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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
IVAN ILLICH
Per una storia dei bisogni

© 1977, 1978 by Ivan lllich© 1981 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale Toward a History of NeedsPubblicato negli Stati Uniti da Pantheon Books divisione della Rundom House, Inc., New York / Traduzione di Ettore Capriolo / I edizione marzo 1981

La disoccupazione utile e i suoi nemici professionali

Questo saggio sulla sostituzione delle merci ai valori d'uso nella società moderna è stato scritto nel 1977. John Mc Knight e Lee Hoinacki mi sono stati d'aiuto a chiarirmi le idee. Sono anche debitore verso William Leiss che, in “The Limits to Satisfaction” (Toronto 1976), si è occ pato della correlazione tra bisogni e merci nell'era moderna.
Cinquant'anni fa, quasi tutte le parole che uno udiva erano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcun altro che gli stava vicino. Solo in certe circostanze lo toccavano in quanto membro indifferenziato di una massa a scuola o in chiesa, a un comizio o al circo. Le parole erano per lo più come lettere scritte a mano e sigillate, non come il ciarpame che inquina ora le nostre poste. Oggi le parole rivolte all'attenzione di una sola persona sono divenute rare. Produzioni standardizzate di immagini, idee, sensazioni e opinioni, confezionate e distribuite attraverso i media, aggrediscono la nostra sensibilità con ritmo incessante. Due fatti sono ormai evidenti: 1) ciò che sta avvenendo nel linguaggio ricalca il modello di una sempre più ampia serie di rapporti bisogno/soddisfazione; 2) questa sostituzione di merce industriale manipolante ai mezzi conviviali sta avendo luogo su scala veramente uni versale, e viene inesorabilmente assimilando tra loro l'insegnante newyorkese e il membro della comune cinese, lo scolaretto bantù e il sergente brasiliano.
In questo saggio, che è un poscritto a La convivialità, mi propongo tre cose: 1) descrivere il carattere che assume una società ad alta intensità di merci e mercato, nella quale l'abbondanza stessa delle merci paralizza la crea zione autonoma di valori d'uso; 2) evidenziare il ruolo occulto che le professioni svolgono in tale società col modellarne i bisogni; 3) smascherare certe illusioni e proporre alcune strategie per spezzare quel potere professionale che perpetua la dipendenza dal mercato.

Gli effetti menomanti della supremazia del mercato

Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “punto di svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro!”. Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di ma nodopera e di tecnica gestionale. Le cure intensive per moribondi, la tutela burocratica per le vittime della di scriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così in tesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministra tori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull'alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un'assistenza finanziata in pri mo luogo dagli stessi assistiti. La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vor rebbero servirsi delle proprie gambe.

Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l'escalation del controllo. Può invece indicare l'attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all'improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rin chiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero.

In pochi decenni il mondo si è amalgamato. Le reazioni degli uomini agli eventi quotidiani si sono standardizzate. Le lingue e le divinità possono ancora apparire differenti, ma ogni giorno altra gente si aggrega a quell'enorme mag gioranza che marcia al ritmo della medesima megamac china. Il gesto del braccio verso l'interruttore accanto alla porta ha soppiantato le decine di modi in cui si accendevano un tempo fuochi, candele e lanterne. In dieci anni il numero degli utenti di interruttori si è triplicato; sciacquo ne e carta igienica sono diventati condizioni essenziali per poter andare di corpo. Per un numero sempre maggiore di persone l'illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l'igiene senza carta velina significano povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l'interesse per gli altri.

Ora striduli ora soporiferi, i media penetrano a forza ella comune, nel villaggio, nell'azienda, nella scuola. I suoni prodotti dagli autori e dagli annunciatori di testi programmati stravolgono di giorno in giorno le parole della lingua viva facendone tanti blocchi di frasario per messaggi prefabbricati. Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l'anticonformista ricco e ben protetto può far giocare i propri bambini in un ambiente dov'essi sentano parlare persone anziché divi, annunciatori o istrut tori. In ogni parte del mondo si vede dilagare quella di sciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente. Aumenta rapidamente la standardiz zazione del comportamento umano.

E’ dunque chiaro che non c'è quasi alcuna comunità al mondo cui non si ponga esattamente la medesima scelta cruciale: o continuare ad essere mere cifre nella folla con dizionata che è sospinta verso una sempre maggiore di pendenza (ed essere così costretti a feroci lotte per strappare la propria razione di droga), o trovare quel coraggio che è l'unica possibilità di salvezza in una situazione di panico: il coraggio di restare fermi e di guardarsi attorno alla ricerca di una via di scampo diversa da quella su cui tutti si precipitano perché c'è scritto “uscita”. Molti però, quando gli si dice che tanto i boliviani quanto i cana desi o gli ungheresi si trovano tutti dinanzi alla stessa scelta di fondo, non solo si infastidiscono, ma si indignano. L'idea appare loro non soltanto ridicola, ma insultante. Non riescono a scorgere l'identica degradazione, di forma nuova e acuta, che sta sotto la fame dell'indio dell'Altipiano, la nevrosi dell'operaio di Amsterdam e la cinica corruzione del burocrate di Varsavia.

In tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito in una nuova trama di dipendenza nei confronti di prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, istituti di ricerca. Per appagare questa dipendenza bisogna continuare a produrre le stesse cose in quantità maggiori:beni standardizzati, concepiti e realizzati ad uso di un futuro consumatore già addestrato dall'agente del produttore ad aver bisogno di ciò che gli viene offerto. Questi prodotti, siano essi beni tangibili o servizi intangibili, costituiscono la produzione industriale. Il valore mone tario che si attribuisce loro in quanto merci è determinato, in proporzioni variabili, dallo Stato e dal mercato. Culture differenti diventano così scialbi residui di stili d'azione tradizionali, relitti sbiaditi in un unico deserto di dimensioni planetarie, una terra arida devastata dal mac chinario che serve a produrre e consumare. Sulle rive della Senna come su quelle del Niger, le donne hanno disimparato ad allattare, perché ora quella sostanza bianca la si compra in drogheria. (In Francia, grazie ai maggiori stanziamenti per la tutela del consumatore, è meno vele nosa che nel Mali.) Certo, un maggior numero di bambini beve oggi latte di mucca; ma tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri il seno materno si inaridisce.

Il consumatore dipendente nasce allorquando il neonato piange perché vuole il biberon; quando l'organismo è ad destrato a reclamare il latte del droghiere e a distogliersi dal seno, che così non svolge più la propria funzione. L'attività umana autonoma e creativa, indispensabile a far fiorire l'universo umano, si atrofizza. I tetti di assicelle e di stoppie, di tegole e di ardesia, vengono soppiantati dal calcestruzzo per i pochi, dalla plastica ondulata per i più. Né le giungle e le paludi né le prevenzioni ideologiche hanno impedito che i poveri e i socialisti si lanciassero a capofitto nelle autostrade dei ricchi, le quali portano al mondo in cui gli economisti prendono il posto dei preti. La zecca annulla tutti i tesori e gli idoli locali.

La moneta svaluta quello che non può misurare. La crisi, dunque, è la stessa per tutti: si tratta di scegliere tra una maggiore o una minore dipendenza dalle merci industriali. Maggiore vorrà dire la distruzione rapida e totale di cul ture generatrici di attività di sussistenza soddisfacenti. Mi nore vorrà dire una variegata fioritura di valori d'uso en tro culture moderne intensamente attive. Per i ricchi come per i poveri là scelta è sostanzialmente la stessa, anche se è difficile da immaginare per chi è già abituato a vivere nel supermercato - una struttura che solo il nome diffe renzia da una clinica per infermi di mente.

L'attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci. Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall'aumento di volume e di varietà delle merci prodotte. E sull'esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l'accesso a tali merci. La scienza economica è diventata un'attività propagandistica volta a favorire la supremazia delle grandi industrie produttrici di beni di consumo. Il socialismo è stato svilito a lotta contro la di sparità nella distribuzione, e l'economia del benessere ha identificato il bene pubblico con l'abbondanza - l'abbondanza umiliante di cui gode il povero negli ospedali, nelle prigioni e nei manicomi degli Stati Uniti.

Indifferente a ogni scambio che non sia contrassegnato da un prezzo monetario, la società industriale ha creato un paesaggio urbano inadatto a persone che non divorino ogni giorno in metalli e carburanti l'equivalente del pro prio peso, un mondo nel quale la costante necessità di di fendersi dalle conseguenze indesiderate di un numero maggiore di cose e di controlli ha portato alla luce nuovi filoni di discriminazione, di impotenza e di frustrazione. Il mo vimento ecologico, influenzato dal sistema, sinora non ha fatto che rafforzare questa tendenza: ha infatti preso ai difetti della tecnologia industriale e, nei casi migliori, lo sfruttamento privato della produzione industriale. Ha contestato il depauperamento delle risorse naturali, i danni dell'inquinamento e i trasferimenti netti di potere. Ma anche quando si assegni un prezzo alla degradazione dell'ambiente e alle perdite causate dalla nocività o si calcoli il costo della polarizzazione, non si è ancora detto in modo chiaro che la divisione del lavoro, la molti plicazione delle merci e la dipendenza da esse hanno forzosamente sostituito con confezioni standardizzate quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé o fabbricava con le proprie mani.

Ormai da due decenni muore ogni anno una cinquantina di lingue; una metà di quelle che ancora si parlavano nel .1950 sopravvive soltanto come argomento di tesi di laurea. E le lingue che ancora restano per testimoniare l'incom parabile varietà dei modi di vedere il mondo, di servirsene e di goderne, paiono oggi sempre più simili. La coscienza è ovunque colonizzata da etichette importate. Eppure an che quelli che si preoccupano per la varietà culturale e genetica che va perduta o per la moltiplicazione degli iso topi a lungo effetto, non badano al depauperamento irre versibile delle capacità, delle storie e dei gusti. E questa progressiva sostituzione dei beni e servizi industriali ai valori utili ma non negoziabili è stata l'obbiettivo comune di gruppi e regimi politici per tutto il resto violentemente antagonistici.

In tal modo, zone della nostra vita sempre più vaste su biscono trasformazioni tali che la vita stessa finisce per dipendere quasi esclusivamente dal consumo di merci ven dute sul mercato mondiale. Gli Stati Uniti corrompono i propri agricoltori per fornire grano a un regime che gioca sempre più la propria legittimità sul tavolo degli approvvigio namenti di cereali. Naturalmente i due regimi destinano proprie risorse seguendo metodi differenti: basandosi gli uni sulla saggezza del meccanismo dei prezzi, gli altri su quella dei pianificatori. Ma il contrasto politico che oppone i fautori dei due diversi metodi di ripartizione ma schera appena lo spietato disprezzo, comune agli uni e agli altri, per la libertà e la dignità della persona.

La politica nel campo energetico è un buon esempio della sostanziale identità di vedute fra i sostenitori del sistema industriale, si presentino essi con l'etichetta di so cialisti o di capitalisti. A parte forse la Cambogia, sulla quale non ho notizie, non esiste gruppo di governo o d'opposizione socialista che riesca ad immaginare un auspicabile futuro basato su un consumo d'energia pro capite inferiore a quello oggi prevalente in Europa. Tutti i par titi politici esistenti ritengono necessaria una produzione ad alta intensità d'energia - magari con disciplina cinese - senza capire che la società da essa derivante negherà an cora di più alla gente il libero uso dei propri arti. Qui le auto private, là gli autobus pubblici, scacceranno le bici clette dalla strada. Tutti i governi vogliono una forza pro duttiva ad alta intensità di occupazione, ma sono restii a riconoscere che gli impieghi possono anche distruggere il valore d'uso del tempo libero. Tutti insistono perché si arrivi a una definizione professionale, più completa e oggettiva, dei bisogni della gente, ma sono insensibili all’espropriazione della vita che ne consegue.

Sul finire del Medioevo la straordinaria semplicità della teoria eliocentrica veniva usata come argomento per scre ditare la nuova astronomia. La sua eleganza era conside rata ingenuità. Nella nostra epoca non sono certo rare le teorie imperniate sul valore d'uso e capaci di analizzare i costi sociali generati dalle economie ortodosse. Le pro pongono dozzine di outsiders, che le identificano spesso con la tecnologia radicale, con l'ecologia, con i modi di vita comunitari, con la piccola dimensione, con la bellezza. Come pretesto per non prenderle in considerazione, si oppone ad esse, ingigantendolo, il frequente insuccesso degli esperimenti tentati di persona dai loro fautori. Come l'inquisitore della leggenda si rifiutava di guardare nel te lescopio di Galileo, così molti economisti odierni si rifiu tano di prendere in considerazione un'analisi che po trebbe spostare il centro convenzionale del loro sistema economico. I nuovi sistemi analitici ci obbligherebbero a riconoscere l'ovvio: che in una cultura la quale voglia offrire un programma di vita soddisfacente alla maggio ranza dei propri membri, la generazione di valori d'uso non negoziabili deve necessariamente occupare un posto centrale. Le culture sono programmi per attività, non per aziende. La società industriale distrugge questo centro in quinandolo col prodotto programmato dalle imprese, pub bliche o private, e degradando ciò che la gente può fare da sé o fabbricare per proprio conto. La conseguenza è che le società si sono trasformate in giganteschi giochi a somma zero, in sistemi di distribuzione monolitici nei quali il guadagno dell'uno diventa perdita o peso per l'altro, mentre la vera soddisfazione è negata a entrambi.

Strada facendo sono state distrutte innumerevoli serie di infrastrutture all'interno delle quali la gente s'arrabat tava, giocava, mangiava, stringeva amicizie, faceva l'amo re. Sono bastati un paio di decenni di cosiddetto sviluppo per smantellare modelli tradizionali di cultura dalla Man ciuria al Montenegro. Prima, quei modelli permettevano alla gente di soddisfare quasi tutti i propri bisogni in un contesto di sussistenza; dopo, la plastica ha sostituito la ceramica, le bevande gassate l'acqua, il Valium la camo milla, i microsolchi le chitarre. In tutto il corso della sto ria la più sicura spia dei momenti brutti era la percentuale di cibo che bisognava comprare; i periodi buoni erano quelli in cui la maggior parte delle famiglie ricavava qua si tutto il proprio nutrimento da ciò che coltivava diretta mente o che otteneva per mezzo di scambi in natura e doni. Sino alla fine del Settecento, il novantanove per cento del cibo che si consumava nel mondo era prodotto entro la cerchia del territorio che il consumatore poteva vedere dal campanile della chiesa o dal minareto. Le molteplici ordinanze che cercavano di porre limiti al numero dei polli e dei maiali allevati entro le mura delle città Ci ricordano che, tranne poche grandi aree urbane, anche negli agglomerati cittadini si produceva più della metà del cibo che si mangiava. Negli Stati Uniti, prima della se conda guerra mondiale, meno del quattro per cento di tutti i prodotti alimentari che si consumavano in una re gione veniva importato dall'esterno, e queste importazioni erano in buona parte limitate alle undici città che supe ravano allora i due milioni di abitanti. Oggi, il quaranta per cento della popolazione sopravvive solo grazie all'esi stenza dei mercati interregionali. Un futuro in cui la circolazione mondiale dei beni e dei capitali fosse drastica mente ridotta è oggi altrettanto sconveniente da evocare quanto un mondo moderno in cui gente attiva adoperi moderni strumenti conviviali per creare un'abbondanza di valori d'uso che la liberi dal consumismo. Questa reazione rispecchia l'idea che le attività utili con le quali la gente esprime e soddisfa i propri bisogni possano essere inde finitamente sostituite da beni o servizi standardizzati.

