce del miele, mentre amare sono le
parole di Achille; e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno
seduti insieme sulle mura parlano con voce soave. In questo senso
sono superiori alla stessa infanzia, che è sì deliziosa, ma non
parla, e, priva della parola, manca del principale diletto della
vita, che è quello di una schietta conversazione. Aggiungi che ai
vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini
i vecchi, "perché il dio spinge sempre il simile verso il simile".
In che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che
nel vecchio sono di più? Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata,
corporatura ridotta, desiderio di latte, balbuzie, garrulità, mancanza
di senno, smemoratezza, irriflessione: in breve, sotto ogni altro
aspetto si accordano. Quanto più invecchiano, tanto più somigliano
ai bambini, finché, come bambini, senza il tedio della vita, senza
il senso della morte, abbandonano la vita. 14. Paragoni ora
chi vuole questo mio beneficio con le metamorfosi operate dagli
altri Dèi. E non sto a ricordare quello che fanno quando li possiede
l'ira; parlo di coloro che godono di tutta la loro benevolenza:
li trasformano di solito in alberi, uccelli, cicale, e perfino in
serpenti, come se il diventare altro non fosse proprio un morire.
Io, invece, restituisco il medesimo uomo al periodo migliore della
vita, al più felice. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto
con la saggezza, e vivessero sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia
neppure ci sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza. Non vi accorgete
che gli uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in
faccende serie e difficili, in genere sono già vecchi prima di essere
stati davvero giovani, e questo per le preoccupazioni e per il costante
e teso dibattito mentale, che un po' alla volta esaurisce gli spiriti
e la linfa vitale? Al contrario, i
miei bei matti sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga,
proprio come quelli che chiamano porcelli d'Acarnania, immuni, per
certo, da qualunque disturbo senile, a meno che non si trovino a
subire in qualche misura il contagio dei saggi, come capita, poiché
la vita non consente mai una completa felicità. Valida testimonianza
di tutto questo è il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia
è capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima,
e di tenere lontana la molesta vecchiaia. Sicché, non a torto, si
è fatto l'elogio del detto popolare del Brabante: mentre altrove,
di solito, l'età porta saggezza, qui più s'invecchia e più matti
si diventa. Non c'è popolazione, infatti, più incline di questa
a un giocondo abito di vita e meno portata ad avvertire la tristezza
della vecchiaia. Loro vicini, e dal punto di vista geografico e
da quello del costume, sono i miei Olandesi - e perché, poi, non
dovrei chiamarli miei, se mi sono così devoti da essersi meritato
un soprannome [di folli] di cui non si vergognano per nulla, che
anzi ne traggono il loro vanto principale? Vadano pure gli
stoltissimi mortali a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le
Aurore, e non so quale fonte che restituisca loro la giovinezza,
quando io sola posso, e sono solita farlo. Sono io che possiedo
quel filtro miracoloso con cui la figlia di Memnone prolungò la
giovinezza di Titone suo avo. Sono io quella Venere per la cui grazia
Faone ringiovanì a tal segno da essere amato follemente da Saffo.
Sono mie le erbe, se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte
che non solo risuscita la giovinezza svanita, ma, meglio ancora,
la mantiene per sempre. Perciò, se siete tutti d'accordo su questo,
che niente è meglio della giovinezza, e niente più odioso della
vecchiaia, vi rendete conto, io credo, di quello che dovete a me,
che, fugato un male tanto grande, conservo un così grande bene. 15. Ma perché parlo
ancora dei mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa
chiunque infamare il mio nome se si troverà un solo Dio non privo
di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione del mio nume.
