Elogio della follìa
Erasmo da Rotterdam |
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23. Ora dovrei aggiungere che nulla di grande si può intraprendere senza la mia spinta, perchè è a me che si deve l'invenzione di ogni nobile arte. Forse che non sia la guerra la fonte e il coronamento di ogni celebrata impresa? E che c'è di più pazzesco dell'impegnarsi, per non so quali cause, in un confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei caduti, poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le schiere in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro rauco suono, a che servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi, col loro sangue povero e privo di calore, e che a malapena tirano il fiato? C'è bisogno di gente ben piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello. A meno che non si preferisca arruolare Demostene, tanto vile soldato quanto grande oratore, che, seguendo il consiglio d'Archiloco, appena vide il nemico fuggì abbandonando lo scudo. La prudenza, obiettano,
in guerra ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda;
e si tratta di prudenza militare, non filosofica; per il resto,
l'impresa tanto egregia della guerra è affidata a parassiti, ruffiani,
briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri rifiuti
del genere; non a filosofi da tavolino. 24. Della cui totale
inutilità sul piano pratico è testimone lo stesso Socrate che l'oracolo
d'Apollo giudicò - con poco senno, del resto - il solo sapiente:
quando tentò d'impegnarsi in non so quale faccenda pubblica, fu
costretto a ritirarsi fra il generale dileggio. Anche se del tutto
sciocco non si dimostrò quando rifiutò il titolo di sapiente che
attribuì solo a Dio, e quando sostenne che il saggio non deve occuparsi
di politica; e meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani
dalla sapienza, se si vuol vivere da uomini. D'altra parte, quando
fu processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la
cicuta? Infatti mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre
misurava il salto delle pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare,
non imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i giorni.
In aiuto del maestro, sull'orlo di una condanna capitale, interviene
il discepolo Platone, difensore così egregio che, turbato dal rumoreggiare
della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata.
E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto animare i soldati
in guerra, lui che, levatosi a parlare, ammutolì di colpo come se
d'improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido per natura,
non osò mai aprire bocca. Marco Tullio, il padre della romana eloquenza,
abitualmente, preso da poco dignitoso tremore, esordiva balbettando,
come un ragazzino. Quintiliano vede in questo la prova dell'oratore
di valore, che misura le difficoltà; ma non farebbe meglio a dire
che la sapienza è un ostacolo a condurre in porto le faccende pratiche?
Che faranno costoro quando si dovrà ricorrere alle armi, se si perdono
d'animo così quando si combatte semplicemente a parole? Nonostante questo,
a Dio piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati
saranno gli Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se
i reggitori si daranno alla filosofia. Se, invece, consulterai gli
storici, troverai che il concentrarsi del potere nelle mani di un
filosofastro o di un letterato è la peggiore sciagura che possa
colpire uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni: uno
dei quali turbò la pace della repubblica romana con le sue pazze
denunce; l'altro, mentre difendeva con un eccesso di saggezza la
libertà del popolo romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi
a questi i Bruti, i Cassi, i Gracchi, e Cicerone stesso, che allo
stato romano fece tanto male quanto Demostene a quello ateniese.
Quanto a Marco Antonio, ammesso che fosse un buon imperatore (potrei
contestarlo, perché, dedito come era alla filosofia, per questa
stessa fama si era fatto prendere a noia dai concittadini) ammesso
tuttavia che lo fosse, certamente, lasciando dietro di sé il figlio
che lasciò, danneggiò lo Stato più di quanto non gli avesse giovato
col suo governo. Questa categoria, infatti, di uomini dediti allo
studio della filosofia, di solito ha pochissima fortuna in ogni
cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo; penso sia la
provvidenza della natura a volere impedire che questo malanno della
filosofia si diffonda più largamente fra gli uomini. Così risulta
che Cicerone ebbe un figlio degenere, e che Socrate, il famoso filosofo,
ebbe figli, com'è stato scritto non del tutto a torto, "più simili
alla madre che al padre", e cioè stolti. 25. Comunque, se
fossero come asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici
affari, ci si potrebbe passare sopra; il guaio è che sono altrettanto
incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a pranzo un
sapiente: disturberà col suo cupo silenzio, o con le sue noiose
questioncelle. Invitalo alla danza: diresti che balla come un cammello.
Portalo ad uno spettacolo: basterà la sua espressione a guastare
il divertimento alla gente e, come il saggio Catone, sarà costretto
a lasciare il teatro perché non può spianare il cipiglio. Se per
caso capiterà durante una conversazione, sarà come il lupo della
favola. Se c'è da fare un acquisto, un contratto, insomma qualcuna
delle cose indispensabili alla vita di ogni giorno, questo sapiente
ti sembrerà un pezzo di legno, non un uomo. A tal punto è incapace
di rendersi utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perché inesperto
delle faccende usuali e perché tanto lontano dal giudizio corrente
e dalle accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa anche odiare,
per questa sua grande diversità di vita e di intendimenti. Tra i
mortali, infatti, che cosa mai si fa che non trabocchi di follia,
e che non sia opera di folli in un mondo di folli? Perciò, se qualcuno
volesse opporsi da solo a tutti, io gli consiglierei di ritirarsi,
come Timone, in un deserto, per godervi, da solo, la propria saggezza. 26. Ma, per tornare
all'argomento proposto, quale forza, se non l'adulazione, raggruppò
nella città quegli uomini primitivi, simili ai sassi e alle querce?
Questo solo vuole indicare la famosa cetra di Anfione e di Orfeo.
Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe romana che già
stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso filosofico?
Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo e puerile apologo
del ventre e delle altre membra. Altrettanto si dica dell'analogo
apologo di Temistocle, della volpe e del riccio. E quale discorso
di un sapiente avrebbe potuto raggiungere l'efficacia della famosa
cerva immaginata da Sertorio, o della trovata dei due cani, dello
spartano Licurgo, o dell'altra ridicola storia, sempre di Sertorio,
sul modo di strappare i peli dalla coda del cavallo? Per non parlare
di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta moltitudine
con invenzioni favolose. E' con simili sciocchezze che si fa presa
su quella grossa e potente bestia che è il popolo. 27. Viceversa, quale
città ha mai fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i
precetti di Socrate? Che cosa persuase
i Deci a votarsi spontaneamente agli Dèi Mani? Che cosa trascinò
nella voragine Quinto Curzio, se non la vanagloria, dolcissima sirena
(ma quanto esecrata dai sapienti!). Che c'è infatti
di più sciocco, dicono, di un candidato che lusinga il popolo in
tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi
di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare
in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo, che fa
collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza
dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati a un uomo
insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi
elevati con pubbliche cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche
manifestazioni di follia, e per riderci sopra non basterebbe un
solo Democrito. Chi lo nega? Tuttavia, proprio di qui sono nate
le grandi imprese degli eroi, levate al cielo dall'opera di tanti
letterati. Questa follia genera le città; su di essa poggiano i
governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali.
La vita umana non è altro che un gioco della Follia. 28. Quanto poi alle
arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell'animo
umano la brama d'inventare e tramandare ai posteri tante discipline
ritenute nobili? Furono uomini davvero stoltissimi quelli che hanno
creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose
veglie quella fama di cui niente può essere più vano. Ma intanto
voi dovete alla Follia tante cose e così egregie della vita, e,
ciò che soprattutto conta, la follia altrui fa la vostra cuccagna. 29. C'è, ora, qualcosa
di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l'operosità,
rivendicherò anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che è come
accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo che riuscirò anche in
questo purché voi, come prima, mi prestiate benevola attenzione.
In primo luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza, a chi meglio
conviene fregiarsi dell'appellativo di saggio? Al sapiente che,
parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al
folle che né il pudore, di cui è privo, né il pericolo, che non
misura, distolgono da qualche cosa? Il sapiente si rifugia nei libri
degli antichi e ne trae solo sottigliezze verbali. Il folle affronta
da vicino le situazioni coi relativi rischi e così acquista, se
non erro, la saggezza. Cosa, questa, che sembra avere visto, benché
cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i fatti". Sono due
infatti i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna
che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie
dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai
e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi. perché, se preferiscono
attingere quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle
cose, state a sentire, vi prego, quanto ne sono lontani coloro che
si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'è noto, tutte le
cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce affatto
diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono, vedi
la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa,
al posto della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto,
della ricchezza la miseria, dell'infamia la gloria, della dottrina
l'ignoranza, del vigore la debolezza, della generosità l'abiezione,
della letizia la malinconia, della prosperità la sventura, dell'amicizia
l'inimicizia, del salutare il nocivo: in breve, se apri il Sileno,
trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno giudica troppo
filosofico questo discorso, mi spiegherò, come suol dirsi, più alla
buona. Chi negherà che
un re è ricco e potente? Eppure, se manca del tutto dei beni dell'animo,
se non è mai contento di nulla, è davvero il più povero di tutti.
Se poi il suo animo è una sentina di vizi, è addirittura uno schiavo
abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare anche per gli altri.
Ma accontentiamoci dell'esempio proposto. A che scopo? domanderà
qualcuno. State a sentire dove voglio arrivare. Se uno tentasse
di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano
un dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse
che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser preso
da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di
colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al
posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un re, d'improvviso
diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo
da nulla. Dissipare l'illusione significa togliere senso all'intero
dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio
la finzione, il trucco. L'intera vita umana non è altro che uno
spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un'altra, ognuno
recita la propria parte finché, ad un cenno del capocomico, abbandona
la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse,
in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora,
compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose
immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento. A questo punto,
se un sapiente caduto dal cielo si levasse d'improvviso a gridare
che il personaggio a cui tutti guardano come a un Dio e a un potente,
non è neppure un uomo, perché come le bestie si lascia dominare
dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni così numerosi
e turpi, è l'ultimo degli schiavi; e, se ad un altro che piange
il padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente,
ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte;
e se chiamasse plebeo e bastardo un terzo che mena vanto di una
nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte di
nobiltà: se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe
costui proprio in modo da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla
di più stolto di una saggezza intempestiva; nulla di più fuori posto
del buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso
chi non sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti,
e dimentica persino la regola conviviale: o bevi o te ne vai, e
vorrebbe che una commedia non fosse più una commedia. Invece, per
un mortale, è vera saggezza non voler essere più saggio di quanto
gli sia concesso in sorte, fare buon viso all'andazzo generale e
partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio
questo è follia. Non lo contesterò, purché riconoscano in cambio
che questo è recitare la commedia della vita. 30. Quanto al resto,
Dèi immortali, parlerò o tacerò? E perché mai dovrei tacere cose
più vere della verità? Ma forse, in così grave frangente, meglio
sarebbe chiamare in aiuto dall'Elicona le Muse che i poeti sono
soliti invocare anche troppo spesso per vere sciocchezze. Assistetemi
dunque per un poco, figlie di Giove, finché non dimostri che nessuno
senza la guida della follia può accedere alla sapienza, a quella
che chiamano la rocca della felicità. In primo luogo,
è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia:
ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare
dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione. Perciò
gli stoici spogliano il sapiente di tutte le passioni come fossero
delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi, non solo assolvono
la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza,
ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando
e stimolando, come forze che esortano al bene. Anche se qui fieramente
leva la sua protesta Seneca, col suo stoicismo integrale, negando
al sapiente ogni passione. Ma così facendo distrugge anche l'uomo
e crea al suo posto un Dio di nuovo genere, che non è mai esistito
e non esisterà mai; anzi, per parlare ancora più chiaro, scolpisce
la statua di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di qualunque
sentimento umano. Perciò, se lo desiderano, si godano pure il loro
saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui nella
Repubblica di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee,
o nei giardini di Tantalo. Chi, infatti, non
sfuggirà con orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto, sordo
ad ogni naturale richiamo, incapace d'amore o di pietà, come "una
dura selce o una rupe Marpesia"? Un uomo cui non sfugge nulla, che
non sbaglia mai, ma che con l'occhio acuto di Linceo tutto vede,
tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona; solo di sé contento,
lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui solo libero. Per
dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza amici,
pronto a mandare all'inferno gli stessi Dèi, e che condanna come
insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita. Eppure quel
perfetto sapiente è proprio un animale fatto così. Ma, di grazia,
se si dovesse decidere con i voti, quale città lo vorrebbe come
magistrato, quale esercito lo designerebbe come capo? Quale donna
vorrebbe o sopporterebbe un simile marito, quale anfitrione un simile
convitato, quale servo un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe
un uomo qualunque, uno della folla dei pazzi più segnalati, che,
pazzo com'è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando
la simpatia dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la
moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si possa
convivere, che, infine, non ritenga estraneo a sé niente di ciò
che è umano? Ma ormai del sapiente ne ho abbastanza. Perciò torniamo
a parlare degli altri vantaggi che offro. 31. Supponiamo che
potendo spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno
- come, secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino
la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa
l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza,
tutti gli affanni della gioventù, e com'è pesante la vecchiaia,
come amara la fatale morte; tutta la schiera delle malattie, dei
vari accidenti, l'incalzare delle contrarietà: nulla mai che sia
immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l'uomo
subisce dall'uomo, come la povertà, la prigionia, l'infamia, la
vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i
processi, le frodi. Ma dire tutto è come mettersi a contare i granelli
di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui per quali colpe gli uomini
abbiano meritato questa sorte, o quale Dio irato li abbia costretti
a nascere tanto infelici. Chi rifletta a tutto questo non sarà forse
portato ad approvare l'esempio, pur così penoso, delle vergini di
Mileto? E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della
vita, si sono dati la morte? Non sono forse quelli che alla sapienza
si erano accostati di più? Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni,
i Cassi, i Bruti, prendiamo il famoso Chirone che, potendo diventare
immortale, preferì cercare spontaneamente la morte. Credo vi sia
chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si diffondesse; sarebbe
necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di plasmare
altri uomini. Io, invece, puntando ora sull'ignoranza e ora sulla
spensieratezza, a volte facendo dimenticare i malanni, a volte suscitando
speranze di cose favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla
di miele, in così grandi malanni, sono così soccorrevole che nessuno
vuole lasciare la vita, neppure quando il filo delle Parche è già
esaurito e la vita stessa viene meno. Anzi chi ha minori motivi
di restare in vita, tanto più ama vivere, tanto è lontano dall'essere
comunque sfiorato dal tedio della vita. Si deve certo a
me, se si vedono in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi
che non hanno più neppure volto d'uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati,
canuti, calvi, o, per dirla con Aristofane, lerci, curvi, miseri,
rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti
della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che ora si tingono
i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e ora si
servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c'è
tra loro chi si strugge d'amore per una fanciulla e, in fatto di
amorose sciocchezze, dà punti anche a un ragazzino. Che vecchi rammolliti,
già pronti per il cataletto, sposino giovinette, anche se prive
di dote e destinate a fare la gioia di altri, è cosa ormai così
frequente da costituire quasi motivo di vanto. Ma nulla c'è di
più spassoso di certe vecchie praticamente già morte tanto sono
decrepite, a tal punto cadaveriche da sembrare reduci dagl'inferi,
ma che hanno sempre sulle labbra il ritornello: "la vita è bella";
fanno ancora le vezzose; mandano sentore di capra - come dicono
i Greci; conquistano a caro prezzo un qualche Faone, s'imbellettano
di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono i peli
del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano con
tremuli mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono
nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono
cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; ed hanno ragione:
ma loro, le vecchie, sono tanto contente di sé, nuotano in un mare
di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e tutto per
merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d'irrisione
riflettesse un po': è meglio trascorrere nella follia una vita colma
di dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una trave a cui
impiccarsi? Che la loro condotta
sia giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa
proprio nulla: nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore,
non ne tengono nessun conto. Prendersi un sasso in testa, questo
sì che fa male. La vergogna, l'infamia, il disonore, le offese,
nuocciono nella misura in cui fanno soffrire. Per chi non se la
prende, non sono neppure un male. Che t'importa se tutti ti fischiano,
se tu ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola
Follia. 32. Mi pare di sentire
protestare i filosofi: l'infelicità, dicono, è proprio qui, nell'essere
prigionieri della Follia, sbagliare, vivere nell'inganno, nell'ignoranza.
Ma essere uomo è appunto questo. né riesco a capire perché parlino
d'infelicità: così siete nati, educati, formati: questa è la sorte
comune a tutti. Nessuno è infelice quand'è in armonia con la propria
natura, a meno di compiangere l'uomo perché non può volare con gli
uccelli, né camminare a quattro zampe con gli altri mammiferi, o
perché, a differenza dei tori, non è armato di corna. Da tal punto
di vista chiameremo infelice anche un bellissimo cavallo perché
non sa di grammatica e non mangia dolciumi, infelice il toro in
quanto negato agli esercizi della palestra. In realtà, come non
è infelice il cavallo che ignora la grammatica, così non è infelice
l'uomo per la sua follia, che è conforme alla sua natura. Ma ecco che quegli
esperti del ragionamento tortuoso tornano alla carica. E' dono peculiare
dell'uomo, dicono, la conoscenza scientifica, di cui si serve per
compensare con l'ingegno ciò che la natura gli ha negato. Come se
fosse verosimile che la natura, così sollecita nei confronti delle
zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, avesse tirato
via solo nella creazione dell'uomo, rendendogli necessarie quelle
scienze che Theuth, col suo genio ostile al genere umano, inventò
per nostra somma iattura: tanto inadatte a renderci felici che anzi
contrastano col loro presunto fine, come con eleganza sostiene in
Platone un re molto saggio a proposito dell'invenzione dell'alfabeto.