Al di là di una certa soglia, il moltiplicarsi delle merci induce impotenza, genera l'incapacità di coltivare cibo, di cantare, di costruire. La fatica e il piacere della condizione umana diventano un privilegio snobistico riservato a pochi ricchi. Al tempo in cui Kennedy varò l'Alleanza per il progresso, c'erano ad Acatzingo, come in quasi tutti i villaggi del Messico, quattro gruppi di musicanti; suonavano in cambio di qualche bicchiere, e servivano gli ottocento abitanti. Oggi giradischi e radio collegati ad al toparlanti strozzano i talenti locali. Ogni tanto, per nostalgia, si fa una colletta e in occasione di qualche festa si fa venire dall'Università un complesso di studenti fuori corso a cantare le vecchie canzoni.

Il giorno in cui nel Venezuela fu approvata la legge che sancisce il diritto di ogni cittadino a ottenere quella merce che si chiama “alloggio”, i tre quarti delle famiglie scoprirono che le abitazioni che esse stesse si erano costruite andavano considerate catapecchie. Inoltre - e qui sta il guaio era ormai pregiudicata la possibilità di far da soli:non era più lecito tirar su una casa senza aver prima pre sentato un progetto disegnato da un architetto laureato. I materiali di scarto e di recupero che sino allora a Caracas venivano utilizzati come eccellenti materiali da costruzio ne, crearono a questo punto un problema di eliminazione dei rifiuti solidi. Oggi l'uomo che si fa il proprio “allog gio” è malvisto come un deviante che si rifiuta di colla borare con il gruppo di pressione locale per l'assegnazione di unità abitative prodotte in serie. Sono inoltre venuti fuori innumerevoli regolamenti che bollano come illegale o addirittura delittuosa la sua ingegnosità. E’ un esempio che mostra come i poveri sono i primi a soffrire quando un nuovo tipo di merce interviene a castrare una delle attività tradizionali di sussistenza. La disoccupazione utile del povero che non ha un impiego è sacrificata all'espan sione del mercato del lavoro. Il farsi la casa come attività intrapresa di propria scelta, al pari di qualunque altra li bertà d'impiegare utilmente il tempo lasciato libero dal lavoro, diventa così privilegio esclusivo di qualche de viante, spesso del ricco ozioso.

La dipendenza dall'abbondanza castrante, una volta ra dicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Si tratta d'una forma di disvalore che non può non ac compagnarsi alla proliferazione delle merci. Questa disu tilità crescente della produzione industriale di massa è sfuggita all'attenzione degli economisti perché non è rile vabile con i loro strumenti di misura, e a quella dei ser vizi sociali perché non può essere oggetto di “ricerca operativa”. Gli economisti non dispongono di alcun mezzo efficace per comprendere nei loro calcoli la perdita che subisce l'intera società quando resta priva d'un tipo di soddisfazione che non ha un equivalente commerciale; sicché gli economisti si potrebbero oggi definire come i membri di una confraternita aperta soltanto a coloro che, nello svolgimento del lavoro professionale, danno prova d'una ben addestrata cecità sociale nei riguardi del più importante fenomeno di sostituzione che stia avvenendo nei sistemi contemporanei, d'Oriente come d'Occidente: il declino della capacità personale di agire e di fare, che è il prezzo pagato per ogni sovrappiù di abbondanza di prodotti.

Finché la povertà di tipo moderno ha colpito soprattutto gli indigenti, la sua esistenza e, a maggior ragione, la sua natura, sono state ignorate, persino a livello di conversa zione. Man mano che lo sviluppo o, se si preferisce, la modernizzazione toccava i poveri - cioè coloro che fin lì erano riusciti a sopravvivere nonostante che fossero esclusi dall'economia di mercato - li si costringeva sistematica mente a far dipendere la propria sopravvivenza dall'inse rimento in un sistema commerciale che, per loro, signi ficava sempre e necessariamente ricevere gli scarti del mercato. Gli indios di Oaxaca, che prima erano sempre stati respinti dalle scuole, ora sono obbligati ad andarci, perché possano “guadagnarsi” un titolo di studio che rappresenta l'esatta misura della loro inferiorità rispetto alla popolazione urbana. Inoltre - e di nuovo è questo il gua io - senza quel pezzo di carta non possono trovar lavoro neanche nell'edilizia. La modernizzazione dei “bisogni”non fa che aggiungere nuovi motivi di discriminazione a danno dei poveri.

Ormai però la povertà modernizzata è esperienza co mune a tutti, fuorché a coloro che sono tanto ricchi da potersi appartare nel lusso. Man mano che i diversi campi dell'esistenza vengono uno dopo l'altro assoggettati a merci offerte secondo un piano, pochi di noi riescono a sottrarsi a una ricorrente sensazione di dipendenza impotente. Il consumatore medio americano è bombardato ogni giorno da un centinaio di annunci pubblicitari, e reagisce a molti di essi - più spesso di quanto non si creda - negativa mente. Persino la clientela facoltosa, ad ogni nuovo pro dotto che acquista, fa una nuova esperienza di disutilità. Sospetta di aver comprato una cosa di dubbio valore, che presto forse si rivelerà inutile o addirittura pericolosa, e che richiede una schiera di accessori ancor più costosi. La clientela facoltosa allora si organizza: di solito comincia col chiedere un controllo sulla qualità, e non di rado rie sce a mettere al bando certi prodotti. Sull'altro versante della società, la popolazione povera si “stacca” dai ser vizi e dalle “tutele”: South Chicago rifiuta l'assistenza sociale, il Kentucky respinge i libri di testo... Ricchi e poveri non sono molto lontani dal rendersi conto lucidamente che ogni ulteriore sviluppo d'una cultura ad alta intensità di merci porta con sé una nuova forma di ricchezza frustrante. E chi sta meglio economicamente comincia a intuire che nei poveri si rispecchia il suo stesso destino, anche se per ora i segni di questa consapevolezza non sono andati al di là d'una sorta di romanticismo.

L'ideologia che fa coincidere il progresso con l'abbon danza non è ristretta ai paesi ricchi. E presente, e degrada le attività non negoziabili, anche in zone dove fino a tempi recenti la maggioranza dei bisogni veniva ancora soddi sfatta con un modo di vita basato sulla sussistenza. I ci nesi, per esempio, coerentemente con la loro tradizione,parevano intenzionati e capaci di definire in maniera di versa il progresso tecnico, di optare per la bicicletta anzi ché per il jet. Quando promuovevano l'autodeterminazione locale, sembravano considerarla una meta degna di gente inventiva, più che un mezzo per la difesa nazionale. Ma nel 1977 la loro propaganda inneggiava alla capacità in dustriale cinese di fornire più assistenza medica, più istru zione, più case, più benessere generale - a un costo più basso. Non si attribuisce ormai che una funzione pura mente tattica, e transitoria, alle erbe che il “medico scal zo” porta nel sacco e ai metodi di produzione ad alta intensità di lavoro. Come in altre parti del mondo, anche qui la produzione di beni eteronoma - cioè eterodiretta -, programmata per categorie di consumatori anonimi, suscita aspettative irrealistiche e alla lunga frustranti. Inevitabil mente, inoltre, questo processo corrompe la fiducia della gente nelle capacità autonome proprie e del prossimo, ca pacità sempre impreviste e ogni volta sorprendenti. La Cina, da questo punto di vista, non è che l'ultimo esempio di modernizzazione all'occidentale, ottenuta cioè con la soggezione intensiva al mercato: un fenomeno che devasta le società tradizionali come non ci è mai riuscito nessun “culto del cargo”, neanche nelle sue forme estreme più irrazionali.

Nelle società tradizionali come in quelle moderne, in un tempo assai breve è avvenuto un mutamento importante:sono radicalmente cambiati i mezzi intesi a soddisfare i bisogni. Il motore ha fiaccato il muscolo, la scuola ha spento la curiosità individuale fiduciosa nelle proprie for ze. Di conseguenza, tanto i bisogni quanto i desideri han no assunto caratteristiche senza precedenti nella storia. Perla prima volta i bisogni coincidono quasi esclusivamente con delle merci. Finché la maggioranza della gente non disponeva che delle gambe per andare dove voleva, pro testava se veniva ostacolata la sua libertà di spostarsi. Ora che dipende invece dai mezzi di trasporto, rivendica non la libertà ma il diritto di divorare chilometri a bordo d'un veicolo. E man mano che un sempre maggior numero di veicoli assicura questo “diritto” a un sempre maggior numero di persone, la libertà di camminare si svaluta, eclissata dall'esistenza ditale diritto. I desideri della stra grande maggioranza della gente si uniformano, e non si riesce neanche più a immaginare che sia possibile liberarsi dalla condizione universale di passeggeri, cioè di godere la libertà dell'uomo moderno, in un mondo moderno, di muoversi autonomamente.

Questa situazione, che è ormai di una rigida interdi pendenza tra bisogni e mercato, viene legittimata appel landosi al giudizio di una élite di specialisti il cui sapere, per sua stessa natura, non è di dominio comune. Gli eco nomisti tanto di destra quanto di sinistra garantiscono al pubblico che un aumento dei posti di lavoro dipende da una maggiore disponibilità di energia; gli educatori lo persuadono che la legge, l'ordine e la produttività dipen dono da un maggior grado d'istruzione; i ginecologi assi curano che la qualità della vita infantile dipende dalla loro partécipazione ai parti. Pertanto, finché non verrà tolta l'immunità a queste élites che legittimano il binomio merce-soddisfazione, non sarà possibile contestare effica cemente il quasi universale affermarsi dell'intensità di mercato nelle economie del mondo.

Un buon esempio, a illustrazione di questo, me lo ha dato una donna raccontandomi la (nascita del suo terzo figlio. Istruita dall'esperienza dei primi due parti, affron tava il terzo con tutta serenità: sapeva “cosa succede” e conosceva le proprie reazioni. Entrata in ospedale, sen tendo arrivare il bambino chiamò l'infermiera. Ma questa, anziché aiutarla, afferrò un panno sterilizzato e si mise a premere la testa del bambino cercando di farlo “rien trare”, e intanto ordinava alla madre di smetterla di spin gere perché “il dottor Levy non è ancora arrivato”.

Ciò che occorre in questo momento è la decisione pubblica, l'azione politica, non l'affidamento agli specialisti. Le società moderne, ricche o povere che siano, possono scegliere tra due strade opposte. Possono produrre un nuovo campionario di merci - magari più sicure, meno di spendiose, più facilmente ripartibili - e intensificare così ulteriormente la loro dipendenza dai beni di consumo. Oppure possono affrontare in un modo completamente nuovo il rapporto tra bisogni e soddisfazioni. In altre parole possono o conservare le loro economie ad alta in tensità di mercato, modificando soltanto le caratteristiche tecniche del prodotto, o ridurre la loro dipendenza dalle merci. La seconda soluzione comporta l'avventura di im maginare e costruire strutture nuove in cui gli individui e le comunità possano elaborare un diverso tipo di attrez zatura moderna; scopo di questa nuova organizzazione dovrebb'essere quello di permettere alla gente di model lare e soddisfare direttamente e personalmente una crescente porzione dei propri bisogni.

La prima soluzione significherebbe continuare a identi ficare il progresso tecnico con la moltiplicazione delle mer ci. Gli alti burocrati di convinzioni egualitarie e i tecno crati dell'assistenza sarebbero concordi nell'invitare all'au sterità: raccomanderebbero di passare dai beni di cui non tutti ovviamente possono fruire, per esempio gli aerei a reazione, alle cosiddette attrezzature “sociali” come gli autobus; di distribuire in maniera più equa le decre scenti ore di occupazione disponibili e di limitare severa mente la settimana lavorativa a una ventina di ore di pre senza sul posto di lavoro; di destinare la nuova risorsa del tempo lasciato libero dall'impiego a corsi obbligatori di riqualificazione o a un servizio volontario sui modelli di Mao, Castro o Kennedy. Questa nuova fase della so cietà industriale, per quanto socialista, efficiente e razio nale, darebbe luogo a una nuova civiltà nella quale la soddisfazione dei desideri sarebbe declassata all'appagamento ripetitivo di bisogni ascritti, mediante prodotti stan dardizzati. Nel caso migliore, tale tipo di società produr rebbe minori quantitativi di beni e di servizi, li distribui rebbe più equamente e susciterebbe meno invidie. La partecipazione simbolica del popolo alle decisioni da pren dere potrebbe passare dal savio acquirente del mercato al compunto ascoltatore delle assemblee politiche. L'impatto della produzione sull'ambiente potrebbe venire ammorbi dito. Con ritmo assai più rapido dei beni di consumo crescerebbero sicuramente i servizi, specie le varie forme di controllo sociale. Già oggi si spendono somme enormi nell'industria dell'oracolo per permettere ai profeti gover nativi di sputare scenari “alternativi” diretti a puntellare la scelta di cui stiamo parlando. Particolare interessante, molti di costoro sono già arrivati a concludere che il costo dei controlli sociali necessari per imporre l'austerità in una società ecologicamente accettabile, ma pur sempre imperniata sulla produzione standardizzata, sarebbe in sostenibile.

La seconda delle due scelte possibili metterebbe fine al dominio assoluto del prodotto standard e promuoverebbe un'etica austera diretta a favorire un'attività soddisfacente da parte dei più. Se nella prima alternativa austerità si gnificherebbe sottomissione di ognuno agli ukase dei managers nell'interesse d'una maggiore produttività istituzio nale, nella seconda l'austerità sarebbe quella virtù sociale per cui la gente riconosce e fissa dei limiti al potere che ognuno può rivendicare sugli strumenti, tanto per la pro pria soddisfazione quanto per servire gli altri. Questa austerità conviviale sollecita la società a proteggere il valore d’uso personale contro l’arricchimento mutilante. Protette dalla perniciosa opulenza, sorgerebbero molteplici culture differenziate, tutte moderne e tutte propizie ad un impiego diffuso degli strumenti moderni. L'austerità conviviale delimita infatti in tal modo l'utilizzazione degli strumenti, che la proprietà di que sti perderebbe gran parte del suo potere attuale. Che le biciclette appartengano qui alla comunità e lì a chi le adopera non muta la natura essenzialmente conviviale della biciclet ta come strumento. I beni di questo tipo continuerebbero a essere prodotti, in gran parte, con metodi industriali, ma sa rebbe diverso il modo di considerarli e di apprezzarli. Oggi le merci sono principalmente degli articoli che rispondono direttamente a dei bisogni creati da coloro che le hanno pro gettate. Nella seconda soluzione, invece, il loro prezzo deriverebbe dal fatto di essere o materiali grezzi o strumenti che permettono alla gente di generare valori d'uso assicu rando la sussistenza delle rispettive comunità.

Ovviamente questa scelta comporta una rivoluzione co pernicana nella nostra concezione dei valori. Oggi noi met tiamo al centro del nostro sistema economico i beni di consu mo e i servizi professionali, e gli specialisti pongono in rela zione i nostri bisogni esclusivamente con tale centro. Viceversa l'inversione sociale che qui si contempla porrebbe al centro i valori d'uso creati e personalmente promossi dalla gente. È vero che gli uomini sono arrivati a non credersi più capaci di modellare i propri desideri. La discriminazione che in tutto il mondo colpisce l'autodidatta ha infirmato la fidu cia di molti nella capacità di determinare i propri bisogni e i propri fini. Ma la stessa discriminazione ha anche suscitato e rafforzato una molteplicità di minoranze insofferenti di questa insidiosa spoliazione.

