Elogio della follìa
Erasmo da Rotterdam |
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57. Già da un pezzo
i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno
a modello il genere di vita dei prìncipi, e con un successo forse
maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della veste
di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza macchia;
e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo,
a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento;
o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune da
ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti;
se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema
con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede
indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno
riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita
sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli
che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono
a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli
o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano:
vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi
sono sul serio nell'arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza
è tutta occhi. 58. Altrettanto
dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori
degli Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni,
ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno
rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po' anche
al loro paludamento e si chiedessero: che significa il candore della
cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la porpora
che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa
l'ampio mantello che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la
cavalcatura di sua Eminenza, e che basterebbe a coprire anche un
cammello? Non significa forse la carità che ovunque si diffonde
per venire in aiuto a tutti, cioè per insegnare, esortare, consolare,
rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi ai prìncipi
malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie
ricchezze, ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A
che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno le veci degli Apostoli,
che erano poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero
poco alla carica: deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero
una vita tutta presa da cure travagliate, alla maniera degli antichi
Apostoli. 59. Ora è la volta
dei sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno più di
loro si troverebbe a soffrire, se tentassero di imitarne la vita:
povertà, travagli, dottrina, croce, disprezzo del mondo; se pensassero
al loro nome PAPA, cioè padre, e alla loro qualifica di SANTISSIMO!
Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel posto da difendere
poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti vantaggi
dovrebbero dire addio, se la saggezza riuscisse appena a farsi sentire!
Ma che dico, saggezza? Dovrei dire un grano di quel sale menzionato
da Cristo. Addio a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere,
a tante vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte,
a tante indulgenze, e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate
un po' che mercato, che razza di messe rigogliosa, che mare di ricchezze
ho concentrato in poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime,
preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni
del genere. Ancora - particolare non trascurabile - sarebbero ridotti
alla fame tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari,
mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani - e stavo per aggiungere
un'espressione più sguaiata, ma temo che offenda l'orecchio, insomma,
una così folta schiera che costituisce l'onere - è un LAPSUS, volevo
dire l'onore - della curia romana. Sarebbe proprio inumano, anzi
un delitto abominevole! ma sarebbe molto peggio riportare al bastone
e alla bisaccia quei sommi prìncipi della Chiesa, che sono la vera
luce del mondo. Ora, se fatiche
ci sono, si lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno
tanto, e si mantengono per sé la gloria e il piacere, quando ci
sono. Così, col mio aiuto, non c'è quasi nessuno che più di loro
faccia, in perfetta tranquillità, una gran bella vita; convinti
di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo, se adempiono alla
loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha movenze
da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli: beatitudine,
reverenza, santità; e benedizioni e anatemi. Non si usa più far
miracoli: roba d'altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare
le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita
di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in povertà
è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette
il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte,
e infamante la morte sulla croce. Rimangono solo le
armi e le "dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui fanno
uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate,
anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella
tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime
dei mortali all'inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi
padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della
violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso,
tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro.
Benché le parole dell'Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo abbandonato
tutto e ti abbiamo seguito", essi identificano il patrimonio di
Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre,
accesi dall'amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro
e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano,
credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di Cristo,
annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici. Come se la
Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non
fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell'oblio; legiferando
all'insegna dell'avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni
forzate ne alterano l'insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono. poiché la Chiesa
cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora,
come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione
conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo
la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che
agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero
le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale
corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni
la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla
in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno
solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando
un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese,
non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si
trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, I'intero
genere umano. né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa
evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che
permettono d'impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere
del fratello senza venir meno a quella suprema carità che secondo
il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo. 60. Una cosa, continuo
a chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando più per le spicce,
tralasciando il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere,
si comportano addirittura da satrapi, fino a considerare una specie
di debolezza, e senz'altro una vergogna per un vescovo, rendere
la valorosa anima a Dio altrove che su un campo di battaglia, sono
stati loro a offrire il modello di un tale comportamento, o lo hanno
a loro volta imitato? Ma ormai la massa
dei sacerdoti, considerando peccaminoso venire meno alla santità
di vita dei presuli, levando il grido di guerra si dà a combattere
per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie!
e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi documenti qualcosa
con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo debito va
al di là delle decime! né intanto ai sacerdoti vengono in mente
i molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte loro,
essi hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come monito:
hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli appetiti
del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Sono gente
buffa: sostengono di aver fatto tutto il loro dovere quando hanno
borbottato alla bell'e meglio le solite giaculatorie, e io, per
Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda,
perché nemmeno loro sono capaci di udirle o di intenderle, pur gridandole
con quanto fiato hanno in corpo. C'è un punto, però,
che i sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi
ad accumulare guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire.