Le scienze dunque sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre
calamità della vita mortale, per opera di coloro da cui partono
tutti i malanni, i demoni che ne hanno anche derivato il nome, in
greco DAEMONES, ossia "coloro che sanno". La gente semplice dell'età
dell'oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l'unica guida
della natura e dell'istinto. Che bisogno c'era della grammatica,
quando tutti parlavano la stessa lingua e niente altro si chiedeva
se non di capirsi l'un l'altro? A che la dialettica, se non c'era
contrasto di opposte posizioni? A che la retorica, se nessuno intentava
cause al prossimo? E che bisogno c'era della giurisprudenza, se
non c'erano quei cattivi costumi che, senza dubbio, hanno fatto
nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con
empia curiosità i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl'influssi
delle stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai
mortali il tentativo di conoscere più di quanto era loro concesso.
Lo stolto desiderio di andare a cercare cosa ci fosse di là dal
cielo non passava neppure per la mente. Col graduale esaurirsi dell'età
dell'oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate
le scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con la loro
superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi loro interessi svagati,
moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente.
Con la sola grammatica ce ne sarebbe già di troppo per il tormento
di una vita intera. 33. Tuttavia tra
queste scienze le più pregiate sono le più vicine al senso comune,
cioè alla Follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono il
freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano nulla,
mentre un solo medico vale quanto molti uomini. In questa professione
quanto più uno è ignorante, avventato, leggero, tanto più è considerato
dagli stessi prìncipi con tanto di corona in testa. La medicina,
infatti, specialmente come viene esercitata oggi dai più, si riduce,
come la retorica, a una forma di adulazione. Il secondo posto, con
un brevissimo stacco, spetta ai legulei - e starei per dire il primo;
la loro professione, per non esprimere pareri personali, è irrisa
per lo più dai filosofi, fra il generale consenso, come un'arte
da asini. Tuttavia gli affari, dai più grandi ai più piccoli, sono
a discrezione di questi asini. I loro latifondi si estendono, mentre
il teologo, dopo essersi documentato su tutti gli aspetti della
divinità, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua con
cimici e pidocchi. Ma, se le arti più
fortunate sono quelle più affini alla Follia, più fortunati fra
tutti sono coloro che riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina
per seguire la sola guida della natura che in nessuna parte è manchevole,
a meno che non pretendiamo di oltrepassare i confini della nostra
sorte mortale. La natura odia gli artifici: fortunato chi è rimasto
immune dalla contaminazione delle arti. 34. Orsù, non vedete
che fra le varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio
le più lontane dalle arti, quelle che hanno per unica maestra e
guida la natura? che c'è di più felice o mirabile delle api? E dire
che non hanno neppure tutti i sensi. Come potrebbe un architetto
realizzare qualcosa di simile alle loro costruzioni? quale filosofo
mai fondò una Repubblica come la loro? Il cavallo, invece, poiché
è simile all'uomo dal punto di vista dei sensi ed è diventato suo
compagno, è anche partecipe delle umane calamità. Non di rado, vergognandosi
di perdere in gara, si sfianca nella corsa; in guerra, assetato
di vittoria, viene colpito e morde la polvere insieme al cavaliere.
Per non parlare del morso, degli sproni aguzzi, della stalla dove
è quasi prigioniero, del frustino, del bastone, delle redini, del
cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica schiavitù a cui
si è votato spontaneamente nel tentativo di vendicarsi a ogni costo
del nemico emulando gli eroi. Quanto più invidiabile la condizione
delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo
solo al naturale istinto, sempre che lo consentano le insidie degli
uomini! Gli uccelli, infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare
la voce umana, quanto si allontanano dal primitivo splendore! A
tal segno, sotto tutti i rispetti, il prodotto di natura è migliore
di quello che l'arte ha adulterato. Perciò non loderò
mai abbastanza il gallo in cui si reincarnò Pitagora che, essendo
stato tutto, filosofo, uomo, donna, re, principe, privato cittadino,
pesce, cavallo, rana e, credo, anche spugna, nessun animale, tuttavia,
giudicò più disgraziato dell'uomo, perché, mentre tutti gli altri
sono contenti dei loro limiti naturali, soltanto l'uomo tenta di
oltrepassare i confini della sua condizione. 35. E tra gli uomini,
sotto molti punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi.
Molto più saggio di Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo che
preferì di grugnire in un porcile piuttosto che andare con lui incontro
a tante calamità. Mi pare la pensi così anche Omero, padre delle
favole, che, mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati,
e a più riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza,
non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di
Achille. perché mai? Soltanto perché, quell'astuto inventore di
trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade, e, quanto mai sordo
a ogni richiamo della natura, era tutto cervello. Perciò i più lontani
dalla felicità sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza,
doppiamente stolti perché, dimentichi della loro condizione di uomini,
si atteggiano a Dèi immortali e, a somiglianza dei giganti, dichiarano
guerra alla natura valendosi di ordigni costruiti dalla loro perizia;
i meno infelici, invece, sembrano quelli che restano più vicini
all'istinto e alla stupidità dei bruti, né tentano mai di oltrepassare
le capacità dell'uomo. Proverò anche a dimostrarlo, e non con gli
entimèmi degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di tutti.