Servizi professionali menomanti

Queste minoranze già si rendono conto che, come tutte le forme di vita culturale autoctona, esse sono minacciate dai megastrumenti che espropriano sistematicamente le condi zioni ambientali propizie all'autonomia individuale e di gruppo. Perciò, senza far chiasso, decidono di difendere l'uti lità dei loro corpi, delle loro memorie e dei loro talenti. Poi chè il rapido moltiplicarsi dei bisogni attribuiti genera for me di dipendenza sempre nuove e sempre nuove categorie di povertà modernizzata, le odierne società industriali stan no diventando dei conglomerati interdipendenti di clientele, degli insiemi di maggioranze, contrassegnate da stigmate burocratiche. In questa massa di cittadini paralizzati dai mezzi di trasporto, resi insonni dagli orari, avvelenati dalla terapia ormonica, ammutoliti dagli altoparlanti, intossicati dagli alimenti, alcuni costituiscono minoranze organizzate e attive. Per ora questi gruppi hanno appena cominciato a for marsi e ad unirsi per esprimere pubblicamente il loro dis senso; ma soggettivamente sono pronti a chiudere un'epoca. Solo che un'epoca non è veramente liquidata se non quando ha avuto un nome. lo propongo di chiamare quest'ultimo quarto di secolo: l'Era delle professioni menomanti. Scelgo questa denominazione perché è impegnativa per chi la usa. Mette infatti in luce le funzioni antisociali svolte dai fornito ri meno contestati: gli educatori, i medici, gli specialisti di assistenza sociale, gli scienziati. Nello stesso tempo mette sotto accusa la passività dei cittadini che si sono sottomessi come clienti a questa poliedrica schiavitù. Parlare del pote re delle professioni menomanti significa costringere le loro vittime (lo studente a vita, il 'caso' ginecologico, il consumatore) a riconoscere la propria connivenza con i rispettivi gestori. Definendo gli anni Sessanta l’apogeo del “solutore di problemi”, si evidenzia nello stesso tempo la tronfia presunzione delle nostre élites universitarie e l'avi da dabbenaggine delle loro vittime.

Ma non basta smascherare e denunciare i fabbricanti dell'immaginazione sociale e dei valori culturali: definendo l'ultimo venticinquennio l'Era della dominazione profes sionale, si vuoi fare qualcosa di più, si vuole proporre una strategia. E’ necessario infatti andare al di là di una di versa distribuzione, fatta dagli esperti, di merci dispen diose, irrazionali e paralizzanti, al di là del marchio di garanzia del professionismo radicale, al di là della saggezza convenzionale degli odierni “uomini in gamba”. Questa strategia esige né più né meno che lo smascheramento dell'ethos professionale. La credibilità dell'esperto, sia scienziato, terapista o manager, è il tallone d'Achille del sistema industriale. E quindi soltanto quelle iniziative civiche e quelle tecnologie radicali che si oppongano di rettamente all'insinuante dominio delle professioni meno manti aprono la via al libero esercizio di competenze non gerarchiche, basate sulla comunità. La fine dell'attuale ethos professionale è condizione necessaria perché emerga un nuovo rapporto tra i bisogni, gli strumenti contempo ranei e la soddisfazione degli individui. E il primo passo in questa direzione è un atteggiamento scettico e privo di deferenza, da parte del cittadino, nei confronti dello specialista. La ricostruzione della società ha inizio quando i cittadini cominciano a dubitare.

Quando affermo che l'analisi del potere professionale è la chiave per ricostruire la società, mi viene solitamente obiettato che è uno sbaglio pericoloso individuare in tale fenomeno il nodo della guarigione dal sistema industriale. L'organizzazione del sistema educativo, di quello sanitario, della pianificazione, non rispecchia forse la distribu zione del potere e del privilegio di un'élite capitalistica? Non è da irresponsabili minare la fiducia dell'uomo della strada nel suo insegnante, nel suo medico, nel suo econo mista, tutta gente dotata di preparazione scientifica, pro prio nel momento in cui i poveri hanno bisogno di tali protettori preparati per ottenere accesso alla scuola, alla clinica, all'istituto specializzato? L'atto d'accusa contro il sistema industriale non dovrebbe piuttosto essere rivolto contro i dividendi degli azionisti delle ditte farmaceutiche o contro le tangenti dei sensali del potere appartenenti alle nuove élites? Perché guastare i rapporti di mutua dipendenza tra clienti e fornitori professionali, specie con siderando che sempre più spesso gli uni e gli altri fanno parte della medesima classe sociale? Non è pura perversità denigrare proprio coloro che sudando hanno acquisito conoscenze che li rendono capaci di riconoscere i nostri bisogni di benessere e di soddisfarli? E d'altra parte non andrebbe fatta una distinzione per i leaders professionali del radicalismo socialista, che sono i più adatti a svolgere il compito ormai incombente di definire e soddisfare i bisogni “reali” in una società egualitaria? Anche se espressi in forma interrogativa, sono questi gli argomenti che il più delle volte si adducono per scoraggiare e screditare un'analisi pubblica degli effetti me nomanti prodotti dai sistemi industriali di assistenza che s'imperniano sui servizi. Tali effetti sono sostanzialmente identici e palesemente inevitabili, qualunque sia la bandiera politica che li copre. Essi annientano l'autonomia degli uomini costringendoli - mediante modificazioni delle leggi, dell'ambiente e delle strutture sociali - a diventare consumatori di assistenza. Queste domande retoriche espri mono solo una frenetica difesa dei propri privilegi da parte delle “élites del sapere” le quali perderebbero for se qualche introito ma acquisterebbero sicuramente mag giore prestigio e potere se, in una nuova forma decentrata di economia ad alta intensità di mercato, si rendesse meno ineguale la dipendenza dalle loro prestazioni.

Un'altra obiezione che viene mossa alla critica del potere professionale si fonda su un grosso equivoco. Essa parte dall'assunto che il nodo principale da analizzare sia la complessa macchina della difesa, che costituirebbe il centro di ogni società burocratico-industriale. Il ragionamento che partendo da questa base viene sviluppato identifica nelle forze di sicurezza il motore che starebbe dietro all'odierna universale ir reggimentazione dei popoli in un esercito di sudditi del mer cato. I principali creatori di bisogni sarebbero quelle burocrazie armate che esistono da quando, durante il regno di Luigi XIII, Richelieu istituì la prima polizia di mestiere: cioè quegli organismi professionali che oggi si occupano degli armamen ti, dello spionaggio e della propaganda. Da Hiroshima in poi, questi 'servizi' sembrano avere un peso determinante nella ricerca, nella progettazione e nell'occupazione. Essi poggiano su fondamenta civili, quali la scolarizzazione per inculcare la disciplina, l'educazione al consumo per indurre il gusto dello spreco, l'assuefazione alle velocità violente, l'ingegneria biolo gica per imparare a sopravvivere in un rifugio di dimensioni planetarie, la dipendenza uniforme da reazioni distribuite da benevoli furieri. Questa corrente di pensiero vede nella sicurezza nazionale il generatore dei modelli di produzione della società, e considera gran parte dell'economia civile un deriva to o un presupposto di quella militare.

Se valesse un ragionamento costruito su questi concetti, quale società potrebbe fare a meno del nucleare, per quanto tossica, opprimente e controproducente possa essere un'ul teriore sovrabbondanza di energia? Come potrebbe uno Stato assillato dalla difesa tollerare la formazione di gruppi di cittadini malcontenti che boicottino i circuiti di consumo e rivendichino la libertà di sussistere sulla sola base dei valo ri d'uso, in un'atmosfera di austerità soddisfacente e gioio sa? Una società militarizzata non si affretterebbe forse a prendere provvedimenti contro tali disertori del bisogno, a bollarli come traditori e ad esporli, se possibile, non soltanto al disprezzo ma al ridicolo? Una società impostata sulla di fesa non soffocherebbe forse simili esempi che porterebbero a una modernità non violenta, proprio nel momento in cui si richiede una politica alla Mao, di decentramento della produzione delle merci e un consumo più razionale, più equo, più vigilato dai professionisti?

Il ragionamento in questione attribuisce indebitamente all'apparato militare l'origine della violenza nello Stato indu striale. Che l'aggressività e la distruttività delle società in dustriali siano da imputare alle esigenze militari è un'idea ingannevole che va denunciata. Se davvero i militari si fosse ro in qualche modo impadroniti del sistema industriale, se avessero sottratto al controllo dei civili le varie sfere di ini ziativa e d'azione sociale, lo stadio attuale della politica per seguita dai militari avrebbe allora toccato un punto da cui non si torna più indietro, almeno nel senso che non resterebbe alcuna possibilità di riforme civili. Così del resto ragiona no i capi militari brasiliani più intelligenti, i quali vedono nelle forze annate l'unica legittima salvaguardia di un pacifico sviluppo industriale per tutto il resto del secolo.

Ma non è affatto così. Lo stato industriale moderno non è un prodotto dell'esercito. Piuttosto l'esercito è uno dei sinto mi del suo orientamento globale e costante. Non c'è dubbio che l'odierno tipo di organizzazione industriale può esser fat to risalire ad antecedenti militari dell'epoca napoleonica. Non c'è dubbio che l'istruzione obbligatoria per i figli dei con tadini avviata negli anni Cinquanta del secolo scorso, l'assi stenza sanitaria per il proletariato industriale che inizia ne gli anni Cinquanta dello stesso secolo, lo sviluppo delle reti di comunicazione che si ha dal 1860 in poi, non diversamen te dalla maggior parte delle forme di standardizzazione in dustriale, sono tutte strategie originariamente introdotte nelle società moderne per esigenze militari e che solo in un secondo tempo sono state considerate forme rispettabili di pacifico progresso civile. Ma il fatto che i sistemi sanitario, scolastico e assistenziale abbiano avuto bisogno di una motivazione militare per diventare legge non significa che non fossero perfettamente coerenti con la spinta fondamentale dello sviluppo industriale che, in realtà, non è mai stato non violento, pacifico o rispettoso della persona umana.

Oggi è più facile rendersene conto. Prima di tutto per ché, da quando c'è il Polaris, non è più possibile distin guere tra eserciti da tempo di pace ed eserciti da tempo di guerra; e poi perché da quando si è dichiarata guerra alla povertà anche la pace percorre il sentiero di guerra. Oggi le società industriali sono costantemente e totalmente mobilitate; sono organizzate in funzione di perenni stati di emergenza; non c'è uno dei loro settori che non sia in tersecato da molteplici strategie; i campi di battaglia della salute, dell'istruzione, dell'assistenza e dell'“uguaglianza compensatoria” sono cosparsi di vittime e coperti di macerie; l'esercizio delle libertà civiche viene frequentemente sospeso per condurre campagne contro i mali sempre nuovi che si continuano a scoprire; ogni anno si individua un nuovo gruppo di popolazione di frontiera che occorre pro teggere o guarire da qualche nuova malattia, da qualche forma d'ignoranza prima sconosciuta. I bisogni fondamen tali che vengono modellati e indotti da tutti gli organismi professionali sono bisogni di difesa da mali.

I professori e i sociologi che oggi cercano di imputare ai militari la distruttività delle società sovraproduttrici di merci tentano, in maniera molto goffa, di arrestare l'ero sione della propria legittimità. Sostenendo che è colpa dei militari se il sistema industriale diventa frustrante e rovi noso, essi distraggono l'attenzione dal carattere profonda mente distruttivo proprio della società ad alta intensità di mercato, che sospinge i suoi cittadini alle guerre attuali.Tanto a coloro che cercano di difendere la propria auto nomia di professionisti dalla maturità dei cittadini, quanto a coloro che vorrebbero far passare il professionista come una vittima dello Stato militarizzato, si deve rispondere con una scelta: quella della direzione nella quale i citta dini liberi vogliono avviarsi per superare la crisi mondiale.

Le illusioni che hanno permesso alle professioni di arro garsi il ruolo di arbitri dei bisogni sono ormai sempre più evidenti al senso comune. I metodi seguiti nel settore dei servizi sono spesso percepiti per ciò che in effetti sono coperte di Linus, tranquillanti, rituali, che celano alla massa dei fornitori-consumatori l'antinomia tra l'ideale in nome del quale viene fornito il servizio e la realtà che da questo stesso servizio viene creata. Le scuole, che promettono istruzione eguale per tutti, generano una meritocrazia inegualmente degradante e una dipendenza a vita da ulteriori interventi didattici; i veicoli costringono ognuno a fuggire in avanti. Ma il pubblico non ha ancora ben chiaro qual è la scelta che l'attende. Da una parte, la tutela degli specialisti potrebbe sfociare in fedi politiche obbligatorie (con le correlative versioni di un nuovo fa scismo); dall'altra, le esperienze dei cittadini potrebbero metter fine alla nostra hubris, liquidandola come un'ennesima manifestazione storica di follie neoprometeiche ma sostanzialmente effimere. Una scelta consapevole richiede che si esamini il ruolo specifico che hanno avuto le pro fessioni nel determinare chi in quest'epoca ha ottenuto cosa, da chi e perché.

Per vedere chiaro il punto a cui siamo, immaginiamo i bambini che presto giocheranno tra le macerie delle uni versità, degli Hilton e degli ospedali. In questi castelli professionali convertiti in cattedrali, eretti per proteggerci dall'ignoranza, dal disagio, dalla sofferenza e dalla morte, i bambini di domani rappresenteranno nei loro giochi le illusioni della nostra Era delle professioni, così come dinanzi ai castelli e alle cattedrali del passato noi evochiamo le crociate dei cavalieri contro il turco e il peccato nell'Era della fede. E mescoleranno il birignao che oggi infesta la nostra lingua con gli arcaismi ereditati dalle storie di briganti e di cowboy. Già li sento chiamarsi tra loro presidente e sottosegretario piuttosto che capo e sceriffo. Naturalmente gli adulti allora arrossiranno quando gli scapperà qualche termine della lingua creola manageriale, tipo policy-making, pianificazione sociale o problem solving.

L'Era delle professioni sarà ricordata come il periodo nel quale la politica si estinse e gli elettori, guidati dai professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni, l'autorità di stabilire chi avesse bisogno e di che, e il monopolio dei mezzi con i quali soddisfare tali bisogni. Sarà ricordata anche come l'Era della scolarizza zione, nella quale gli uomini venivano addestrati per un terzo della vita ad accumulare bisogni su prescrizione e negli altri due terzi costituivano la clientela di prestigiosi spacciatori che alimentavano i loro vizi. Sarà ricordata come l'epoca nella quale viaggiare per diporto voleva dire muoversi in gregge per andare a sbirciare degli stranieri; in cui la vita intima voleva dire esercitarsi a raggiungere l'orgasmo sotto la guida di Masters e Johnson; in cui espri mere un'opinione voleva dire ripetere a pappagallo il di scorso trasmesso la sera prima dalla tv; in cui votare si gnificava dire di sì al piazzista che prometteva una dose maggiore della solita merce.

I futuri studenti saranno sconcertati dalle assente diffe renze tra i sistemi scolastico, carcerario, sanitario e dei trasporti del mondo capitalista e di quello socialista, quan to lo sono gli studenti d'oggi dalle differenze tra la giu stificazione per le opere e la giustificazione per fede che dividevano le sette cristiane al tempo della Riforma. Sco priranno anche che, nei paesi poveri e in quelli socialisti, in capo a dieci anni i bibliotecari, i chirurghi e i progettisti di supermercati finivano col tenere gli stessi cataloghi, usare gli stessi apparecchi e disegnare gli stessi ambienti che i loro colleghi dei paesi ricchi avevano cominciato a tenere, usare e disegnare all'inizio del decennio. Gli ar cheologi periodizzeranno il nostro tempo sulla base non di cocci ma di mode professionali, rispecchiate dalle ten denze in auge nelle pubblicazioni dell'UNESCO.