Infatti, perché Bacco è sempre il chiomato efebo? proprio perché,
pazzo ed ebbro, passa tutta la vita in conviti, balli, canti e giochi,
e non ha proprio nulla a che fare con Pallade. A tal punto rifugge
dal desiderare la fama di sapiente, da compiacersi di un culto fatto
di beffe e di scherzi. né trova offensivo quel detto che gli attribuisce
il soprannome di fatuo, e che suona: "più pazzo di Morico". E cambiarono
il suo nome in Morico perché i contadini, nella loro sfrenata allegria,
erano soliti impiastricciare di mosto e di fichi freschi il suo
simulacro, che lo ritraeva seduto alle soglie del tempio. D'altra parte, quali
lazzi non scaglia contro di lui l'antica commedia? O Dio pazzo,
dicono, degno parto d'una coscia! Ma chi non preferirebbe essere
questo Dio fatuo e dissennato, sempre allegro, sempre giovane, sempre
generoso di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso
Giove, temuto da tutti, o Pan che tutto va devastando con i terrori
che diffonde, o Vulcano avvolto di scintille e sempre nero del fumo
della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo,
terribile con la Gorgone e la lancia? perché Cupido è, invece, sempre
fanciullo? perché? se non per la sua leggerezza, per la sua incapacità
di fare o pensare qualcosa di assennato. perché la bellezza dell'aurea
Venere è sempre in fiore? perché è mia parente e conserva nell'aspetto
il colore di mio padre. Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea
Afrodite". Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro emuli,
ride sempre. E quale nume i Romani venerarono più di Flora, madre
di tutti i piaceri? Se poi si andasse ad esaminare un po' meglio,
attraverso Omero e gli altri poeti, la vita anche degli Dèi ritenuti
più austeri, si scoprirebbe che tutto è pieno di follie. E perché
poi ricordare le imprese degli altri, quando si conoscono così bene
gli amori e i sollazzi dello stesso Giove tonante? Quando la fiera
Diana, dimentica del sesso nella sua esclusiva passione per la caccia,
muore tuttavia d'amore per Endimione? Preferirei però
che gli Dèi se le sentissero cantare da Momo, come una volta accadeva
piuttosto spesso. Ma ora lo hanno scaraventato sulla terra con Ate
perché le sue sagge critiche disturbavano la loro felicità. né alcun
mortale si degna di offrirgli ospitalità; tanto meno poi c'è posto
per lui alle corti dei prìncipi, dove però è sempre ospite d'onore
la mia Colacìa, che va d'accordo con Momo come l'agnello coi lupi. Allontanato lui,
gli Dèi folleggiano molto più liberamente e gradevolmente, e se
la passano bene davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi.
Quali scherzi scurrili, infatti, non alimenta il Priapo di legno
di fico? quali divertimenti non procura Mercurio con i suoi furti
ed i suoi trucchi? Perfino Vulcano, al banchetto degli Dèi, si è
abituato alla parte del buffone, facendo ridere il simposio ora
con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con le
sue facezie. Anche Sileno, il vecchio mandrillo, uso a danzare il
cordace, balla con Polifemo la TRETANELO' [il ballo dei Ciclopi],
mentre le Ninfe danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino
rappresentano le atellane, e Pan fa ridere tutti con le sciocche
cantilene che gli Dèi preferiscono al canto delle Muse, specialmente
quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perché raccontare ora
ciò che fanno gli Dèi alla fine del banchetto dopo una buona bevuta?
Follie tali che io stessa, per Ercole, non riesco a tenermi dal
riderne. A questo punto è
meglio ricordare Arpocrate [il dio del silenzio]: che può succedere
che qualche Dio di Corico sia in ascolto mentre narriamo fatti che
neppure Momo ha potuto rivelare impunemente. 16. E' tempo ormai
di seguire l'esempio di Omero lasciando da parte gli Dèi e tornare
sulla terra per vedere fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino
solo per mio dono. In primo luogo osservate
con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano,
ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti,
secondo la definizione stoica, la saggezza consiste solo nel farsi
guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste
nel farsi trascinare dalle passioni, perché la vita umana non fosse
del tutto improntata a malinconica severità, Giove infuse nell'uomo
molta più passione che ragione: press'a poco nella proporzione di
mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino
della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni.
Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi
tiranni: l'ira, che occupa la rocca del petto e il cuore stesso
che è la fonte della vita, e la concupiscenza che estende il suo
dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste
due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale
degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a perderci
la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla
loro regina, la subissano di grida odiose, finché lei, prostrata,
cede spontaneamente dichiarandosi vinta. 17. Tuttavia, poiché
l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote
un po' più di un'oncia di ragione, Giove, per provvedere debitamente,
mi convocò perché lo consigliassi, come su tutto il resto, anche
a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu degno di me: affiancare
all'uomo la donna, animale, sì, stolto e sciocco, ma deliziosamente
spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di follia
la malinconica gravità del temperamento maschile. Platone, infatti,
quando sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra
gli animali razionali o fra i bruti, vuole solo sottolineare la
straordinaria follia di questo sesso. E, se per caso una donna vuole
passare per saggia, ottiene solo di essere due volte folle, come
se uno volesse, contro ogni ragionevole proposito, portare un bue
in palestra. Infatti raddoppia il suo difetto chi, distorcendo la
propria natura, assume sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio
greco, la scimmia è sempre una scimmia, anche se si ammanta di porpora,
così la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque si mascheri. Non però così folle,
voglio credere, da prendersela con me perché la giudico folle, io
che sono folle, anzi la Follia in persona. Le donne, infatti, se
ponderassero bene la questione, anche questo dovrebbero considerare
come un dono della Follia: il fatto di essere, sotto molti aspetti,
più fortunate degli uomini. In primo luogo hanno il dono della bellezza,
che giustamente mettono al disopra di tutto, contando su di essa
per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all'uomo, di dove gli
viene l'aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo
che di senile, se non dalla maledizione del senno? Le donne, invece,
con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle
morbida, danno quasi l'impressione d'una eterna giovinezza. Ma che
altro desiderano poi in questa vita, se non piacere agli uomini
quanto più è possibile? Non mirano forse a questo, tante cure, belletti,
bagni, acconciature, unguenti, profumi; tante arti volte ad abbellire,
dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C'è forse qualche
altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della follia?