Per gli Dèi immortali, vi è forse al mondo qualcosa di più felice
di quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti,
fatui, sciocchi? appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò
anzi una cosa che, se a prima vista può sembrare una sciocchezza
ed un'assurdità, in fondo è di una verità indiscutibile. Loro, innanzitutto,
non hanno paura della morte, male, per Giove, non trascurabile.
Non li tormentano rimorsi di coscienza; non li turbano le storie
degli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni; non
si crucciano per il timore di mali incombenti; non entrano in ansia
nella speranza di beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei mille
affanni a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il
timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi più si avvicina
alla stupidità dei bruti - ne sono garanti i teologi - è anche immune
dal peccato. Ed ora, mio sciocchissimo saggio, vorrei che tu mi
esternassi tutti gli affanni che notte e giorno tormentano il tuo
animo e facessi un bel mucchio di tutti i tuoi guai; alla fine capiresti
quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi che, non
solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo,
ma offrono anche a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere,
scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio
a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita
umana. Perciò, mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti
diversi verso i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono
senza eccezione sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono,
li stringono in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza,
li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possono dire o
fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci
li risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza.
Infatti sono davvero sacri agli Dèi, e a me in particolare. Perciò,
a buon diritto, sono da tutti onorati. 36. Grandi re, tanto
se ne dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un'ora, possono
farne a meno né a tavola né a passeggio. Non di poco preferiscono
questi buffoni agli austeri filosofi, che tuttavia sono soliti mantenere
per ragioni di prestigio. perché poi li preferiscano, non mi sembra
un mistero, né deve destare stupore; quei saggi, per i prìncipi,
sono solo apportatori di tristezza; talora fidando nella loro dottrina,
non si peritano di sfiorare quelle orecchie delicate con qualche
pungente verità. I buffoni, invece, offrono ai prìncipi la sola
cosa che questi desiderano con tutta l'anima: delizie come passatempo,
scherzi, risate, divertimenti. E non dimenticate anche questa non
trascurabile dote dei folli: solo loro sono schietti e veritieri. E che c'è mai di
più lodevole della verità? Anche se in Platone un detto d'Alcibiade
attribuisce la verità al vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia
di un elogio che, in assoluto, spetta soprattutto a me. Ne fa fede
Euripide che a me si riferisce col celebre detto: "Il folle dice
cose folli". Il folle porta scritto in faccia, e traduce in parole,
tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo Euripide,
hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell'opportunismo.
E' loro caratteristica mutare il nero in bianco, spirando dalla
medesima bocca ora il freddo ora il caldo, avendo in fondo al cuore
tutt'altro da quello che dicono nei loro artefatti discorsi. Nella
loro fortuna i prìncipi a me sembrano sotto questo rispetto molto
sfortunati: non hanno nessuno che dica loro la verità, e sono costretti
ad avere come amici degli adulatori. Ma, si potrebbe
osservare, le orecchie dei prìncipi detestano la verità e proprio
per questo rifuggono dai saggi, nel timore che qualcuno di lingua
più sciolta osi dire cose vere piuttosto che gradevoli. Così è:
i re non amano la verità. Tuttavia proprio questo si volge mirabilmente
in vantaggio per i miei folli: da loro si ascoltano con piacere,
non solo la verità, ma anche indubbie insolenze, a tal punto che,
la stessa cosa, detta da un sapiente, gli frutterebbe la morte,
detta da un buffone diverte il signore oltre ogni dire. La verità,
infatti, ha un non so quale schietta capacità di piacere, purché
non si accompagni all'intenzione di offendere: ma questo è un dono
che gli Dèi hanno elargito ai soli folli. Sono press'a poco
medesime le ragioni per cui le donne, più inclini per natura al
divertimento e alle frivolezze, si trovano di solito tanto bene
con un simile genere di uomini. Perciò, qualunque cosa costoro facciano
- anche se a volte sono cose fin troppo serie - le donne, tuttavia,
le volgono in scherzo e gioco, abili come sono nel mascherare ogni
loro trascorso. 37. Ma ora torniamo
alla felicità dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia, senza
né il timore né il senso della morte, se ne vanno diritti ai campi
Elisi, per dilettare anche lì, coi loro scherzi, il riposo delle
anime pie. Paragoniamo quindi
la condizione del saggio con quella di questo buffone. Immagina,
per contrapporlo a lui, un modello di sapienza: un uomo che abbia
consumato tutta la fanciullezza e l'adolescenza a istruirsi in mille
modi, perdendo la parte migliore della propria vita in veglie senza
fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della
propria vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre parco,
povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso
e inviso agli altri; pallido, macilento, cagionevole; invecchiato
e incanutito prima del tempo, colto da morte prematura, anche se
nulla importa, dopo tutto, quando muore un uomo così, che non è
mai vissuto. Ecco l'immagine perfetta del sapiente. 38. A questo punto,
sento che le rane del Portico si rimettono a gracidare contro di
me. "Niente, dicono, è più miserevole della demenza. Ma una eminente
follia è molto vicina alla demenza, o è demenza essa stessa. Che
cosa infatti è la demenza, se non l'uscire di senno? e costoro ne
sono usciti del tutto. "Orsù, vediamo di confutare con l'aiuto delle
Muse anche questo sillogismo". Certo il loro ragionamento è sottile,
ma, come il Socrate platonico, procedendo per divisione, di una