Sarebbe pretenzioso voler predire se una tale epoca, in cui i bisogni erano modellati da pianificazioni professionali, sarà ricordata con un sorriso o con una maledi zione. Mi auguro, ovviamente, che venga ricordata come la sera in cui papà andò a prendersi una sbornia, dissipò le sostanze familiari e costrinse i suoi figli a ripartire da zero. Ma disgraziatamente è più probabile che passi alla storia come l'epoca nella quale la frenetica caccia di un'intera generazione alla ricchezza depauperante rese aliena bili tutte le libertà e la politica, dopo essersi ridotta a lamentela organizzata degli assistiti, fu definitivamente sof focata dal potere totalitario degli specialisti.

Di un fatto bisogna anzitutto rendersi conto: i corpi pro fessionali che presiedono oggi alla creazione, aggiudica zione e soddisfazione dei bisogni costituiscono un nuovo tipo di cartello. Se non si tiene presente questo fatto, è impossibile aggirare le difese che essi vengono preparando. Già vediamo infatti il nuovo biocrate occultarsi dietro la maschera amabile del medico d'una volta; il comporta mento aggressivo del pedocrate viene minimizzato come semplice eccesso di zelo o ingenuità dell'insegnante im pegnato; il direttore del personale, equipaggiato con tutto un armamentario psicologico, si camuffa da capoccia vecchio stile. I nuovi specialisti, che di solito provvedono a bisogni umani che la loro specialità ha creato, tendono ad atteggiarsi ad amanti del prossimo che forniscono una qualche forma di assistenza. Arroccati più saldamente d'una burocrazia bizantina, internazionali più d'una chiesa universale, stabili più di qualunque sindacato, possiedono competenze più vaste di quelle di qualsiasi sciamano ed esercitano sulla propria clientela un controllo più stretto di quello della mafia.

I nuovi specialisti organizzati, come prima cosa, non vanno considerati alla stessa stregua dei membri di un racket. Gli educatori, per esempio, oggi dicono alla so cietà che cosa si deve imparare e hanno il potere di va nificare ciò che si è appreso fuori della scuola; questa sorta di monopolio, che li mette in grado d'impedirti di far compere altrove e di fabbricarti in casa la tua grappa, a prima vista sembra corrispondere alla definizione che il dizionario dà del racket. Ma il racket consiste nell'assi curarsi a fine di lucro il monopolio di un prodotto essen ziale, controllandone il circuito di distribuzione. Invece gli educatori e i medici e gli assistenti sociali d'oggi - co me un tempo i preti e gli avvocati - si arrogano il potere legale di creare quel bisogno che, sempre per legge, soltanto loro saranno autorizzati a soddisfare. Lo Stato con temporaneo diventa così una holding di imprese le quali consentono l'esercizio di mansioni di cui sono al tempo stesso creatrici e garanti.

Il controllo legale della prestazione d'opera ha assunto nel tempo una molteplicità di forme: i soldati di ventura si rifiutavano di combattere finché non ottenevano licenza di saccheggio; le donne organizzate da Lisistrata per im porre la pace si astenevano dai rapporti coniugali; i me dici di Coo si impegnavano sotto giuramento a trasmetterei segreti del mestiere soltanto ai propri figli; le corporazioni stabilivano il corso di studi, le preghiere, gli esami, i pellegrinaggi e le penitenze per cui doveva passare Hans Sachs prima d'essere autorizzato a calzare i propri con cittadini. Nei paesi capitalisti i sindacati cercano di con trollare l'occupazione, gli orari e le paghe. Tutte queste associazioni di mestiere sono mezzi con cui degli specia listi cercano di determinare in che modo il loro genere di lavoro dev'essere fatto e da chi. Ma nessuno di tali spe cialisti è “professionista” nel senso in cui lo sono oggi, poniamo, i medici. Le attuali professioni dominanti, di cui quella medica è l'esempio più cospicuo e doloroso, vanno molto più in là: esse decidono che cosa si deve fare, a chi, e in che modo la faccenda deve essere gestita. Si arrogano un sapere speciale, incomunicabile, per quanto concerne non solo lo stato delle cose e quello che occorre fare, ma anche le ragioni che rendono indispensabili le loro prestazioni. Un commerciante ti vende la merce che ha in magazzino. I membri di una corporazione garanti scono la qualità di ciò che fanno. Certi artigiani confezio nano il loro prodotto sulle tue misure o a tuo gusto. I professionisti invece ti dicono di che cosa tu hai bisogno. Si arrogano il potere di prescrivere. Non si limitano a recla mizzare ciò che è buono, ma decretano ciò che è giusto e doveroso. L'elemento che caratterizza il professionista non è né il reddito, né la lunga preparazione, né la deli catezza dei compiti, né la stima sociale. Il reddito può essere basso o divorato dalle tasse; la preparazione può essere compressa in poche settimane anziché richiedere anni; la stima può non essere superiore a quella della professione più antica. Ciò che conta è l'autorità, di cui il professionista è investito, di definire “cliente” una persona, di determinare i bisogni e di rilasciarle una prescri zione che le assegna un nuovo ruolo sociale. A differenza dei ciarlatani d'una volta, il professionista odierno non è uno che vende ciò che si potrebbe avere gratis, ma uno che decide quello che va venduto e che non va dato gratuitamente.

Un'ulteriore differenza tra il potere delle professioni e quello di altre attività è che il potere professionale emana da una fonte diversa. Un sindacato, una corporazione, una banda impongono il rispetto dei propri diritti e inte ressi con lo sciopero, il ricatto o l'aperta violenza. Una professione invece, al pari di un clero, ha potere per con cessione di una élite di cui puntella gli interessi. Come un clero assicura la salvezza a chi si mette al seguito del re unto, così una professione interpreta, tutela e garantisce uno speciale interesse terreno ai seguaci dei moderni so vrani. Il potere professionale è una forma specializzata del privilegio di prescrivere ciò che è giusto per i terzi e di cui essi hanno perciò bisogno. E la fonte del prestigio e del controllo nel quadro dello Stato industriale. Ovvia mente questo tipo di potere poteva nascere soltanto in società dove la stessa appartenenza all'élite è legittimata, se non acquisita, dalla condizione professionale: una so cietà dove alle élites governanti si attribuisce una obiet tività unica nel suo genere, quella di definire il rango morale di una carenza. Esso è perfettamente congruo con un'epoca nella quale persino l'accesso al parlamento, ossia alla camera della gente comune, è riservato di fatto a coloro che possiedono un titolo di studio adeguato, ottenuto accumulando capitali di sapere in qualche istituto d'istru zione superiore. L'autonomia professionale e la licenza di stabilire i bisogni di una società sono le logiche forme che l'oligarchia assume in una cultura politica dove all'atte stato di censo si sono sostituiti i certificati di patrimonio di sapere rilasciati dalle scuole. Il potere che le profes sioni conferiscono all'opera dei loro membri è dunque distinto sia per portata che per origine.

Da qualche tempo, inoltre, il potere professionale ha avuto un tale incremento che ormai il medesimo nome sta ad indicare due realtà completamente diverse. L'odierno bio crate, per esempio, esercita e sperimenta al riparo di qua lunque analisi critica indossando i panni del vecchio me dico di famiglia. Il medico girovago divenne il dottore in medicina quando lasciò allo speziale il commercio dei farmaci tenendo per sé il potere di prescriverli. In quel momento, unendo tre ruoli in un'unica persona, acquisì una nuova, triplice forma di autorità: l'autorità sapien ziale di chi consiglia, insegna e guida; l'autorità morale, che rende non soltanto utile ma doverosa l'accettazione della sua sapienza; e l'autorità carismatica, che consente al medico di invocare un interesse supremo dei suoi clienti, più importante non solo della coscienza, ma a volte per sino della ragion di Stato. Questo genere di medico esiste ancora, ma nel sistema sanitario moderno è ormai una so pravvivenza del passato. Molto più frequente, oggi, è un nuovo tipo di tecnico della salute. Costui si occupa sem pre più di “casi” anziché di persone; s'interessa del det taglio che può scorgere nel caso più che del disturbo dell’individuo; tutela l'interesse della società più che quello della persona. Le tre forme di autorità che, nell'era liberale, il singolo medico aveva riunito in sé nella cura del paziente, sono ora rivendicate dalla corporazione profes sionale in nome e al servizio dello Stato. L'ente medico si attribuisce ormai una missione sociale.

Da professione liberale che era, nell'ultimo quarto di secolo la medicina è divenuta una professione dominante conquistando il potere di stabilire quello che è un bisogno sanitario della generalità degli uomini. Gli specialisti della salute hanno oggi, come corporazione, l'autorità di deci dere quali cure debbano essere dispensate alla collettività. Non è più il singolo professionista che imputa un “biso gno” al singolo cliente, ma un corpo costituito che im puta un bisogno a intere categorie di persone e che ri vendica quindi il mandato di sottoporre a esami tutta quanta la popolazione per individuare tutti coloro che appartengono al gruppo dei suoi potenziali pazienti. E ciò che accade nel campo della salute corrisponde esattamente a quanto avviene in altri settori. Nuovi sapienti conti nuano a emulare il fornitore di assistenza terapeutica. Gli educatori, gli assistenti sociali, i militari, gli urbanisti, i giudici, i poliziotti e altri dello stesso stampo ce l'hanno evidentemente già fatta: godono infatti di ampia autono mia nella creazione degli strumenti diagnostici con i quali catturare poi la clientela da curare. Decine di altri creatori di bisogni si provano anche loro: banchieri internazionali “diagnosticano” i mali di un paese africano e lo indu cono poi a ingoiare la medicina prescritta, anche a rischio della vita del “paziente”; specialisti della sicurezza va lutano il grado di rischio del lealismo del cittadino e fini scono col distruggere la sua sfera privata; persino gli ac calappiacani si spacciano per specialisti della prevenzione contro gli animali nocivi e si arrogano il diritto di vita e di morte sui cani randagi. Il solo modo di arrestare l'esca lation dei bisogni è una denuncia radicale, politica, delle illusioni che legittimano il dominio delle professioni.

Parecchie professioni si sono talmente consolidate che non solo tengono sotto tutela il cittadino divenuto cliente, ma determinano la forma del suo mondo, divenuto un ospedale. La lingua nella quale egli si esprime, il suo modo di concepire i diritti e le libertà, la sua coscienza dei bisogni recano tutti l'impronta dell'egemonia delle professioni.

La differenza tra l'artigiano, il membro d'una professione liberale e il nuovo tecnocrate risulta chiara met tendo a confronto le tipiche reazioni suscitate dalla de cisione di non attenersi ai rispettivi pareri. Se non se guivi il consiglio dell'artigiano, eri uno stupido. Se non ascoltavi il parere del libero professionista, incorrevi nel la riprovazione della società. Oggi, invece, è alla professione o all'autorità pubblica che si darà colpa se tu ti sot trai alle cure che hanno deciso di dispensarti il legale, l'insegnante, il chirurgo o lo psicanalista. Con la scusa di soddisfare i bisogni in maniera migliore e più equa, il professionista dei servizi si è tramutato in un filantropo militante. Il dietologo prescrive la “giusta” formula per il neonato, lo psichiatra il “giusto” antidepressivo, e il maestro di scuola - oggi investito dei più ampi poteri dell’“educatore” - si sente autorizzato a frapporre il suo metodo fra te e qualunque cosa tu abbia voglia d'imparare. Ogni nuova specialità nella produzione dei servizi si af ferma nel momento in cui il pubblico adotta, e la legge avalla, una nuova concezione di “ciò che non dovrebbe esistere”. L'istituzione scolastica si è sviluppata nel corso di una crociata moralistica contro l'analfabetismo, una volta che l'analfabetismo era stato definito un male. Le cliniche di maternità si sono moltiplicate per porre fine ai parti in casa, ritenuti perniciosi.

I professionisti rivendicano il monopolio della defini zione della devianza e dei rimedi necessari. Gli avvocati, per esempio (gli esempi che porto possono valere in mi sura diversa nei diversi paesi: ma la tendenza di fondo è dappertutto uguale), affermano di essere i soli ad avere la competenza e il diritto legale di assistere chi vuole di vorziare. Se escogiti un sistema per divorziare senza as sistenza, ti cacci in un guaio: se non sei avvocato, puoi essere chiamato a rispondere di esercizio abusivo della professione; se lo sei, rischi la radiazione dall'ordine per comportamento antiprofessionale. I professionisti vantano inoltre una scienza segreta circa la natura umana e le sue debolezze, scienza che soltanto a loro spetta di applicare. I becchini per esempio, negli Stati Uniti, hanno posto in essere una professione non perché ora si chiamino impre sari di pompe funebri, o perché è richiesto un diploma per esercitare la loro attività, o perché le loro prestazioni sono diventate molto care, e neppure perché si sono sbarazzati dell'odore appiccicato al loro mestiere facendo eleg gere uno di loro presidente del Lion's Club: costituiscono una professione, dominante e menomante, dal momento in cui hanno acquistato il potere di far bloccare dalla polizia un funerale se il morto non è stato imbalsamato e chiuso nella bara da loro. In qualunque campo si possa immaginare un bisogno umano, le nuove professioni me nomanti si erigono a tutori esclusivi del bene pubblico.

La trasformazione di una professione liberale in profes sione dominante equivale all'istituzione di una chiesa uffi ciale di Stato. I medici tramutati in biocrati, gli insegnanti divenuti gnoseocrati, gli impresari di pompe funebri assurti a tanatocrati sono assai più simili a ordini ecclesiastici man tenuti dallo Stato che a corporazioni di mestiere. Il pro fessionista, in quanto maestro che insegna ciò ch'è con forme all'ortodossia scientifica del momento, rappresenta un teologo. In quanto imprenditore morale, fa la stessa parte del prete: crea il bisogno della propria mediazione. In quanto soccorritore militante, svolge il ruolo del mis sionario e bracca il diseredato. In quanto inquisitore, met te fuori legge l'eretico: impone la propria soluzione al re calcitrante che non vuole ammettere di essere un pro blema. Questa molteplice investitura che si accompagna al compito di alleviare uno specifico inconveniente della condizione umana fa di ogni professione qualcosa di ana logo a un culto ufficiale. Perciò l'accettazione pubblica delle professioni dominanti costituisce un fatto essenzial mente politico. La nuova professione crea una nuova ge rarchia, nuovi clienti e nuovi esclusi, come pure una nuova pressione sul bilancio. Ma oltre a ciò, ad ogni nuovo ri conoscimento d'una legittimità professionale le funzioni politiche di legiferare, giudicare e governare perdono qual cosa del loro specifico carattere e della loro indipendenza. La gestione della cosa pubblica passa dagli uguali eletti dal profano alle mani di una élite autoinvestitasi del proprio mandato.

Quando la medicina, or non è molto, ha esorbitato dai suoi limiti liberali, ha invaso il campo legislativo stabilendo delle norme di diritto pubblico, che hanno effica cia obbligatoria erga omnes. I medici avevano sempre de finito che cosa fosse da considerare malattia; oggigiorno la medicina dominante decide quali malattie la società non deve tollerare. La medicina ha invaso i palazzi di giustizia. I medici avevano sempre accertato chi era ma lato; la medicina dominante invece marchia coloro che devono essere sottoposti a trattamento. I medici dell'età liberale prescrivevano una cura; la medicina dominante possiede poteri pubblici di correzione: decide che cosa bisogna fare dei malati o ai malati. In una democrazia deve derivare dai cittadini il potere di fare le leggi, di at tuarle e di amministrare la giustizia; con l'ascesa delle professioni costituite in chiese, questo controllo dei cittadini sui poteri fondamentali è venuto a restringersi, a in debolirsi, e in certi casi a cadere del tutto. Il governo esercitato da un'assemblea che basi le proprie delibera zioni sui giudizi pronunciati da tali professioni può essere un governo per il popolo, ma mai del popolo. Non, stiamo qui a indagare con quali propositi si è arrivati a questo indebolimento della supremazia politica; basterà rilevare come una condizione necessaria di tale sovvertimento stia proprio nella squalifica dell'opinione dei profani ad opera dei corpi professionali.