Che cosa mai non concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di
che, se non del piacere? E il diletto da nient'altro viene se non
dalla loro follia. Che questo sia vero non si può negare solo che
si pensi a tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con
una donna, a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che si mette
in testa di ottenerne i favori. Ecco da che fonte sgorga il primo
e principale diletto della vita. 18. Ma ci sono uomini,
specialmente tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere;
per loro il sommo piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa
esservi un lauto banchetto senza donne; però una cosa è certa, che
senza un pizzico di follia non può esservi banchetto ben riuscito.
A tal punto che, se non c'è già qualcuno capace di far ridere con
la sua follia, autentica o simulata, si chiama un buffone a pagamento,
o un allegro parassita, che, con le sue comiche, ossia folli battute,
dissipi il silenzio e la noia del simposio. A che scopo infatti
riempirsi il ventre di tanti dolciumi, leccornie e ghiottonerie,
se anche gli occhi, le orecchie e l'anima intera, non si nutrissero
di risa, di scherzi, di facezie? ma cibi del genere posso ammannirli
solo io. D'altra parte anche quei riti conviviali, come sorteggiare
il re del convito, giocare ai dadi, invitare al brindisi, gareggiare
intorno ad un tavolo a cantare e bere a turno, passarsi il mirto
cantando, ballare, far pantomime, non sono stati inventati dai sette
sapienti della Grecia ma da me, per la felicità dell'umana specie. Tutte le cose di
questo genere hanno un tratto comune: che quanto più partecipano
della follia tanto più rallegrano la vita dei mortali, che, se fosse
triste, neanche meriterebbe di essere chiamata vita. E triste risulterà
senz'altro, se non le toglierai di dosso l'innato tedio con questo
tipo di divertimenti. 19. Forse taluni
trascureranno anche questo genere di piacere e saranno paghi dell'amore
e della familiarità degli amici, affermando che l'amicizia vale
più di tutto: l'amicizia, un bene non meno necessario dell'aria,
del fuoco, dell'acqua; tanto soave che se togli l'amicizia togli
il sole; infine tanto nobile - ammesso che la cosa ci riguardi -
che gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni fondamentali.
Ma che succede se dimostro che anche di questo bene così grande
sono io la poppa e la prora? Io lo dimostrerò non col sofisma del
coccodrillo, non coi soliti cornuti o con altre simili dialettiche
sottigliezze, ma alla buona, facendovi toccare la cosa con mano. Orbene, chiudere
gli occhi, ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei
difetti degli amici, amarne e apprezzarne come qualità alcuni dei
vizi più evidenti, non è forse qualcosa di molto vicino alla follia?
C'è chi bacia il neo dell'amica, chi trova incantevole il polipo
di Agna; il padre dice del figlio strabico che ha il vezzo di ammiccare.
Tutto questo, io domando, che è, se non pura follia? Ripetano a
gran voce che è follia: eppure essa sola è capace di promuovere
e cementare le amicizie. Parlo dei comuni mortali, nessuno dei quali
nasce senza difetti: il migliore è chi ne ha meno; quanto poi a
quei famosi saggi che hanno il piglio di Dèi, tra loro l'amicizia,
o non nasce affatto, o è qualcosa di cupo e scostante, limitata
poi a pochissimi (non oso dire che non include proprio nessuno),
perché la maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia, anzi
non c'è nessuno che, in un modo o in un altro, non abbia le sue
stranezze, e non c'è amicizia se non tra persone simili. Se, infatti,
tra questi uomini austeri si desse una volta uno scambievole affetto,
non sarebbe per nulla stabile e durerebbe ben poco, nascendo tra
uomini difficili e più oculati del necessario, capaci di cogliere
i difetti degli amici con l'occhio acuto dell'aquila e del serpente
di Epidauro. Quando però si tratta dei loro difetti, come ci vedono
poco! e come ignorano la parte della bisaccia che portano dietro
le spalle! Perciò, dato che la natura dell'uomo è tale che nessuno
è immune da gravi difetti (aggiungi la grande varietà di caratteri
e di studi, le tante cadute, i tanti errori, i tanti casi della
vita mortale), come potranno questi Arghi gustare anche solo per
un'ora le gioie dell'amicizia se non interverrà quella che i Greci
chiamano EUETHEIA, termine felice da tradursi con follia, o con
indulgente semplicità? Del resto, non è forse del tutto cieco quel
Cupido, che è artefice e padre di ogni legame? E come il brutto
gli appare bello, così fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri
bello ciò che gli è toccato in sorte, che il vecchio ami la sua
vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono cose che accadono a ogni
piè sospinto e che muovono il riso; eppure sono proprio queste cose
ridicole il fondamento di una società che vive con gioia. 20. Quanto si è
detto dell'amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che
altro non è se non un legame per la vita tra singoli individui.