Venere e di un Cupido ne faceva due, così anche i nostri dialettici,
se volevano apparire in senno, dovevano distinguere dissennatezza
da dissennatezza. Infatti non ogni follia è fonte di guai. Altrimenti
Orazio non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un'amabile
follia?", né Platone avrebbe collocato il delirio dei poeti, dei
vati e degli amanti tra i massimi doni della vita; né la Sibilla
avrebbe chiamato folle l'impresa di Enea. In verità ci sono
due specie di follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte
che le crudeli dee della vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano
nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile sete di oro,
o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri
consimili orrori; oppure quando travagliano con le furie e le faci
tremende, un animo conscio dei propri delitti. L'altra, non ha nulla
in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta
ogni volta che una dolce illusione libera l'animo dall'ansia e lo
colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli. Proprio questa illusione
Cicerone, scrivendo ad Attico, augura a se stesso come un gran dono
degli Dèi, per potersi liberare dall'oppressione dei gravi mali
incombenti. né aveva torto quell'argivo che era pazzo al punto da
sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo, applaudendo,
godendosela, perché credeva vi si rappresentassero tragedie bellissime,
mentre non si rappresentava proprio nulla. Eppure, in tutte le altre
faccende della vita, era perfettamente normale: cordiale con gli
amici, "gentile con la moglie, capace di perdonare ai servi e di
non dare in escandescenze se il sigillo rotto denunciava la bottiglia
aperta". Guarito dalle cure dei familiari che gli somministrarono
le medicine del caso, tornato del tutto in sé, così si lamentava
con gli amici: "Per Polluce! m'avete ammazzato, amici miei, e non
salvato, privandomi del piacere e togliendomi con la forza quella
mia così dolce illusione". Aveva ragione: erano
loro che sbagliavano e che, più di lui, avevano bisogno dell'elleboro,
loro che credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse
un malanno, una così felice e piacevole follia. Tuttavia non ho
ancora accertato se qualunque errore del senso o della mente meriti
il nome di follia. Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un
asino, se un altro ammira come un monumento di dottrina una rozza
poesia, non si può senz'altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia,
non solo col senso, ma anche col giudizio della mente, e questo
gli accade sempre e in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo
che ha un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare,
credesse di ascoltare un meraviglioso concerto, o chi, povero e
di umili origini, credesse di essere Creso, re di Lidia. Ma quando
questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli,
è di non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti,
sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta,
si badi, di un'affezione molto diffusa; più di quanto di solito
si crede. Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto.
E non di rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, è il più pazzo
quello che più si prende gioco dell'altro. 39. Eppure, ve lo
assicura la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più
la sua follia è multiforme, purché si mantenga entro il genere a
me peculiare: un genere così diffuso che non so se fra tutti gli
uomini se ne possa trovare uno solo che sia costantemente saggio,
e che sia del tutto immune da una qualche forma di pazzia. La differenza
è tutta qui: chi vedendo una zucca la scambia per la moglie, viene
chiamato pazzo perché la cosa succede a pochissimi. Chi invece,
avendo la moglie in comune con molti, giura che è più virtuosa di
Penelope, e, felice del suo errore, è orgoglioso di sé, nessuno
lo chiama pazzo, perché la cosa accade spesso e dovunque. Appartengono alla
confraternita anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad
una partita di caccia, e vanno dicendo di provare un incredibile
piacere tutte le volte che sentono il suono cupo del corno e l'abbaiare
dei cani. Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li annusano,
mandino per loro profumo di cinnamomo. E quale dolcezza squartare
la selvaggina! L'umile plebe può squartare tori e castrati, ma sarebbe
un delitto farlo con un capo di selvaggina: questa è prerogativa
di nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col
coltello destinato allo scopo (è vietato servirsi di uno strumento
qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate
membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda,
ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito, mentre si
tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi uno ha la fortuna
d'assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare non poco
in nobiltà. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina,
mentre ottengono solamente di trasformarsi press'a poco in fiere,
si illudono invece di menar vita da re. Molto simili sono
quanti, in preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano
il quadrato in rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari
di ogni limite e misura finché, ridotti in estrema povertà, non
hanno più né tetto né cibo. Ma che gli importa del dopo? Intanto,
per alcuni anni, sono stati immensamente felici. Molto vicini a costoro,
mi pare, sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare
la natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta
essenza. Si nutrono di una speranza così dolce da non tirarsi mai
indietro di fronte a spese o fatiche, e con mirabile spirito inventivo
ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di più e per
rivestire l'inganno di liete apparenze, finché, dato fondo a tutto
il loro, non possono costruire più niente, nemmeno un fornello.
Non per questo, tuttavia, smettono di sognare i loro bei sogni,
ma spingono con tutte le loro forze anche gli altri verso la medesima
felicità. E quando l'ultima speranza li ha abbandonati, resta tuttavia,
a consolarli pienamente, un detto: le grandi cose basta averle volute.