Le libertà civiche riposano sul principio che esclude il “sentito dire” dal novero delle prove sulle quali si ba sano le decisioni pubbliche. Fondamento comune di tutte le norme vincolanti è ciò che ognuno può vedere con i propri occhi e interpretare con la propria testa. Le opinioni, le credenze, le deduzioni o convincimenti non deb bono prevalere sulla testimonianza oculare, mai. Le élites degli specialisti sono riuscite a diventare professioni domi nanti solo perché questo principio è stato a poco a poco intaccato e infine ribaltato. Oggi, nei parlamenti come nei tribunali, la regola che vieta le dimostrazioni per sentito dire è di fatto sospesa, non applicandosi alle opinioni espresse dai membri di queste élites che si accreditano da se stesse.

Si badi però a non confondere l'utilizzazione pubblica di un concreto sapere specialistico con quello che è invece l'esercizio di un giudizio normativo da parte di un corpo costituito. Quando un artigiano, per esempio un armaiolo, veniva chiamato in tribunale come perito per mettere i giudici a parte dei segreti del suo mestiere, procedeva sotto i loro occhi a una dimostrazione pratica: faceva ve dere loro che quel certo proiettile era stato sparato da quella determinata pistola. Oggi la maggioranza degli esperti svolge un ruolo diverso. Il professionista dominante pre senta ai giudici o ai parlamentari non una prova concreta o una dimostrazione specialistica, ma un'opinione inizia tica sua e dei suoi colleghi. Impone la sospensione della norma che vieta di basarsi sul sentito dire, e inevitabil mente scalza la sovranità del diritto. Il potere democratico ne è così ineluttabilmente sminuito.

Le professioni non sarebbero mai diventate dominanti e menomanti se la gente non fosse stata pronta a sentire come una carenza ciò che l'esperto le attribuiva come “bi sogno”. Il rapporto di dipendenza reciproca che lega l'uno all'altra, come tutore a pupillo, non si riesce ormai più a scorgere perché oscurato dalla corruzione della lingua. Certe buone vecchie parole si sono trasformate in etichette, che indicano a quali specialisti compete la tutela sulla casa, sulla bottega, sul negozio e sullo spazio o sull'aria che li separa. La lingua, il più fondamentale dei beni co muni, è contaminata da contorti fili gergali, ognuno ma novrato da una professione. L'espropriazione delle parole, l'impoverimento del lessico quotidiano e la sua degrada zione a terminologia burocratica corrispondono, in modo ancor più intimamente avvilente, a quella particolare for ma di degradazione ambientale che toglie agli uomini la capacità di sentirsi utili se non hanno un impiego retri buito. Finché non si presterà maggiore attenzione ai per vertimenti di vocabolario dietro cui si nasconde il domi nio delle professioni, è quasi inutile proporre riforme di legge, di comportamenti e di modelli intese a restringere tale dominio.

Quando io ho imparato a parlare, non esistevano altri “problemi” fuorché quelli di matematica o di scacchi; le “soluzioni” erano saline o legali, e “bisogno” era per lo più usato in forma verbale. Espressioni come “ho un problema” oppure “ho un bisogno” suonavano alquanto bislacche. Quand'ero adolescente, e mentre Hitler elabo rava “soluzioni”, si diffusero anche i “problemi sociali”. Varietà sempre nuove di “bambini con problemi” veni vano scoperte tra i poveri man mano che gli assistenti so ciali imparavano a marchiare le loro prede e a standardizzarne i “bisogni”. Il bisogno, inteso come sostantivo,fu la biada che fece espandere le professioni fino a in staurarne il dominio. La povertà si venne modernizzando. Da esperienza, i managers la tradussero in misura. I poveri divennero i “bisognosi”.

Durante la seconda metà della mia vita, l'essere “biso gnosi” acquisì rispettabilità. I bisogni calcolabili e imputabili salirono di grado nella scala sociale. “Aver biso gno” cessò di essere un segno di povertà. Il reddito ori ginò nuove categorie di bisogni. I pedocrati alla dottor Spock, i sessuocrati alla Lewis Comfort e i volgarizzatori di Ralph Nader che col pretesto di tutelare i consumatori stimolano il consumo, addestrarono i profani a procac ciarsi soluzioni per i problemi che imparavano a inven tarsi seguendo le istruzioni professionali. Le università abilitarono i laureati a scalare vette sempre più aree per piantarvi e coltivarvi sempre più nuove specie di bisogni ibridati. Aumentarono le prescrizioni e si ridussero le ca pacità. In medicina, per esempio, vennero prescritti prodotti farmacologicamente sempre più attivi, mentre la gente perdeva la voglia e la capacità di affrontare un'indisposi zione o anche un semplice malessere. Nei supermercati americani, dove si calcola che compaiano annualmente circa 1500 prodotti nuovi, meno del venti per cento di essi sopravvive per più di un anno sugli scaffali, mentre gli altri si rivelano invendibili, legati a mode effimere, rischiosi o non remunerativi, o subito superati da nuovi articoli; ra gion per cui i consumatori sono sempre più indotti a cèrcare la guida dei professionisti della “difesa del consumatore”.

Il rapido ricambio dei prodotti, inoltre, rende i desideri vacui e informi. Sicché, paradossalmente, un forte consu mo di massa derivato da bisogni indotti genera nel con sumatore una crescente indifferenza al desiderio specifico, vissuto. Sempre di più i bisogni sono creati dallo slogan pubblicitario e dagli acquisti fatti su prescrizione del funzionario, dell'estetista, del ginecologo e di decine di altri diagnosti. Il bisogno di essere istruiti sul modo di aver bisogno - mediante la pubblicità, prescrizione o la discussione guidata nel collettivo o nella comune - com pare in ogni cultura in cui le decisioni e gli atti non sono più la risultante di una esperienza personale del soddisfa cimento, e il consumatore flessibile non può che sostituire i bisogni sentiti con bisogni appresi. Man mano che si pro gredisce nell'arte d'imparare a provare bisogni, la capa cità di modellare i propri desideri in funzione di una per sonale ricerca di soddisfazione diventa una prerogativa rara, propria della gente molto ricca o di quella più dise redata. Poiché d'altra parte i bisogni vengono incessante mente suddivisi in componenti sempre più piccole, ognuna gestita da un apposito specialista, diviene difficile per il consumatore integrare le disparate offerte dei suoi diversi tutori in una totalità che abbia senso, che possa essere desiderata con piena cognizione di causa e ottenuta con piacere. Dall'alimentazione all'istruzione, dall'armonia co niugale all'inserimento sociale, dalla dietetica alla medi tazione, dall'aggiornamento al riciclaggio, consulenti, esperti e altri personaggi del genere sono pronti a cogliere ogni nuova possibilità di gestire la gente e a offrire i loro pro dotti prefabbricati per appagare ogni bisogno parcellizzato.

Usato come sostantivo, “bisogno” è la riproduzione su scala individuale di un modello professionale; è la copia in plastica della matrice nella quale i professionisti fondono i loro prodotti; è la forma pubblicitaria che as sume il favo nel quale si generano i consumatori. Igno rare i propri bisogni o dubitarne è diventato un compor tamento sociale inammissibile. Buon cittadino è colui che attribuisce a se stesso bisogni standardizzati, con tanta convinzione da soffocare ogni altro possibile desiderio e, a maggior ragione, ogni eventuale idea di rinuncia.

Quando sono nato io, prima che Stalin, Hitler e Roosevelt salissero al potere, soltanto i ricchi, gli ipocondriaci e gli appartenenti ad alcune categorie d'élite affermavano d'aver bisogno di assistenza medica quando avevano qualche li nea di febbre. I medici di allora, a questo riguardo, non disponevano di rimedi molto diversi da quelli delle nonne. La prima mutazione dei bisogni, in medicina, si ebbe coni sulfamidici e gli antibiotici. Mentre si potevano ormai stroncare le infezioni in modo semplice ed efficace, i farmaci idonei furono sempre più soggetti a prescrizione me dica. I medici ebbero il monopolio dell'assegnazione del ruolo di malato. Chi non si sentiva bene doveva andare dal medico a farsi etichettare con il nome di una malat tia, che legittimava la sua inclusione nella minoranza dei cosiddetti malati: individui esentati dal lavoro, autorizzati a ricevere assistenza, sottoposti agli ordini del medico e tenuti a guarire per tornare ad essere utili. Paradossalmente, proprio mentre la tecnica farmacologica - analisi e medicinali - diventava talmente automatica e poco co stosa che si sarebbe potuto fare a meno del medico, la so cietà emanava leggi e regolamenti di polizia intesi a limitare il libero uso di quei procedimenti che la scienza aveva semplificato e a riservarli esclusivamente ai professionisti.

La seconda mutazione dei bisogni avvenne quando i ma lati cessarono di essere una minoranza. Oggi sono ben po chi coloro che riescono a scansare a lungo la prestazioni mediche. In Italia come negli Stati Uniti, in Francia o in Belgio, un cittadino su due è sorvegliato contempora neamente da vari specialisti della salute, che lo curano, lo consigliano o, come minimo, lo tengono sotto osservazione. L'oggetto di questa assistenza specialistica è il più delle volte uno stato dei denti, dell'utero, del sistema nervoso, della pressione sanguigna o dell'attività ormonica di cui il “paziente” non patisce. Sicché oggi non sono più i pazienti a costituire la minoranza, ma quei de vianti che in qualche modo restano fuori da tutte le classi di pazienti. Compongono tale minoranza i poveri, i contadini, gli immigrati recenti e vari altri che, talvolta di propria volontà, si sottraggono agli obblighi del servizio sanitario. Ancora una ventina d'anni fa “non vedere mai un medico” era segno di salute normale, che si presumeva buona; oggi una simile condizione di non paziente denota miseria o dissenso. E cambiata persino la figura dell'ipocondriaco. Il medico degli anni '40 definiva con questo termine colui che bussava continuamente alla porta del suo studio, il malato immaginario. I medici d'oggi invece indicano col medesimo nome la minoranza che li fugge: gli ipocondriaci sono i sani immaginari. Essere inseriti in un sistema professionale come clienti a vita non è più uno stigma che separa gli individui menomati dalla massa dei cittadini. Viviamo in una società orga nizzata in funzione delle maggioranze devianti e dei loro custodi. Essere attivo cliente di parecchi professionisti ti dà un posto ben definito in quel regno dei consumatori intorno al quale ruota la nostra società. Trasformandosi da professione liberale consultiva in professione dominante e menomante, la medicina ha così incommensurabilmente accresciuto il numero dei bisognosi.

A questo punto critico, i bisogni attribuiti subiscono una terza mutazione. Si saldano in quello che gli esperti chiamano un problema multidisciplinare, il quale perciò richiede una soluzione multiprofessionale. Prima la pro liferazione delle merci, ciascuna tendente a diventare una necessità, ha efficacemente addestrato il consumatore a provare bisogni a comando. Poi la graduale parcellizza zione dei bisogni in spezzoni sempre più piccoli e distinti ha portato il cliente a dipendere dal giudizio dell'esperto per poter miscelare i propri bisogni in un insieme signifi cativo. Ne offre un buon esempio l'industria dell'automo bile. Dalla fine degli anni '60 il numero degli accessori facoltativi reclamizzati come necessari per “personalizza re” una Ford di serie è immensamente cresciuto; ma contrariamente a quel che si aspetterebbe il cliente, questa paccottiglia “opzionale” viene in realtà montata sulla catena di montaggio dello stabilimento di Detroit, e all'ac quirente del Montana non resta che scegliere tra i pochi modelli già completi di tutto che vengono spediti a caso:se vuole la decappottabile deve prenderla con i sedili verdi che detesta, mentre se per le sue conquiste non può fare a meno dei sedili in finto leopardo deve adattarsi a una berlina col tetto rigido foderato in stoffa scozzese.

Infine il cliente viene educato ad aver bisogno delle prestazioni di un'intera équipe per poter ricevere un'“assistenza soddisfacente”, come dicono i suoi tutori. E ciò che accade quando i servizi professionali si rivolgono in dividualmente al singolo consumatore, allo scopo di migliorarne lo stato. Sono tanti ormai coloro che passano l'intera esistenza in un dedalo di terapie che secondo i servizi assistenziali dovrebbero servire a migliorare la loro vita. Più si sviluppa l'economia dei servizi, meno tempo resta all'individuo per consumare l'assistenza pedagogica, medica, sociale, ecc. La scarsità di tempo potrebbe di ventare presto il principale ostacolo al consumo dei ser vizi prescritti dai professionisti e spesso pagati dalla collettività. E una scarsità che comincia a manifestarsi assai presto. Già nella scuola materna il bambino viene preso in carico da tutto un gruppo di specialisti: l'allergista, il foniatra, il pediatra, lo psicologo dell'infanzia, l'assistente sociale, l'esperto di educazione psicomotoria, la maestra. Costituendo questa équipe pedocratica, i numerosi e vari professionisti tentano di dividèrsi quel tempo che è diven tato il principale limite all'attribuzione di ulteriori biso gni. Per l'adulto, il luogo dove si concentra la sommini strazione dei servizi è il posto di lavoro: dal direttore del personale a quello della formazione, dallo psicologo al medico all'assistente sociale al produttore di assicurazioni, tutti questi specialisti trovano più redditizio spartirsi di comune accordo il tempo del lavoratore che disputarselo singolarmente. Un cittadino senza bisogni sarebbe forte mente sospetto. La gente ha bisogno d'un impiego, si dice, per l'assistenza che garantisce prima ancora che per i soldi. Sparisce la comunità, sostituita da una nuova placenta composta di tubi che erogano assistenza professionale. Sottoposta a cure intensive permanenti, la vita si paralizza.

Alcune distinzioni riabilitanti

La menomazione che, con l'egemonia delle professioni, colpisce il cittadino è consolidata dalla potenza dell'illu sione. Le speranze di salvezza un tempo riposte nelle credenze religiose cedono il posto a una fiduciosa attesa nei confronti dello Stato, supremo dispensatore di servizi professionali. Ognuno dei molteplici cleri accampa la pro pria competenza a definire le difficoltà della gente in ter mini di specifici problemi risolvibili attraverso una qualche prestazione di servizi. Nel momento in cui si riconosce tale pretesa, il profano è legittimato ad accettare docilmente le carenze che gli vengono imputate, e il suo mondo si trasforma in una cassa di risonanza dei bisogni. Il soddi sfacimento delle scelte autonomamente definite e perse guite viene sacrificato all'appagamento di bisogni indotti.

Basta osservare il profilo delle nostre città per vedervi riflesso questo dominio dei bisogni fabbricati e ammini strati: giganteschi edifici adibiti a servizi proféssionali in combono su masse di persone che fanno la spola tra l'uno e l'altro in un ininterrotto pellegrinaggio alle nuove cat tedrali della salute, dell'istruzione e dell'esistenza. Le case “sane” in queste città, sono quegli appartamenti asettici dove uno non può né nascere né star malato né morire decentemente. Il vicino soccorrevole è una specie in via di estinzione, come il medico disposto a far visite a domicilio.