Dio immortale, quanti divorzi, o fatti anche peggiori dei divorzi,
non si avrebbero dappertutto, se la domestica convivenza del marito
con la moglie non si rafforzasse nutrendosi di adulazioni, di scherzi,
d'indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose che appartengono
al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato saggiamente
s'informasse dei passatempi a cui già molto prima delle nozze si
dedicava la sua verginella così delicata e pudica in apparenza.
E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese
delle mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza
dei mariti! E anche questo, a buon diritto, è da attribuirsi alla
Follia, a cui si deve se il marito ama la moglie e la moglie il
marito, se in casa regna la pace, se il vincolo dura. Si ride del cornuto,
del cervo (e quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga
con i baci le lacrime dell'adultera. Ma quanto meglio lasciarsi
ingannare così che rodersi di gelosia e volgere tutto in tragedia! 21. Insomma, senza
di me nessuna società, nessun legame potrebbe durare felicemente.
Il popolo si stancherebbe del principe, il servo del padrone, la
serva della padrona, il maestro dello scolaro, l'amico dell'amico,
la moglie del marito, il locatore del locatario, il compagno del
compagno, l'ospite dell'ospite, se volta a volta non s'ingannassero
a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente finta di non
vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi
sembrano enormità; ma ne sentirete di più belle. 22. Di grazia, chi
odia se stesso come potrà amare qualcuno? chi è interiormente combattuto,
potrà forse andare d'accordo con altri? potrà, chi è sgradito e
molesto a se stesso, riuscire gradevole a un altro? Nessuno, credo,
lo affermerebbe, se non fosse un pazzo più pazzo della Follia stessa.
Pertanto, se non ci fossi più io, lungi dal sopportare il prossimo,
ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto di sé e delle sue
cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre,
ha posto nell'animo dei mortali, soprattutto se appena più intelligenti,
il seme di questo male: scontento di sé e ammirazione per gli altri.
Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle squisite doti
che sono il profumo della vita. A che giova infatti la bellezza,
il massimo dono degli Dèi immortali, se deve esser lasciata sfiorire?
A che la giovinezza, se deve intristire per il veleno di senili
malinconie? Infine, in tutti i casi della vita, come potrai agire
in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti (agire come
conviene non è solo la prima regola dell'arte, ma di tutta la nostra
condotta), se non ti sarà propizia Filautìa, che a buon diritto
tengo in conto di sorella, tanto validamente mi presta il suo aiuto
in ogni occasione? Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è
proprio il colmo della follia; ma d'altra parte, dispiacendo a te
stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile?
Togli alla vita l'amor proprio e subito la parola suonerà fredda
sulle labbra dell'oratore, il musicista non piacerà a nessuno con
le sue melodie, l'attore si farà fischiare con la sua mimica, il
poeta e le sue muse saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore
con la sua arte, si ridurrà alla fame il medico con le sue medicine.
Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore,
invece di Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno
che non balbetta neanche una parola; invece di un distinto cittadino,
un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri,
devi proprio cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere
il primo a lodarti, e non senza una punta di adulazione. Infine, poiché la
felicità consiste soprattutto nel voler essere ciò che si è, qui
interviene col suo aiuto la mia Filautìa, facendo in modo che nessuno
sia scontento del proprio aspetto, carattere, schiatta, posizione,
educazione, Patria, tanto che né un irlandese si cambierebbe con
un italiano, né un tracio con un ateniese, né uno scita con un abitante
delle Isole Fortunate. O singolare bontà della natura che in tanta
varietà di cose, stabilì un regime di uguaglianza! Dove scarseggia
coi suoi doni, là, è solita aggiungere una dose maggiore di amor
proprio. Ma che sciocchezza ho detto! Proprio questo è il più grande
dei suoi doni. |