Accusano allora la brevità della vita, inadeguata alla grandezza
dell'impresa. Sono in dubbio se
annoverare nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia è decisamente
uno spettacolo di spassosa follia vedere a volte gente così schiava
del gioco da sentirsi venire le palpitazioni appena giunge al loro
orecchio il rumore di dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo
della speranza di vincere, vedono naufragare tutta la loro fortuna,
infranta contro lo scoglio del gioco, ben più insidioso del Capo
Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la fama di
uomini poco seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi nel gioco
li ha vinti. E che dire di quando, ormai vecchi, con la vista che
vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare? E quando infine
la meritata gotta impedisce l'uso delle mani, arrivano a pagare
un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi. Gran bella
cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non volgesse in passione
rabbiosa; ma qui siamo ormai nel regno delle Furie, non nel mio. 40. E' senza dubbio
della mia pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono
ad ascoltare o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici
e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si parla di eventi
portentosi, di spettri, di fantasmi, di larve, degl'inferi, o di
altre innumerevoli cose del genere. Quanto più la favola si scosta
dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più voluttuosamente
le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile
passatempo contro la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente
per i sacerdoti ed i predicatori. Sono della stessa
razza quanti nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere
esposti a morire in giornata, se hanno visto il simulacro ligneo
o l'immagine dipinta di un gigantesco san Cristoforo (il nuovo Polifemo);
o credono di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto
le debite preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi
in breve rendendo omaggio a sant'Erasmo in certi giorni, con speciali
moccoli e determinate formulette. In san Giorgio hanno scoperto
una specie di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano
il suo cavallo dopo averlo adornato con la massima devozione di
falere e di borchie, né risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi
la benevolenza del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo
loro, è proprio degno di un re. Che dire poi di
quelli che, nella dolcissima illusione di immaginarie indulgenze
accordate ai loro peccati, computano quasi con l'orologio alla mano
il periodo da passare in purgatorio, numerando secoli, anni, mesi,
giorni, ore, secondo una sorta di tavola matematica sicura al cento
per cento. O di quelli che fidando in segni magici o in giaculatorie
inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale disposizione,
o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze: ricchezze,
onori, piaceri, abbondanza di tutto, una salute costantemente ottima,
una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei
cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, però, senza fretta,
per carità; ben vengano le delizie dei beati, ma quando, con disappunto,
dovranno lasciare i piaceri della vita a cui sono abbarbicati con
le unghie e coi denti. Immagina un negoziante,
ma anche un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina
dopo tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il
fango di un'intera vita, un'autentica palude di Lerna, e ritiene
che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse,
tante stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti,
siano riscattati come in base ad un regolare patto, e riscattati
al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti. E chi è più folle,
o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti
del salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata? A indicare
a san Bernardo quei magici versetti si crede sia stato un demone
faceto, più sciocco invero che furbo, se, poveretto, rimase intrappolato
nel suo stesso inganno. Roba da matti! persino io me ne vergogno.
Sono cose, tuttavia, che godono l'approvazione, non solo del volgo,
ma anche di chi propina insegnamenti religiosi. O non è forse lo
stesso caso di quando ogni regione reclama il suo particolare santo
protettore, ognuno coi suoi poteri, ognuno venerato con determinati
riti? questo fa passare il mal di denti; quello assiste le partorienti.
C'è il santo che fa recuperare gli oggetti rubati, quello che rifulge
benigno al naufrago, un altro che protegge il gregge; e via discorrendo.
Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono
essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio,
alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio. 41. Infine, che
cosa chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di
follia? Fra tanti ex-voto di cui sono zeppe le pareti, e persino
le volte di certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse guarito
dalla follia, o che fosse diventato, sia pure uno zinzino, più saggio?
Qualcuno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico, è riuscito
a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre gli altri combattevano,
ne è uscito con fortuna salvando anche l'onore; uno, con l'aiuto
di un santo protettore dei ladri, è caduto dal patibolo per poter
continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le
meritano. Chi è fuggito dal carcere forzando la porta; un altro
è guarito dalla febbre con disappunto del medico; a uno la bevanda
velenosa non è stata letale, perché, sciogliendogli il corpo, gli
è servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che
si era data da fare per niente. Un uomo, pur essendoglisi rovesciato
il carro, ha riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora,
rimasto sotto le macerie, è sopravvissuto; uno, infine, colto sul
fatto da un marito, è riuscito a svignarsela. Nessuno che renda
grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare
di senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma
perché poi mi vado a cacciare in questo mare di superstizioni? "Cento
lingue, cento bocche, un'ugola di ferro, non mi basterebbero a enumerare
tutte le varietà di pazzi, a elencare tutte le forme di follia."
(Virgilio, "Eneide"). A tal punto la cristianità intera trabocca
di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi sono pronti ad
ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che di solito
ne viene. Se però nel frattempo qualche odioso saggio si levasse
a dire le cose come stanno - "morirai bene, se bene hai vissuto;
laverai i tuoi peccati, se all'offerta di una moneta aggiungerai
il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e un radicale
cambiamento di vita; avrai la protezione di questo Santo, se ne
imiterai la vita" -; se quel saggio si mettesse a ripetere queste
cose ed altre del genere, vedresti in quale sgomento farebbe precipitare
le anime dei mortali, prima così colme di letizia! Rientrano in questa
congrega coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale
con tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappati,
dei cantori, dei lamentatori di mestiere, come se dovessero avere
un qualche sentore dello spettacolo, o se da morti potessero vergognarsi
qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza,
a somiglianza di chi, elevato ad una carica, si preoccupa di organizzare
giochi e banchetto. 42. Per quanto cerchi
di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro
che, in nulla diversi dall'ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia
oltremodo di un vano titolo nobiliare. Chi, a sentir lui, discende
da Enea, chi da Bruto, chi da Arturo; mostrano da ogni parte gli
antenati in effigie, ritratti da scultori e pittori. Ti enumerano
uno dopo l'altro bisavoli e trisavoli ricordandone gli antichi soprannomi,
mentre per parte loro non dicono molto di più di una muta statua,
anzi dicono meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia il dolce
amore di sé li fa vivere in perfetta letizia. né mancano gli sciocchi
che guardano a questa razza di animali come se fossero divinità. Ma perché perdermi
a parlare dell'una o dell'altra specie di gente, come se dappertutto
la nostra Filautìa non fosse per tanti, e nelle forme più inattese,
fonte di grandissima felicità? Questo qui è più
brutto di una scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha
tracciato tre linee col compasso, si crede Euclide. Un altro ancora,
che sta come un asino davanti alla lira, ed ha mezzi vocali degni
di un gallo in amore quando si avventa sulla gallina, s'immagina
di essere un secondo Ermogene. Un posto a parte merita quell'ineffabile
genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi ha delle doti,
se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente
felice di cui parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella,
teneva d'intorno i servi perché gli suggerissero i nomi; e, fidando
nel fatto di averne in casa tanti assai ben piantati, pur essendo
così debole da reggere l'anima coi denti, non avrebbe esitato a
cimentarsi in una gara di pugilato. A che ricordare
chi fa professione di artista? La filautìa è peculiare a tutta questa
gente a tal segno, che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere
il campicello paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto
nell'ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti.