Spariscono i luoghi di lavoro propizi all'apprendistato, sostituiti da opachi dedali di corridoi dove l'accesso è consentito solo ai dipendenti che portino appuntato al ba vero della giacca il proprio “documento d'identità azien dale” in plastica. La città di questa popolazione tramu tata in soggetto di assistenza è un mondo dove tutto è organizzato in funzione della erogazione di servizi.

La dipendenza dai bisogni imputabili, che è ormai pre dominante fra i popoli ricchi e che esercita un fascino paralizzante sui poveri, sarebbe sicuramente irreversibile se tra gli uomini e i “bisogni” ad essi attribuiti esistesse una reale corrispondenza. Ma non è così. Al di là d'un certo grado d'intensità, la medicina produce impotenza e malattia; l'istruzione diventa il massimo generatore di una divisione menomante del lavoro; i sistemi di trasporto veloce trasformano gli abitanti delle città in passeggeri per circa un sesto delle loro ore di veglia, e per un altro sesto in forzati che lavorano per pagare Agnelli, la Esso e la società delle autostrade. La soglia oltre la quale la medicina, l'istruzione e i trasporti diventano strumenti controproducenti è stata raggiunta in tutti i paesi del mon do che abbiano un livello di reddito pro capite almeno pari a quello di Cuba. In tutti questi paesi, contrariamente alle illusioni diffuse dalle ideologie ortodosse, vuoi d'Occidente vuoi d'Oriente, tale controproduttività specifica non ha nulla a che fare con il tipo di scuola, di veicolo o di organizzazione sanitaria attualmente in uso si sviluppa infatti ogni volta che, nel processo di produzione, l'intensità di capitale supera una certa soglia critica.

Le nostre principali istituzioni hanno acquisito il misterioso potere di ribaltare le finalità per le quali erano state originariamente concepite e sono finanziate. Sotto la guida delle professioni più prestigiose, i nostri strumenti istituzionali ottengono come loro principale prodotto una paradossale controproduttività: la sistematica menomazione dei cittadini/Una città imperniata sullo scorrimento a motore diventa inadatta per le gambe, e non c'è aumento del numero delle ruote che possa rimediare alla forzata immobilità degli arti, resi paralitici. Il sovrappiù di merci e di servizi paralizza l'azione autonoma. Non ne deriva però soltanto una perdita secca delle soddisfazioni non compatibili con l'era industriale: l'incapacità di produrre valori d'uso finisce col rendere inefficaci e controindicati gli stessi prodotti che avrebbero dovuto surrogarli. L'auto mobile, il sistema sanitario, la scuola, il management si tramutano allora in perniciose nocività per il consumatore e non arrecano più alcun beneficio se non a chi fornisce i servizi.

Perché allora non ci si ribella a questo moto di deriva della società industriale avanzata, che la porta a compat tarsi in un unico sistema di erogazione di servizi? La spiegazione principale sta nel potere, che tale sistema pos siede, di generare illusioni. Oltre a compiere atti concreti sui corpi e sulle menti, le istituzioni professionalizzate funzionano anche come potenti rituali, generatori di fede nelle cose che i loro gestori promettono. Oltre a insegnare a Pierino a leggere, le scuole gli insegnano anche che im parare dai professori è “meglio” e che, senza l'obbligo scolastico, i poveri leggerebbero meno libri. Oltre a servire come mezzo di locomozione, l'autobus, non meno dell'au to privata, rimodella l'ambiente e bandisce l'uso delle gambe. Oltre ad aiutare a evadere il fisco, i consulenti le gali inculcano l'idea che le leggi risolvano i problemi. Una parte sempre crescente delle funzioni svolte dalle nostre maggiori istituzioni consiste nel coltivare e rafforzare tre specie di illusioni, per effetto delle quali il citta dino si tramuta in un cliente che attende la propria sal vezza unicamente dall'opera degli esperti.

La prima illusione asservitrice è l'idea che l'uomo nasca per consumare e che possa raggiungere qualunque scopo acquistando beni e servizi. Questa illusione deriva da una coltivata cecità riguardo all'importanza che hanno i valori d'uso nel quadro di una economia. In nessuno dei modelli economici oggi seguiti è prevista una variabile che tenga conto dei valori d'uso non negoziabili, e neanche una va riabile che consideri il perenne apporto della natura. E tuttavia non c e sistema economico che non crollerebbe di colpo qualora la produzione dei valori d'uso si contraesse oltre un certo limite: per esempio se le faccende domestiche fossero svolte dietro retribuzione o se si facesse l'amore soltanto a pagamento. Ciò che la gente compie o fabbrica senza alcuna intenzione o possibilità di farne com mercio è altrettanto incommensurabile e inestimabile per il mantenimento di un sistema economico quanto l'ossi geno che essa respira.

L'illusione che i modelli economici possano ignorare i valori d'uso nasce dalla convinzione che quelle attività che noi designiamo con verbi intransitivi si possono sostituire indefinitamente con dei prodotti predisposti da istituzioni e che si indicano con un sostantivo: “l'istruzione”al posto di “io apprendo”, “l'assistenza sanitaria” per “io guarisco”, “i trasporti” per “io mi muovo”, .”la televisione” per “io mi diverto”.

La confusione tra valori personali e valori standardiz zati si è diffusa in quasi tutti i campi. Sotto l'impero delle professioni, i valori d'uso si dissolvono, diventano obsoleti e finiscono col perdere il loro carattere specifico. L'amore e l'assistenza istituzionale appaiono concetti interscambia bili. Dieci anni di concreta conduzione di un podere, get tati in un frullatore pedagogico, risultano equivalenti a un diploma d'istituto tecnico. Cose raccolte a caso e nate nella libertà della strada vengono aggiunte a titolo di “esperienza educativa” a quelle versate nella testa degli allievi. Sembra che i contabili del sapere non si rendano conto che le due cose, come l'olio e l'acqua, si mescolano solo finché le emulsiona la tipica mentalità dell'“educatore”. Ma se noi per primi non fossimo affascinati da questa sorta di avida credenza, le bande degli zelanti creatori di bisogni non potrebbero continuare a tartassarci e a profondere le nostre risorse nei loro esperimenti, nelle loro reti e nelle altre loro miracolose soluzioni.

L'utilità delle merci, ovvero dei beni e servizi di serie, è soggetta a due limiti intrinseci, che non vanno confusi tra loro. Un limite è che prima o poi le code bloccheran no il funzionamento di ogni sistema che genera bisogni a ritmo più rapido dei prodotti destinati ad appagarli; l'altro è che prima o poi la dipendenza dalle merci condizionerà in tal modo i bisogni da paralizzare ogni capacità di produzione autonoma nel campo in questione. L'utilità delle merci ha cioè i suoi limiti nella congestione e nella paralisi. Entrambe sono risultati del supersviluppo in qua lunque campo di produzione, ma di tipo molto diverso fra loro. La congestione, che mostra sino a che punto le merci possano diventare d'impaccio a se stesse, spiega per ché l'auto privata non è più di alcuna utilità per spostarsi in Manhattan; però non spiega perché la gente si ammazzi dal lavoro per pagare le rate e i premi d'assicurazione per automobili che non servono a spostarla. E ancora meno la congestione, da sola, spiega perché la gente arrivi a di pendere dai veicoli in misura tale da finire paralizzata e non saper più usare le proprie gambe.

Se la gente diventa prigioniera di un'accelerazione che consuma tempo, di un'istruzione che inebetisce e di una medicina che rovina la salute è perché, oltre una certa soglia d'intensità, la dipendenza da una lista di beni industriali e di servizi professionali distrugge le potenzia lità umane, in una maniera tutta specifica. Solo fino a un certo punto le merci possono sostituire ciò che la gente compie o fabbrica per conto proprio. Solo entro certi limiti i valori di scambio possono rimpiazzare sod disfacentemente i valori d'uso. Al di là di tale soglia, ogni ulteriore produzione di merci arreca beneficio so lo al produttore professionale - che ne imputa il bisogno al consumatore - mentre lascia il consumatore stordito e disorientato, anche se più fornito. Il piacere che si prova non nel mero pagamento ma nella soddisfazione di un bisogno è connesso in misura significativa al ricordo di un'azione personale autonoma; esistono dei limiti oltre i quali la proliferazione delle merci altera nel consuma tore proprio questa facoltà di realizzarsi agendo.

Nel ricevere unicamente prodotti bell'e fatti, che non lasciano alcun margine di azione da parte sua, il consu matore non può che restarne paralizzato. La misura del benessere di una società non è mai pertanto un'espressione algebrica nella quale i due modi di produzione, l'autono mo e l'eteronomo, si equivalgono, bensì sempre un equi librio che si ha quando i valori d'uso e le merci si com binano in fruttuosa sinergia. Solo fino a un certo punto la produzione eteronoma di una merce può valorizzare e integrare la realizzazione autonoma del fine personale corrispondente; superato tale punto, la sinergia tra i due modi di produzione si rivolge paradossalmente contro lo scopo a cui miravano sia il valore d'uso che la merce. E un fatto, questo, che talvolta non viene percepito perché il movimento ecologico, nella sua principale espressione, tende a far perdere di vista il punto.

L'opposizione alle centrali nucleari, per esempio, è stata generalmente motivata col pericolo delle radiazioni o col rischio di una eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei tecnocrati: ma ben di rado, finora, si è osato cri ticarle per il loro apporto alla già eccessiva quantità di energia disponibile. Misconoscendo il fatto che tale sovrab bondanza di energia è socialmente distruttiva in quanto paralizza l'azione dell'uomo, si continua a reclamare una produzione energetica semplicemente diversa anziché, come si dovrebbe, minore. Allo stesso modo sono ancora largamente ignorati gli inesorabili limiti alla crescita che sono insiti in qualunque ente erogatore di servizi; eppure dovrebbe essere ormai evidente che l'istituzionalizzazione della cura della salute tende a trasformare le persone in marionette malate e che l'educazione a vita non può che generare una cultura buona per gente programmata. L'eco logia potrà fornire un punto di riferimento nel cammino verso una forma di modernità vivibile solo quando ci si renderà conto che un ambiente modellato dall'uomo in funzione delle merci riduce a tal punto le reattività dell’individuo che le merci stesse perdono qualsiasi valore come mezzo di soddisfazione personale. Senza questa con sapevolezza, può accadere che grazie a una tecnologia industriale più pulita e meno aggressiva si raggiungano livelli di opulenza frustrante oggi inconcepibili.

Sarebbe sbagliato attribuire la controproduttività essenzialmente alle “esternalità” dello sviluppo economico, quali il depauperamento delle risorse, l'inquinamento e le varie forme di congestione. Ciò significherebbe confon dere la congestione, per cui le cose si intralciano fra loro, con la paralisi della persona che non può più esercitare la propria autonomia in un ambiente fatto per le cose. La ragione fondamentale, per cui un'elevata inten sità di mercato porta inesorabilmente alla controprodutti vità, va vista nel tipo di monopolio che le merci eserci tano sulla formazione dei bisogni umani. Tale monopolio supera di gran lunga ciò che s'intende di solito con que sto termine. Un monopolio commerciale si limita ad im porre al mercato una determinata marca di whisky o di automobili. Un cartello industriale può restringe re ulte riormente la libertà, per esempio appropriandosi di tutti i mezzi di trasporto collettivo per favorire lo sviluppo della motorizzazione privata, come fece la Generai Motors com prando i tram di Los Angeles. Al primo si può sfuggire bevendo rum, al secondo girando in bicicletta. Tutt'altra cosa è invece quello che io definisco col termine “mono polio radicale”, e che consiste nella sostituzione di un prodotto industriale o di un servizio professionale a una attività utile cui la gente si dedica o vorrebbe dedicarsi. Un monopolio radicale paralizza l'attività autonoma, a vantaggio della prestazione professionale. Più i veicoli dislocano la gente, più diventa necessario l'intervento di regolatori del traffico e più la gente perde la facoltà di tornarsene a casa a piedi. Quand'anche i motori fossero alimentati con energia solare e i veicoli fossero fatti d'aria, questo monopolio radicale continuerebbe a sussistere es sendo inseparabile dalla circolazione ad alta velocità. Più a lungo una persona resta sotto la cappa del sistema edu cativo, meno avrà tempo e voglia di curiosare e di riflet tere criticamente. In qualunque campo, a un certo punto l'abbondanza dei beni offerti al consumo rende l'ambiente così inadatto all'azione personale che l'eventuale sinergia tra i valori d'uso e le merci diventa negativa. Si instaura allora una controproduttività paradossale, specifica. E que sto il termine col quale io definisco tutti i casi in cui l'im potenza conseguente alla sostituzione di un valore d'uso con una merce tramuta quest'ultima in un disvalore ai fini di quella soddisfazione che dovrebbe fornire.

L'uomo cessa di essere riconoscibile come tale quando non è più in grado di dar forma ai propri bisogni mediante l'uso più o meno abile degli strumenti che gli sono for niti dalla sua cultura. Per tutto il corso della storia, que sti strumenti sono stati per lo più attrezzi ad alta inten sità di lavoro, adoperabili per procurare soddisfazione a chi se ne serviva, e che venivano impiegati per una pro duzione domestica; solo marginalmente le pale e i martelli venivano usati per altri scopi, quali potevano essere la costruzione di una piramide, la fabbricazione di un so vrappiù destinato allo scambio di doni, o, ancor meno di frequente, la produzione di beni da vendere. Le occasioni di ricavare profitti erano limitate; si lavorava soprattutto per creare valori d'uso non destinati allo scambio. Ma il progresso tecnologico è stato tenacemente applicato alla realizzazione di un tutt'altro tipo di strumento: uno stru mento volto in primo luogo a produrre merci vendibili.

Si cominciò con la rivoluzione industriale, quando la nuo va tecnologia ridusse il lavoratore al robot chapliniano di Tempi moderni. In questa prima fase, però, il modo di produzione industriale non arrivava ancora a paralizzare la gente fuori del luogo di lavoro. Gli uomini e le donne d'oggi, invece, che ormai dipendono quasi in tutto dalla distribuzione di frammenti standardizzati prodotti median te strumenti azionati da altra gente anonima, non tro vano più nell'uso degli strumenti quella soddisfazione di retta, personale, che ha stimolato l'evoluzione dell'uma nità e delle sue culture. Mentre i loro bisogni e i loro consumi si sono moltiplicati di molte volte rispetto al passato, è diventata rara fra loro la soddisfazione nel ma neggio degli strumenti, ed essi non vivono più quella vita in funzione della quale ha preso forma il loro orga nismo. Nel migliore dei casi sono ridotti a sopravvivere, pur se circondati di sfarzo. Il corso della loro esistenza è diventato una catena di bisogni, di volta in volta saziati al fine di suscitare nuovi bisogni e la necessità di appa garli. Con questa riduzione dell'uomo a consumatore pas sivo, si finisce col perdere persino il senso della differenza fra il vivere e il sopravvivere. Al gusto della vita si so stituisce la scommessa dell'assicurazione, la trepida attesa di razioni e terapie. In un simile ambiente diventa facile dimenticare che soddisfazione e gioia possono aversi solo sin quando, nel proseguimento di un fine, vitalità perso nale e provvidenze tecniche restino in equilibrio.