Se poi c'è un peso da portare, prudentemente lo scaricano sulle
spalle altrui, e lo fanno passare di mano in mano, in una sorta
di gioco a palla. Come i prìncipi laici, delegano a vicari, settore
per settore, le funzioni di governo, e il vicario, a sua volta,
ricorre a un vicario in sottordine; così, per modestia, lasciano
al popolo la cura di tutto quanto riguarda la religione. Il popolo
la scarica su quelli che chiama ecclesiastici, come se per parte
sua non avesse nulla a che fare con la Chiesa: pare che i voti pronunciati
al battesimo non contino nulla. A loro volta, i sacerdoti che si
denominano secolari, come se appartenessero al mondo più che a Cristo,
scaricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare sui
monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza
più rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui
certosini, i soli presso cui, sepolta, si nasconde la pietà, ma
così nascosta che a mala pena si può scorgerla. Così fanno anche
i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi
i gravami più strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai
parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti, che,
a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore. 61. Ma io, qui,
non mi propongo di passare in rassegna i costumi di pontefici e
sacerdoti; non vorrei avere l'aria di comporre una satira, mentre
è il mio elogio che pronuncio; né vorrei si credesse che, mentre
elogio i cattivi prìncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato brevemente
di queste cose per mettere in chiaro che nessuno al mondo può vivere
felicemente, se non è iniziato ai miei misteri, e se non ha me dalla
sua. Come mai, infatti,
la stessa dea di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto
va d'accordo con me da avere giurato eterna inimicizia a questi
sapienti, mentre ai folli ha donato ogni bene anche nel sonno? Voi
conoscete il famoso Timoteo, che di qui ha preso anche il soprannome,
ed il proverbio: "anche dormendo piglia pesci". C'è anche l'altro
detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri sono i proverbi
che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva stella"; "ha il
cavallo di Seio e l'oro di Tolosa". Smetto le citazioni: non vorrei
avere l'aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo. Per tornare in argomento:
la Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il
motto "il dado è tratto". La saggezza, invece, rende piuttosto timidi;
perciò comunemente vedete questi sapienti impegnati a combattere
con la povertà, la fame, il fumo; li vedete vivere dimenticati,
senza prestigio, senza simpatie: mentre gli stolti, ben forniti
di soldi, raggiungono le alte cariche dello Stato e, per dirla in
breve, prosperano in tutti i sensi. Infatti, se si ripone la felicità
nel favore dei prìncipi, nell'entrare a far parte della cerchia
di questi miei fedeli simili a Dèi ingioiellati, che c'è di più
inutile della sapienza, anzi di più aborrito presso gente del genere?
Se si vuole arricchire, che cosa può guadagnare un mercante attenendosi
alla sapienza? Se terrà in qualche conto gli scrupoli dei sapienti
sul latrocinio e l'usura, avrà ripugnanza a spergiurare; colto a
mentire, arrossirà. Se si desiderano onori o benefizi ecclesiastici,
un asino o un bue potrà aggiudicarseli prima del sapiente. Se è
il piacere che ti muove, le fanciulle, che in questa storia hanno
il posto d'onore, si danno di tutto cuore agli stolti, mentre hanno
orrore del sapiente e lo fuggono come fosse uno scorpione. Infine,
chiunque si ripromette una vita in qualche misura lieta, comincia
con l'escludere il sapiente, tollerando piuttosto qualunque altro
animale. In breve, da qualunque parte tu ti volga, presso pontefici,
prìncipi, giudici, magistrati, amici, nemici, grandi e piccoli,
tutto si ottiene col danaro alla mano; ma il sapiente disprezza
il danaro, e perciò, di solito, da lui ci si tiene lontani con la
massima cura. 62. Ed ora, benché
sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere
il discorso. Perciò smetterò di parlare, ma non senza avere prima
dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi autorità
a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo
perché qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a compiacermi
di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di non produrre
documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove
senza preoccuparmi che siano pertinenti. In primo luogo,
tutti sono persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando
una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene
cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli
a tempo e luogo è somma sapienza". Potete rendervi conto da voi
di quale gran dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace,
e la sua sola imitazione, meritano dai dotti così grande lode. Con
franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del
gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia alla saggezza",
ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove: "Bella
cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione:
"Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che
mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Già in Omero,
Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più
riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano
in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti.
Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re
folli e di popoli folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano
"Tutto il mondo è pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque
bene, a quanti più si estende, tanto più vale? 63. Ma forse per
i cristiani l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete,
possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi
sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso ai teologi.
Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe
giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse
dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo
migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso
calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e
porcospino, perché dalla sua Sorbona per un po' si trasferisca nel
mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo.
Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti
del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di furto, come
se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella
avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c'è da stupirsi,
se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa
ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere
il padrone, aveva finito col tenere a mente qualche parola greca,
e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli uomini, ne
conosceva a menadito il linguaggio. Torniamo in argomento.
Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il
numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra
forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che
probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime
Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo è reso
stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza soltanto a Dio,
e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora,
poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto".
Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza
il suo vanto? "perché, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la
sapienza." Ritorniamo all'Ecclesiaste.
Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità",
che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta
un gioco della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso
a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito
poc'anzi: "Tutto il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio
Ecclesiastico, quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna;
il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente
che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta
solo a Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura
umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda
quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno
possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente,
e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza,
di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel
capitolo quindicesimo [21] di Salomone: "Lo stolto si bea della
sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la
stoltezza la vita non ha nulla da offrire. Alla stessa conclusione
approda il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più
spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore
riconosce apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel
cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia". Non riteneva, infatti,
che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere
anche me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le
parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore
ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia".
E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a
lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo
è l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare
l'ultimo posto, il che è conforme al dettato evangelico. Che poi la Follia
è superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64
[4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole,
non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato con me
in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di
Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa è più opportuno
nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e dappoco?"
perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi
il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego
sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il nume dei
nostri maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare
per la strada oro e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che
riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli
più segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada
lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde quanto è più prezioso,
mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico
vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della stoltezza
che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo
che nasconde la sua insipienza è migliore dell'uomo che nasconde
la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le
Sacre Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all'atteggiamento
del sapiente che non crede nessuno suo simile? Così infatti intendo
le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando
va per la strada, essendo lui stolto, crede che tutti lo siano".
E non è forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano
uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli
altri ciò che in te c'è di buono? Perciò il gran re Salomone non
si vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo
[Prov. 30, 2], disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo,
il grande dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non
disdegnò la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato:
sono io il più dissennato". Come se, essere superato in fatto di
follia, fosse sconveniente. Qui mi danno sulla
voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi
alle cornacchie - cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in
giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico
Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa
[il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]). Che razza
di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona!
L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti.
Con le sue parole non cerca di farsi passare per più stolto degli
altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di Cristo;
e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato, con una punta d'orgoglio,
alla pari con gli altri, rettifica: "ma io lo sono anche di più",
perché nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo alla
pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo
che l'affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori
con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia come
copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire
la verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli pazzi. Che cosa intendesse
davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro
a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere
molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare
con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui.
E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in
maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando
ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo
(per prudenza ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti
non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che
suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono
più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile
rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando così
(riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel
loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi sembro folle
mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi
sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo,
subito dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento. 64. Ma perché mi
affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi
il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole
in qua e in là come un elastico, tanto è vero che in san Paolo entrano
in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non
sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san
Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad
Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio
della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero
nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto solo le ultime due:
"Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica
esatta era, infatti, questa: "Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e
dell'Africa, agli Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi figli
di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o
cinque parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino
ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle
che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto.
Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono
tratti a invidiare i teologi. Che mai hanno più
da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo
nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato
dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con
lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora
dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di più
ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco,
Cristo, perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo
genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la mancanza
di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così poco
equipaggiati da non avere né calzari contro le spine e i sassi,
né bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di no, che nulla
era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto
faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri
una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo
mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non intenda
il giusto significato di questo passo. Il proposito è di rendere
i legati di Cristo anche più inermi; non solo senza calzari e senza
bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino
la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada,
non quella, però, di cui si servono predoni e parricidi per i loro
misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del cuore,
che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla
vi resti, salvo la pietà. Orbene, state un
po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro
famoso teologo. Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori,
il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo,
ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli
di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato
in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero
stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non
rendendo male per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti;
se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio dei passeri
e dei gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La
comprino, a costo di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati!
Il commentatore ritiene inoltre che il termine spada indichi tutto
ciò che può servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia
abbracci quanto concerne i bisogni vitali. Così l'interprete del
pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da Apostoli armati
di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche
e bagagli vari perché non abbiano mai a mettersi in viaggio senza
avere debitamente pranzato. né il brav'uomo è turbato neppure dal
fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella
spada che aveva ordinato di comprare a così caro prezzo, e che mai,
per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade
e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero
di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione. C'è poi un altro,
e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome)
che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian
- "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra" - ne ricava
un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato. Di recente partecipai
io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. poiché
uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto
delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo
piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio
dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato
che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]:
"Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona
strada, evitalo". E più volte tornava a dire quelle parole, mentre
erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Finì con
lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico.
Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile
dal punto di vista teologico, e poiché qualcuno continuava a protestare,
intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorità irrefragabile:
"State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo
malefico. Ma ogni eretico è malefico, quindi...". Tutti i presenti
ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte
i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella
legge riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici".
Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione
e all'ubriachezza. 65. Sono una sciocca
a volermi dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti
i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo
solo farvi presente che, se tanto è stato concesso a quei maestri
di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza a me,
teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto
esatte. E ora, tornando
finalmente a Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon
grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un
folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle".
E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito
quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel
suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria
in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto
per essere sapiente". In Luca [34, 25]
Gesù chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per
la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso
Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia
di Dio è più saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25].
Origene, per certo, contesta che questa follia sia suscettibile
di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio: "La
parola della croce è follia per gli uomini che si perdono" [Primo
Cor., 1, 18]. Ma perché mai insisto
nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è bisogno,
se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci
la mia follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari
al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano
con diffidente antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva
a Cesare con Bruto e Cassio - mentre di quell'ubriacone di Antonio
non aveva alcun timore; così accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi
con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume.
Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e condanna quei sapienti
che hanno fiducia nella propria saggezza. Lo attesta chiaramente
san Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto",
e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza",
perché attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1].
Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per
bocca del profeta: "Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò
la saggezza dei saggi". E ancora quando
Gesù lo ringrazia perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti,
il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco,
infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in
contrapposizione ai sapienti (zof¢i ). Nello stesso senso vanno
intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù che fieramente
si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita
protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti
dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi,
sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto
con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta
letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le più lontane dall'astuzia
della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se, volendo,
avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito
Santo è sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o
di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po'
dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama
pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. né c'è animale
più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole
di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità
di quell'animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli
stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge;
anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni
Battista lo indicò con questo nome: "Ecco l'agnello di Dio", denominazione
che ricorre spesso anche nell'Apocalisse. Di qui una clamorosa
conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di
pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana
sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche
modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con
sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai
peccati. né volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce,
valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare
come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza
quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini, dei gigli, del
grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza,
che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni;
e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti
ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni:
non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente
nelle sue mani. Allo stesso principio s'ispira Dio, architetto del
mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della
sapienza, quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San
Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte
di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse
a lui identificando il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede
col monte della scienza. Forse c'è anche
un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova
grazia presso gli Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è vero
che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di
causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Così
infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne
cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego,
Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza
di discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa così:
"E' chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta,
cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore,
non accusare il tuo servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come
se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua
stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia,
Cristo in croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come unica
scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo:
"Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità
ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito
da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia?