Quanto più uno lascia a desiderare, tanto più è arrogante nell'autocompiacimento,
tanto più si vanta, tanto più si gonfia. Il simile ama il simile,
e quanto meno si vale tanto più si è ammirati; i più vanno sempre
dietro alle cose peggiori, perché, come ho detto, la maggior parte
degli uomini è soggetta alla follia. Quindi, se chi è più ignorante
è più contento di sé e ha più largo successo, cosa mai lo dovrebbe
indurre ad optare per una cultura autentica, che in primo luogo
gli costerebbe parecchio, e in secondo luogo lo renderebbe più fragile
e più timido; e, infine, restringerebbe sensibilmente la cerchia
dei suoi ammiratori. 43. Mi rendo conto
che la natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli
individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna
nazione, e starei per dire di una stessa città. Di qui la pretesa
degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della
bellezza, della musica, delle laute mense; gli Scozzesi vantano
nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i Francesi
rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la
palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo;
gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell'eloquenza;
e si cullano tutti nella dolcissima convinzione di essere i soli
non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità,
sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell'antica Roma;
quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci,
quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei
loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di autentici barbari,
pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono
i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli
Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia, e ancor
oggi si tengono aggrappati al loro Mosè; gli Spagnoli non la cedono
a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono
dell'alta statura e della conoscenza della magia. 44. Senza andare
dietro ai casi particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere
venga dalla Filautìa agli individui e ai mortali in genere. Le sta
quasi alla pari la sorella Adulazione. La filautìa, infatti,
consiste nell'accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si
tratta di adulazione. Oggi, però, l'adulazione non gode buona fama;
ma questo fra coloro per cui le parole valgono più delle cose. Ritengono
che l'adulazione non si può accompagnare alla fedeltà, mentre potrebbero
rendersi conto di quanto sbagliano, solo se guardassero all'esempio
che viene dalle bestie. Chi, infatti, più adulatore del cane? e,
al tempo stesso, chi più fedele? Chi è più carezzevole dello scoiattolo?
ma chi più di lui amico dell'uomo? A meno che non si vogliano considerare
più utili all'uomo i fieri leoni, e le crudeli tigri, o i feroci
leopardi. Anche se è vero che c'è una forma d'adulazione davvero
perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui,
li portano alla rovina. Questa mia adulazione, invece, ha radice
in un certo bonario candore ed è molto più vicina alla virtù di
quella durezza e severità ruvida e stizzosa, di cui parla Orazio,
e che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora gli animi
abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall'inerzia, sveglia
gli ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace
fra gli innamorati e ne conserva la buona armonia. Attira i fanciulli
allo studio delle lettere, rallegra i vecchi, ammonisce ed ammaestra
i prìncipi senza offenderli, sotto specie di lodarli. Insomma, fa
in modo che ciascuno sia di sé più contento e a sé più caro, il
che è parte della felicità, e addirittura la parte più importante.
Che cosa può esservi di più gentile di due muli che si grattano
a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione è una notevole
parte della celebrata eloquenza, e costituisce la parte maggiore
della medicina; della poesia poi è la componente massima. Ed è miele
e condimento di tutte le relazioni umane. 45. Ma è male, dicono,
essere ingannati; c'è molto di peggio: non essere ingannati. Sono,
infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità
dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle.
Infatti tale è l'oscurità e varietà delle cose umane che niente
si può sapere con chiarezza, come giustamente affermano i miei Accademici,
i meno presuntuosi dei filosofi. Se poi qualcosa
si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano,
infine, è fatto in modo tale che la finzione lo domina molto più
della verità. Chi ne volesse trovare una prova facilmente accessibile,
potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se il discorso
si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se
l'urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire l'oratore),
come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle,
tutti si svegliano, si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta.
Del pari, se c'è un Santo leggendario e poetico - per esempio San
Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo vedrete venerare
con molto maggiore pietà di San Pietro, e San Paolo, e dello stesso
Gesù Cristo. Ma di questo, qui non è il luogo. Costa veramente poco
conquistare la felicità illusoria che dicevo! Le cose vere, anche
le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione,
invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto,
se non di più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia
andato a male, di cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo,
mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa mai gl'impedisce
di godersela? Al contrario, se a uno lo storione dà la nausea, che
razza di piacere ne trarrà? Se una moglie decisamente brutta al
marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa Venere, non
sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato
una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi
davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà forse più felice
di chi ha comprato a caro prezzo un'opera di quegli artisti per
poi gustarla forse con minore passione? Conosco un tale che si chiama
come me, e che alla sposa novella donò alcune gemme false facendogliele
credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere,
ma anche rare e di valore inestimabile. Ditemi un po', che
differenza c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro
rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava
gelosamente presso di sé delle sciocchezzuole di nessun valore come
se fossero chissà qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava una
spesa e godeva dell'illusione della moglie che gli era grata come
se avesse ricevuto doni di gran pregio. Che differenza pensate
vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre
e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria
condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose
vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare
in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di
desiderare un'altra felicità? La condizione dei folli, perciò, non
differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa
differisce, è preferibile. Innanzitutto perché la loro felicità
costa ben poco: solo un piccolo inganno di sé. |