L'idea che gli strumenti di cui si servono le istituzioni di mercato possono distruggere impunemente le condizioni che permettono l'uso personale di mezzi conviviali è una illusione, che riesce a soffocare ogni “vitalità” presen tando il progresso tecnologico come un fatto che autorizza e impone un sempre maggior dominio delle professioni. Questa illusione induce a credere che gli strumenti, per acquisire efficacia nel perseguimento di un fine specifico, non possano che diventare sempre più complessi e arcani, come per esempio le cabine di guida degli aerei o le gru. Si pensa perciò che gli strumenti moderni richiedano ne cessariamente operatori speciali, dotati d'un elevatissimo addestramento, e che soltanto in questi operatori si possa riporre piena fiducia. In realtà, di solito è vero proprio il contrario, e per forza. Quanto più le tecniche si moltipli cano è accrescono la loro specificità, tanto meno comples sa diventa, spesso, la valutazione che presiede al loro im piego. La fiducia del cliente, sulla quale si fondava l'au tonomia del libero professionista come anche dell'artigiano, neppure essa è più richiesta. Per quanti passi avanti la medicina abbia fatto, rispetto al totale degli atti medici sono soltanto una minuscola frazione quelli che richie dono, a una persona di media intelligenza, una prepara zione particolarmente sviluppata. Da un punto di vista sociale, il titolo di “progresso tecnico” dovrebbe essere riservato ai casi in cui nuovi strumenti accrescano la ca pacità e l'efficienza di una più vasta massa di persone, e in particolare permettano una più autonoma produzione di valori d'uso.

Il monopolio professionale che si estende sulla nuova tecnologia non è affatto inevitabile. Le grandi invenzioni dell'ultimo secolo, quali i nuovi metalli, i cuscinetti a sfera, certi materiali da costruzione, l'elettronica, certi pro cedimenti di analisi e certi medicamenti, sono suscettibili di accrescere il potere di entrambi i modi di produzione, di quello eteronomo come di quello autonomo. Di fatto però la nuova tecnologia non è stata per lo più incorpo rata nella strumentazione conviviale, ma in confezioni e in complessi istituzionali. Messa pressoché costantemente al servizio della produzione industriale, grazie alla sua indubbia capacità di recare vantaggio a chi la gestisce la tecnologia ha consentito ai professionisti di instaurare un monopolio radicale. La controproduttività indotta dalla paralisi nella produzione di valori d'uso trova incremento in questo modo di concepire il progresso tecnologico.

Non esiste alcun “imperativo tecnologico” che, di per sé, imponga che i cuscinetti a sfera vengano impiegati nei veicoli a motore o che l'elettronica venga usata per con trollare il funzionamento del cervello. Le istituzioni in cui si traducono il traffico ad alta velocità o la tutela della salute mentale non sono conseguenze necessarie del cusci netto a sfere o del circuito elettronico; le loro funzioni sono determinate dai bisogni che si presume dovrebbero soddisfare: bisogni che, in grandissima misura, sono definiti, imputati e rafforzati dalle professioni menomanti. E questo un punto che sembra sfuggire ai giovani turchi radicali attivi nelle professioni allorché essi giustificano la propria fedeltà alle istituzioni presentandosi come sacerdoti investiti dal popolo della missione di addomesticare il progresso tecnologico.

La medesima soggezione a tale idea del progresso fa sì che la progettazione sia intesa soprattutto come un con tributo all'efficienza delle istituzioni. Alla ricerca scienti fica si destinano abbondanti finanziamenti, ma solo se può essere applicata a scopi militari o se serve a consolidare il dominio professionale. Le leghe metalliche che permet tono di fabbricare biciclette più robuste e leggere sono un frutto indiretto di studi orientati alla produzione di aviogetti più veloci e di armi più micidiali. Ma i risultati della ricerca si riversano quasi esclusivamente sull'attrezzatura industriale, sicché macchine già enormi diventano ancora più complesse e imperscrutabili per il profano. Da questo orientamento cui si ispirano scienziati e tecnici esce rafforzata una tendenza già pesante: i bisogni che richie dono un'attività autonoma vengono misconosciuti, mentre si moltiplicano quelli che comportano l'acquisto di merci. Gli strumenti conviviali che facilitano il godimento indi viduale dei valori d'uso - e che richiedono poca o punta supervisione amministrativa, medica o poliziesca - non trovano più posto che ai due estremi: nella maggior parte del mondo, ormai, le due sole categorie di persone che vanno in bicicletta sono i lavoratori poveri dell'Asia e gli studenti e i professori dei paesi ricchi. Forse senza ren dersi conto della propria fortuna, gli uni e gli altri si go dono la libertà da questa seconda illusione.

Da qualche tempo, certi gruppi di professionisti, alcuni enti governativi e organizzazioni internazionali si sono messi a studiare, elaborare e caldeggiare una tecnologia inter media, su piccola scala. Si potrebbe pensare che questi sforzi siano volti a eliminare le più smaccate sconcezze dell'imperativo tecnologico. Ma, in grandissima parte, que sta nuova tecnologia intesa a consentire che la gente faccia da sé nel campo della salute, dell'istruzione, della costru zione delle case, non è che un diverso modello di offerta di merci ad alta intensità di dipendenza. Si chiede per esempio agli esperti di progettare un nuovo tipo di arma dietto per medicinali che permetta alle famiglie di seguire le direttive impartite dal medico via telefono. Si insegna alle donne a esaminarsi da sole il seno al fine di dar lavoro al chirurgo. Ai cubani si danno ferie pagate perché possano montarsi in proprio le case prefabbricate prodotte in serie dall'industria. L'allettante prestigio dei prodotti professionali finisce, man mano che si abbassa il loro co sto, col rendere ricchi e poveri sempre più simili tra loro. Tanto i boliviani quanto gli svedesi si sentono ugualmente arretrati, diseredati e sfruttati nella misura in cui impa rano senza la supervisione di professori, stanno in buona salute senza il check-up di un medico e si muovono senza l'ausilio di una stampella motorizzata.

La terza illusione menomante consiste nell'affidare agli esperti l'incarico di fissare un limite alla crescita. Si sup pone che intere popolazioni, socialmente condizionate a provare bisogni a comando, non attendano altro che di sentirsi dire di che cosa non hanno bisogno. Gli stessi agenti multinazionali che per una generazione hanno im posto ai ricchi come ai poveri un modello internazionale di contabilità, di deodorante, di consumo d'energia, pa trocinano ora il Club di Roma. Docilmente l'Unesco si accoda e addestra specialisti nell'imputazione di bisogni su scala regionale. Così, in nome del loro presunto bene,i ricchi vengono programmati a sobbarcarsi nei propri paesi un dominio professionale più costoso, e a ricono scere ai poveri bisogni di tipo più economico e frugale. I più intelligenti dei nuovi professionisti sanno benissimo che la penuria crescente porterà a una sempre maggiore accentuazione dei controlli sui bisogni: non a caso l'im piego più prestigioso, oggigiorno, è la pianificazione cen tralizzata del decentramento ottimale della produzione. Ma il fatto di cui ancora non ci si rénde conto è che atten dersi la salvezza da una limitazione decretata dai profes sionisti significa far confusione tra libertà e diritti.

In ognuna delle sette regioni in cui l'Onu ha diviso il mondo si sta, addestrando un nuovo clero destinato a pre dicare il particolare stile d'austerità disegnato dai nuovi progettisti di bisogni. Specialisti in “presa di coscienza”battono le comunità locali incitando la gente a raggiungere gli obiettivi di produzione decentrata che le sono stati assegnati. Mungere la capretta di famiglia era una libertà fino a quando una pianificazione più spietata non ne ha fatto un dovere, per contribuire al PNL.

La sinergia tra produzione autonoma e produzione ete ronoma si rispecchia nell'equilibrio che una società man tiene tra libertà e diritti. Le libertà proteggono i valori d'uso come i diritti tutelano l'accesso alle merci. E come le merci possono distruggere la possibilità di creare valori d'uso e tramutarsi in ricchezza depauperante, così la definizione professionale dei diritti può soffocare le libertà e instaurare una tirannide che seppellisce la gente sotto i suoi diritti.

La confusione appare particolarmente evidente se pen siamo agli esperti della salute. La salute comprende due aspetti: libertà e diritti. Essa designa quella zona di au tonomia entro la quale una persona governa i propri stati biologici e le condizioni del proprio ambiente immediato. In parole povere, la salute s'identifica con il grado di li bertà vissuta. Di conseguenza, coloro che si occupano del bene pubblico dovrebbero adoperarsi a garantire un'e qua distribuzione della salute come libertà, che a sua volta dipende da condizioni ambientali realizzabili sol tanto con interventi politici organizzati. Oltre una certa soglia d'intensità, l'assistenza sanitaria professionale, per equamente distribuita che sia, non può che soffocare la salute in quanto libertà. In questo senso fondamentalmente la cura della salute è una questione di adeguata salva guardia della libertà.

Un siffatto concetto della salute implica, è evidente, un rispetto di principio delle libertà inalienabili. Per ben com prendere questo punto, occorre distinguere chiaramente tra libertà civile e diritti civili. La libertà di agire senza che l'autorità frapponga ostacoli ha una portata più vasta dei diritti civili che lo Stato può promulgare per garantire a ognuno uguali possibilità di ottenere certi beni e servizi.

Di regola le libertà civili non costringono gli altri ad agire secondo i desideri di terzi. Io sono libero di parlare e di rendere pubbliche le mie opinioni, ma nessun gior nale è obbligato a stamparle e nessuno dei miei concitta dini è tenuto a leggerle. Io sono libero di dipingere la bellezza così come pare a me, ma nessun museo ha l'ob bligo di comprare i miei quadri. Contemporaneamente però lo Stato, quale garante della libertà, può emanare ed emana leggi che proteggano quell'uguaglianza dei diritti senza la quale i suoi membri non potrebbero godere delle proprie libertà. Tali diritti danno un senso e una realtà all'ugua glianza, mentre le libertà danno possibilità e forme alla libertà. Un modo sicuro per sopprimere le libertà di par lare, d'imparare, di guarire, di curare, è quello di delimi tarle trasformando i diritti civili in doveri civili. La terza illusione consiste appunto nel credere che la rivendicazione pubblica dei diritti porti senz'altro a salvaguardare le libertà. Di fatto, quanto più una società affida ai pro fessionisti l'autorità legale di definire i diritti, tanto più le libertà dei cittadini si dissolvono.

Il diritto alla disoccupazione utile

Attualmente ogni nuovo bisogno convalidato dalle professioni si traduce prima o poi in un diritto. Tale diritto, una volta che sotto la pressione politica trova riconosci mento nella legge, dà luogo a nuove occupazioni e nuovi prodotti. Ogni nuovo prodotto degrada un'attività con la quale la gente era stata fin allora capace di cavarsela da sola; ogni nuovo impiego rende illegittimo un lavoro sin lì svolto da non-occupati. Il potere delle professioni di stabilire che cosa sia bene, giusto e da fare distorce nell’uomo “comune” il desiderio, la voglia e la capacità di vivere secondo le proprie possibilità.

Quando tutti gli studenti attualmente iscritti nelle facoltà di giurisprudenza degli Stati Uniti si saranno laureati, il numero degli esperti di diritto statunitensi au menterà del 50 per cento circa. Al servizio nazionale di assistenza sanitaria si affiancherà un analogo servizio di assistenza legale, man mano che l'assicurazione contro i procedimenti giudiziari diventerà indispensabile quanto lo è ora quella contro le malattie. E una volta stabilito il diritto del cittadino a un avvocato, comporre un litigio all'osteria sarà considerato retrogrado e antisociale come lo è adesso partorire in casa. Già ora il diritto riconosciuto a ogni cittadino di Detroit di vivere in un appartamento dove l'impianto elettrico sia stato installato da professio nisti trasforma in trasgressore della legge chiunque si per metta di montare da sé una presa. La perdita progressiva di tutta una serie di libertà d'essere utili altrove che in un “posto di lavoro”, o al di fuori del controllo professionale, anche se non ha un nome è una delle esperienze più penose che s'accompagnano alla povertà modernizzata.

Il privilegio più significativo d'una condizione sociale ele vata potrebbe ormai identificarsi in qualche resto della libertà, sempre più negata alla maggioranza, di essere utili senza avere un impiego. A furia di insistervi, il diritto del cittadino a essere assistito e approvvigionato si è quasi tra mutato in diritto delle industrie e delle professioni a prendere la gente sotto la propria tutela, a rifornirla del loro prodotto e a eliminare, con le loro prestazioni, quelle condizioni ambientali che rendono utili le attività non inquadrabili in una “occupazione”. Si è così riusciti a paralizzare, per il momento, ogni lotta per un'equa distri buzione del tempo e della possibilità di essere utili a sé e agli altri al di fuori di un impiego o del servizio mili tare. Il lavoro che si svolge al di fuori del «posto» retri buito è malvisto quando non ignorato. L'attività autonoma minaccia il livello dell'occupazione, genera devianza e fal sa il PNL: è quindi improprio chiamarla “lavoro”. La voro non vuol più dire sforzo o fatica, ma è quell'arcano fattore che, congiungendosi col capitale investito in un impianto, lo rende produttivo. Non significa più la crea zione di un valore percepito come tale dal lavoratore, ma più che altro un impiego, cioè un rapporto sociale. Non avere un impiego significa passare il tempo in un triste ozio, e non essere liberi di fare cose utili a sé o al proprio vicino. La donna attiva che manda avanti la casa, alleva i propri figli ed eventualmente ha cura di quelli degli altri è distinta dalla donna che lavora, ancorché il prodotto di tale lavoro possa essere inutile o dannoso. L'attività, gli sforzi, le realizzazioni, i servizi che si esplicano al di fuori di un lavoro gerarchico e che non sono misurabili secondo standard professionali costituiscono una minaccia per una società ad alta intensità di merci: la creazione di valori d'uso sottratti a un calcolo preciso pone infatti un limite non soltanto al bisogno di ulteriori merci, ma anche ai posti di lavoro che producono tali merci e alle buste-paga occorrenti per acquistarle.

Ciò che conta in una società ad alta intensità di mer cato non è lo sforzo rivolto a produrre qualcosa che piac cia, o il piacere che deriva da tale sforzo, ma l'accoppia mento della forza lavoro col capitale. Ciò che conta non è il conseguimento della soddisfazione che procura l'agire, ma la collocazione nel rapporto sociale che presiede alla produzione, cioè l'impiego, il posto, la carica, l'ufficio. Nel Medioevo, quando non c'era salvezza al di fuori della Chiesa, riusciva arduo ai teologi spiegare come si rego lasse Iddio con i pagani di costumi manifestamente vir tuosi o santi; allo stesso modo nella società odierna nes suno sforzo è produttivo se non è fatto su ordine di un. capo, e gli economisti non riescono a dar conto della palese utilità della gente che non agisce sotto il controllo di un'azienda, di un'organizzazione di volontari o di un campo di lavoro. Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato, di retto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto. In una società industriale avanzata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile. L'infrastruttura della società è combinata in maniera tale che solo l'impiego dà accesso agli strumenti di produzione, e questo monopolio della produzione di merci sulla creazione di valori d'uso non fa che consolidarsi quando la gestione passa allo Stato. Solo. con un certificato di abilitazione puoi insegnare a un bambino; solo in una clinica puoi rimettere a posto una gamba rotta. Il lavoro domestico, l'artigianato, l'agri coltura di sussistenza, la tecnologia radicale, il mutuo in segnamento ecc. sono degradati ad attività per gli oziosi, per gli improduttivi, per i più. diseredati o per i più ricchi. La società che promuove un intensa dipendenza dalle merci tramuta così i suoi disoccupati in poveri o in assistiti. Nel 1945 per ogni americano mantenuto dalla previdenza sociale c'erano 35 lavoratori attivi; nel 1977, erano 3,2 i lavoratori occupati cui toccava mantenere uno di questi pensionati, dipendente a sua volta da una quantità di enti assistenziali che sarebbe stata inimmaginabile ai tempi di suo nonno.