Che significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non che non
l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo
favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto
in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù
e le mie ignoranze" [PS. 24, 7]. Come avete sentito,
adduce due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia,
mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare
intendere la grande forza della follia. 66. Per non dilungarmi
all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione
cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza
non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate
in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici
godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro
istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che
i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero
le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere. Infine non c'è pazzo
che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati
conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto
sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli
inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore
del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il
loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo
la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle
esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove,
e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo
dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino
dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo. Comunque, visto
che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in
là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani
cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una
forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'è
intenzione d'offesa; considerate piuttosto i fatti. C'è in primo
luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono
che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia
un impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perciò
Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché,
a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili
e corporee. Perciò, finché l'anima fa buon uso degli organi del
corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi
in piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo,
allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia,
per una qualche affezione organica, allora è pazzia conclamata.
Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il
futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato,
ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito del divino. Non c'è dubbio:
questo accade perché la mente, libera in parte dall'influenza del
corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per
la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della
morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio
profetico. Se ciò accade nell'ardore
della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così
vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura,
e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati che in tutto
il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui,
di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli
che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle cose,
e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell'antro afferma
di avere contemplato le cose reali, e che loro s'ingannano di molto,
convinti come sono che nient'altro esista se non delle misere ombre.
Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti
in così grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come
se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira
soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che
siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto
più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto
preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo
posto le ricchezze, al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo
l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono esista perché l'occhio
non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con
tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri; in secondo
luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia: ossia all'anima,
che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano
le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono
esimersi dall'occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno,
ed è come se non avessero; posseggono, ed è come se non possedessero.
Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione.
Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo,
alcuni sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto,
il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto,
la volontà. Dato che la potenza
dell'anima risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le
persone religiose, poiché tutta la forza dell'animo loro si volge
alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi, subiscono
in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge
il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega così
ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece
di vino. E anche fra le passioni
dell'anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo,
come l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la
superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge
senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale
ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali,
come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per
gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza,
ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall'animo anche
questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale
per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato,
infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo è opera di
Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il lume di quella
Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono
che nulla merita di essere amato o desiderato. Con questo medesimo
criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile,
se non è da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor conto
dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche
religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel
digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto,
che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga
anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito
ai moti d'ira o di superbia, perché lo spirito già meno gravato
dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto
dicasi della Eucaristia. Benché non vada sottovalutato l'aspetto
cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura è pernicioso
in mancanza dell'elemento spirituale, cioè del contenuto rappresentato
da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali
devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per
dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita,
per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui. Queste le azioni,
questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede
che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile accanto
agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre
quisquilie relative al rito. Quanto al pio, non
solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione,
rifugge da ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile,
dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo
su tutto, accade che uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano
per matti. Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla
gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se, come
ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio altro
non è se non una forma di follia. 67. Considerate
in primo luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando
scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti
chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama,
e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più
gode. E quando l'animo si propone di uscire dal corpo e non usa
debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si può
parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni
espressioni: "non è in sé", o anche "torna in te stesso", e "è tornato
in se stesso"? D'altra parte quanto più è perfetto l'amore, tanto
più è grande, tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella
vita celeste che fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che
è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più
facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in
vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente
assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore.
A questo punto l'uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo
felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile
influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé. Anche se questa
felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste
corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini pii,
dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale,
e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa,
una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia
da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che
vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo
farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello
spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile.
Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio
non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha
preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della follia
che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione.
Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono
còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi
incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso,
mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora
piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto
fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere
dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se
erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito,
che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi
che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno.
Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine
quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati
in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda
a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura! 68. Dimentica di
me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare
che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate
che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il detto
greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non
riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne. Vedo che aspettate
una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi
abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi
ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il
convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio l'ascoltatore
che ricorda". Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi
iniziati alla Follia. |