Ormai il carattere di una società e della sua cultura dipenderà dalla condizione dei suoi non-occupati: saranno essi i cittadini produttivi più rappresentativi o saranno degli assistiti? Ancora una volta la scelta (la crisi) appare chiara: la società industriale avanzata può proseguire sulla scia del sogno integralista degli anni '60: sempre più si mile a una holding, può degenerare in un sistema di di stribuzione che assegna parsimoniosamente un volume di beni e di posti in costante diminuzione e che addestra i suoi membri a consumi più standardizzati e a lavori più inutili. E l'orientamento cui si ispirano le linee politiche della maggior parte dei governi, dalla Germania alla Cina, sia pure con una differenza di fondo nella gradazione:quanto più infatti il paese è ricco, tanto più sembra ur gente contingentare l'accesso agli impieghi e impedire l'atti vità utile dei non-occupati suscettibile di recare pregiudi zio all'occupazione. Ovviamente è altrettanto possibile il contrario: cioè una società moderna nella quale i lavoratori frustrati si organizzino per proteggere la libertà di essere utili senza partecipare alle attività che danno luogo alla produzione di merci. Ma, ancora una volta, questa alternativa sociale presuppone, da parte dell'uomo comune, una competenza nuova, razionale e cinica nei riguardi dell'imputazione professionale dei bisogni.

Nuove strategie delle professioni

Il potere delle professioni è oggi messo in indubbio pericolo dalla crescente evidenza della loro controproduttività. La gente incomincia ad accorgersi che la loro ege monia la spoglia del proprio diritto d'intervento nella cosa pubblica. Il potere simbolico degli esperti che, col defi nire i bisogni, isteriliscono le capacità personali, è oggi considerato più pericoloso della loro potenza tecnica, che si limita a provvedere ai bisogni ch'essi creano. Contem poraneamente, da più parti si sente invocare una legislazione che ci porti in una nuova era non più dominata dall'ethos professionale: si chiede che il sistema delle abilitazioni, oggi rilasciate dagli ordini professionali o dall’amministrazione, venga sostituito con una investitura ci vica elettiva, più che essere semplicemente ritoccato con l'inclusione di rappresentanti dei consumatori negli organi che concedono le abilitazioni; si chiede un ammorbidi mento delle prescrizioni vigenti nelle farmacie, nelle scuole e in altri pretenziosi supermercati; si chiede che vengano tutelate le libertà produttive; si chiede che sia riconosciuto il diritto di esercitare senza licenza; si chiedono strutture di servizio pubbliche che aiutino il cliente a valutare le prestazioni a pagamento dei professionisti privati. Di fron te a queste minacce le principali istituzioni professionali ricorrono, ciascuna a suo modo, a tre fondamentali stra tegie per arginare l'erosione della loro legittimità e del loro potere.

Il primo indirizzo strategico è rappresentato dal Club di Roma. La Fiat, la Ford, la Volkswagen pagano economisti, ecologi e sociologi perché stabiliscano da quali produzioni le industrie dovrebbero astenersi affinché il sistema industriale funzioni meglio e si rafforzi. Analogamente i medici del Club di Coo suggeriscono di rinunciare alla chirurgia, alle radiazioni e alla chemioterapia nella cura della maggior parte dei tumori, dato che di solito questi interventi non fanno che acuire e prolungare le sofferenze senza tuttavia accrescere la speranza di vita del malato. Avvocati e dentisti promettono di vigilare come non mai sulla competenza, sulla correttezza e sulle parcelle dei propri colleghi.

Una variante di questo indirizzo si osserva in certi sin goli professionisti o gruppi organizzati che, in America, contestano l'ordine degli avvocati, quello dei medici e talaltre potenze intermediarie del sistema. Costoro si. pro clamano radicali perché 1) danno ai consumatori consigli che contrastano con gli interessi della maggioranza dei colleghi, 2) istruiscono i profani sul modo di comportarsi nei consigli d'amministrazione degli ospedali, delle uni versità, degli enti di vigilanza, 3) hanno talvolta occasione di testimoniare, davanti a commissioni parlamentari, sull’inutilità di questa o quella misura proposta dalle pro fessioni e richiesta dal pubblico. Per esempio, in una pro vincia del Canada occidentale un (gruppo di medici ha presentato una relazione su una ventina di interventi sa nitari per i quali l'assemblea legislativa era orientata a stanziare maggiori fondi; si trattava di interventi costosi, e i medici hanno fatto rilevare che per di più erano anche assai dolorosi, che molti presentavano pericoli e che di nessuno di essi era provata l'efficacia. Nell'occasione l'as semblea non ha voluto seguire il parere di questi medici “illuminati”, col risultato che il loro insuccesso, provvi soriamente, avvalora la credenza nella necessità di una tutela professionale dalla hubris professionale.

Il fatto che una professione eserciti una vigilanza di polizia sui propri membri è senz'altro utile per smascherare l'incompetenza smaccata, il macellaio o il puro ciarlatano. Ma come è stato ampiamente dimostrato, la cosiddetta autodisciplina protegge gli inetti e cementa i vincoli di dipendenza del pubblico dalle loro prestazioni. Il medico “critico”, l'avvocato “radicale”, l'architetto dedito alla creazione di quartieri autogestiti, sono professionisti che attirano clienti soffiandoli ai colleghi meno attenti di loro all'andamento della moda. All'inizio le professioni liberali convinsero il pubblico della necessità delle loro prestazioni promettendo di aver cura della scolarizzazione, della formazione morale o dell'addestramento sul lavoro dei profani più poveri. In seguito, divenute dominanti, le professioni si sono arrogate il pieno diritto di guidare il pubblico, e di menomarlo ancora di più, organizzandosi in clubs che ostentano la più acuta consapevolezza dei vincoli ecologici, economici e sociali. Questo atteggiamento, se frena l'espansione del settore professionale, rafforza la soggezione del pubblico all'interno di esso. L'idea che i professionisti abbiano un diritto di servire il pubblico è dunque d'origine recentissima. La loro lotta per affermare e legittimare tale diritto corporativo è una delle minacce più pesanti che gravino sulla nostra società.

La seconda strategia mira a organizzare e coordinare l'insieme delle prestazioni professionali in una maniera, si afferma, più aderente alla natura poliedrica dei problemi umani. Questa tendenza cerca altresì di applicare nozioni mutuate dall'analisi dei sistemi e dalla ricerca operazio nale allo scopo di fornire soluzioni globali valide per in teri paesi. Che cosa ciò significhi nella pratica lo si è potuto vedere in Canada. Quattro anni fa il ministro ca nadese della sanità promosse una campagna diretta a con vincere l'opinione pubblica che un aumento della spesa per i medici non avrebbe assolutamente inciso sui tassi nazionali di malattia e di mortalità. Mise in rilievo che i decessi prematuri erano per la stragrande maggioranza dovuti a tre fattori: incidenti, soprattutto automobilistici; affezioni cardiache e cancro polmonare, che i medici no toriamente non sono in grado di guarire; e suicidi e omicidi, fenomeni che esulano dall'ambito medico. Il ministro auspicava perciò un ridimensionamento delle prestazioni mediche e la ricerca di nuovi metodi per affrontare il pro blema della salute. Il compito di proteggere, ristabilire o consolare coloro che sono resi infermi dalle deleterie con dizioni ambientali e di vita tipiche del Canada odierno venne allora assunto da tutta una serie di professioni vecchie e nuove. Gli architetti scoprirono la missione di migliorare la salute dei canadesi; la sorveglianza sui cani randagi risultò essere un problema interdipartimentale, che richiedeva nuovi specialisti. Una nuova articolata biocra zia sottopose ad ancor più intenso controllo gli organismi dei canadesi, con una sistematicità che la vecchia iatro crazia sarebbe stata incapace d'immaginare. Lo slogan “Meglio spender soldi per star bene che per pagare il medico quando si sta male” si può ormai riconoscere per quello che è: il richiamo di nuove meretrici che vogliono attirare su di sé il denaro dei clienti.

Di una dinamica dello stesso tipo offre un esempio la pratica della medicina negli Stati Uniti. Qui l'attuazione di un sistema coordinato per la cura della salute divora somme sempre più gigantesche senza peraltro dimostrarsi particolarmente efficace. Nel 1950 un lavoratore medio destinava annualmente all'assistenza sanitaria professionale meno di due settimane del proprio salario; nel 1976 il rapporto era salito aggirandosi tra le cinque e le sette set timane di retribuzione: quando si compra una nuova Ford si spende di più per l'igiene dei lavoratori che per il me tallo incorporato nell'auto. Tuttavia, malgrado tanti provvedimenti e tante spese, la speranza di vita della popola zione maschile adulta non è aumentata in misura apprez zabile nel corso degli ultimi cento anni. Essa è inferiore a quella di molti paesi poveri e negli ultimi venti anni non ha fatto che diminuire, lentamente ma costantemente.

Là dove il tasso di malattia è cambiato in meglio, il miglioramento è dovuto soprattutto all'adozione di un mo do di vivere più sano, specie sotto l'aspetto dell'alimen tazione. In piccola misura, anche le vaccinazioni e il ricorso automatico a rimedi semplici come gli antibiotici, i contraccettivi e gli aspiratori Carman hanno contribuito alla diminuzione di certi stati morbosi. Ma questi interventi non comportano la necessità di prestazioni profes sionali. Non è attaccandosi ancora di più alla professione medica che la gente può star meglio in salute, e tuttavia molti medici cosiddetti “radicali” invocano proprio una più estesa biocrazia. Non si rendono conto, evidentemente, che pretendere di “risolvere i problemi” della gente in maniera più “razionale” significa agire al suo posto, spogliarla della decisione, sia pure nell'intento di assicurare una presunta maggiore uguaglianza.

La terza strategia intesa a far sopravvivere le professioni dominanti è la più recente delle mode radicali. Mentre i profeti degli anni '60 sul limitare dell'Abbondanza vati cinavano un mirabile Sviluppo, questi fabbricanti di miti predicano l'autoassistenza del cliente professionalizzato.

Soltanto negli Stati Uniti, tra il 1965 e il 1976 sono usciti circa 2700 libri che insegnano come essere pazienti di se stessi in modo da aver bisogno del medico solo quando per lui ne valga la pena. Alcuni testi consigliano un vero e proprio corso di addestramento all'automedica zione e vorrebbero che solo chi avesse superato il relativo esame finale fosse autorizzato a comprare aspirina e a som ministrarla ai propri bambini. Altri testi propongono che i pazienti professionalizzati beneficino di tariffe preferenziali negli ospedali e di sconti sui premi d'assicurazione. Soltanto alle donne fornite di abilitazione a partorire in casa dovrebbe essere concesso di mettere al mondo i loro figli fuori d'un ospedale (anche perché, al caso, queste madri professioniste potrebbero rispondere esse stesse, di fronte alla legge, di eventuali incidenti dovuti a negligenza). Secondo una proposta “radicale” che mi è capitato di vedere, questa abilitazione al parto dovrebbe essere rilasciata da una commissione composta non da medici bensì da femministe.

Sotto l'insegna dell'autoassistenza c'è il sogno professionale di radicare in profondità qualunque gerarchia di bisogni. Chi attualmente lo promuove è la nuova tribù degli esperti in autoassistenza, che hanno preso il posto degli esperti in sviluppo degli anni '60. Il loro obiettivo è la professionalizzazione universale del cliente. Gli esperti americani dell'edilizia che lo scorso autunno hanno invaso Città del Messico sono un buon esempio di questa nuova crociata. Un paio d'anni fa un professore d'architettura di Boston venne a passare le vacanze in Messico, e un mio amico messicano lo portò a vedere la nuova città che, in poco più d'un decennio, è cresciuta dietro l'aeroporto della capitale. Questa comunità, che prima era un piccolo agglomerato di capanne, si è improvvisamente sviluppata fino a contare tre volte più abitanti di Cambridge del Massachusetts. Il mio amico, pure lui architetto, voleva mostrare al collega i mille esempi dell'ingegnosità contadina in fatto di disegni, strutture, e utilizzazione dei rifiuti, tutti esempi non contemplati nei manuali e quindi non derivati da essi. Naturalmente, alla vista di quelle brillanti invenzioni con cui dei dilettanti sono riusciti a far funzionare una borgata di due milioni di abitanti, il collega bostoniano scattò centinaia di rullini di pellicola. Le fotografie furono debitamente studiate a Cambridge; e l'anno non era ancora finito che già specialisti statunitensi appena sfornati dai corsi di architettura comunitaria si affaccendavano a insegnare alla gente di Ciudad Netzahual coyotl quali fossero i suoi problemi, i suoi bisogni e le relative soluzioni.

L'ethos post-professionale

L'opposto della carenza, del bisogno e della povertà defi niti col metro delle professioni è la sussistenza di tipo mo derno. Il termine “economia di sussistenza” è oggi gene ralmente usato per indicare una forma di sopravvivenza di gruppo che è marginale quanto alla dipendenza dal mercato, e nella quale la gente produce ciò che utilizza per mezzo di strumenti tradizionali e nel quadro di un'or ganizzazione sociale ereditata che spesso, tramandandosi, non subisce alcuna revisione. Io propongo di recuperare questo termine in un senso moderno, chiamando “sussi stenza moderna” il modo di vita predominante in un'economia post-industriale in cui la gente sia riuscita a ridur re la propria dipendenza dal mercato, e ci sia arrivata proteggendo - con mezzi politici - una infrastruttura dove le tecniche e gli strumenti servano in primo luogo a creare valori d'uso non quantificati né quantificabili dai fabbri canti professionali di bisogni. Ho sviluppato altrove (nel libro La convivialità) una teoria di questi strumenti, proponendo di chiamare “strumento conviviale” ogni attrezzatura orientata verso la produzione di valori d'uso. E ho anche mostrato come l'inverso della progressiva povertà modernizzata sia un'austerità conviviale risultante da una scelta politica che salvaguardi la libertà e l'equità nell'uso di tali strumenti.

Riattrezzare la società contemporanea con strumenti con viviali e non più industriali comporta uno spostamento d'accento nella nostra lotta per la giustizia sociale; comporta una subordinazione, in forme da trovare, della giustizia distributiva alla giustizia partecipativa. In una società in dustriale, gli individui sono educati alla massima specializzazione. Diventano impotenti a formulare o a soddisfare i propri bisogni. Dipendono, quanto ai beni di consumo, da gestori che firmano la prescrizione per loro. Il diritto alla diagnosi del bisogno, alla prescrizione della terapia e, in genere, alla distribuzione dei beni predomina nell’etica come nella politica e nella legislazione. Questo primato riconosciuto al diritto di vedersi attribuire delle necessità riduce a un fragile lusso la liberà di imparare, di guarire, di muoversi autonomamente. In una società con viviale avverrebbe il contrario. La tutela dell'equità nell’esercizio delle libertà personali sarebbe la preoccupazione dominante di una società fondata su una tecnologia radicale, dove la scienza e la tecnica fossero poste al servizio di una più efficace creazione di valore d'uso. Ovviamente una simile libertà non avrebbe alcun senso se non fosse basata su un uguale diritto di accesso alle materie prime, agli strumenti e ai servizi comuni. Come il cibo, il com bustibile, l'aria pura o lo spazio vitale, così gli attrezzi o i posti di lavoro non possono essere distribuiti equamente se non razionandoli senza riguardo per i bisogni attribuiti, cioè stabilendo un uguale limite massimo per giovani e vecchi, per l'handicappato come per il presidente. Una società improntata alla tutela di una uguale disponibilità di strumenti moderni ed efficaci per l'esercizio delle libertà produttive non può esistere se i beni e le risorse su cui poggia l'esercizio ditali libertà non sono ugualmente ripartite fra tutti.