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per Operatori del Benessere Immateriale
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Elogio della follìa
Erasmo da Rotterdam |
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46. E poi perché ne godono insieme con
moltissimi, e "non c'è bene di cui si possa godere davvero se non
si ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E
chi non sa quanto pochi sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'è? In
tanti secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi,
per Ercole, se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe
sapiente a metà, e forse neppure per un terzo. Perciò, se dei molti
meriti di Bacco giustamente si considera il più importante la capacità
di scacciare gli affanni, e anche questo solo finché, appena smaltita
la sbornia, gli affanni tornano all'assalto - come dicono, su bianchi
destrieri - quanto più completo ed efficace il mio beneficio per cui
l'animo, in una ebbrezza perenne, senza nessuna fatica, si riempie
di gioia, di piaceri, di esultanza! né lascio alcun mortale privo
del mio dono, mentre i doni degli altri Dèi vanno ora a questo ora
a quello. Non sgorga dappertutto,
a scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze. A pochi la bellezza,
dono di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono
di Mercurio; non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze,
né il Giove omerico concede a tutti l'imperio. Spesso Marte nega il
suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi lasciano il tripode
di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio di Saturno scaglia
spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi dardi diffonde la peste.
Nettuno ne uccide più di quanti ne salva; per non menzionare cotesti
Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono divinità
ma carnefici. Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente
in così generoso abbraccio. 47. Non voglio preghiere
e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare
del cerimoniale è stato trascurato. Se, quando tutti gli altri Dèi
sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi neanche di annusare
il buon odore delle vittime, non ne faccio una tragedia. Quanto agli
altri Dèi, invece, sono così suscettibili che quasi meglio sarebbe
- senza dubbio sarebbe più prudente - lasciarli perdere piuttosto
che venerarli. Come certi uomini, così difficili ed irritabili, che
è preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici. Nessuno, dicono, offre
sacrifici o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come
dicevo, un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che
mi ritrovo, ci passo sopra. D'altronde onori del genere esulano dai
miei desideri. perché mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una
focaccia, un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo
mi tributano un culto che persino dai teologi viene tenuto nel massimo
pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana perché riceve
sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo
della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi
hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole
di vita. Una forma di culto che non è frequente neppure fra i cristiani. Quanti sono, infatti,
coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari
a mezzogiorno, quando proprio non ce n'è bisogno! D'altra parte, quanto
pochi cercano d'imitarne la castità, la modestia, l'amore per il regno
dei cieli! Mentre è questo alla fine il vero culto, il più gradito
agli abitatori del cielo. Inoltre, perché mai dovrei desiderare un
tempio, quando l'universo è il mio tempio? e un gran bel tempio, se
non erro. né mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini.
né sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte
a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perché i più ottusi
adorano le immagini invece delle divinità, mentre a noi capita quello
che di solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti.
Io credo di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza
volere, mostrano nel volto la mia immagine vivente. Non ho nulla da
invidiare agli altri Dèi, se vengono venerati chi in un cantuccio
della terra chi in un altro, e solo in giorni determinati, come Febo
a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva ad Atene, Giove sull'Olimpo,
Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza
sosta vittime ben più pregiate. 48. Se qualcuno giudica
questo mio discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po' a
vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi
devono, e in che conto mi tengono, tanto i potenti come i poveri diavoli. Non esamineremo la
vita di uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo
quella di personaggi segnalati, da cui sarà facile giudicare gli altri.
Che importa infatti parlare del volgo e del popolino che, al di là
di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni? Tante, infatti,
sono le forme di follia di cui da ogni parte il popolo trabocca, tante
ne inventa di giorno in giorno, che per riderne non basterebbero mille
Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci vorrebbe
ancora un altro Democrito. E' quasi incredibile quanti motivi di riso,
di scherzo, di piacevole svago, i poveracci offrono agli Dèi. Agli
Dèi che dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi,
a litigiose discussioni e all'ascolto delle preghiere. Ma poi, quando
sono ebbri di nettare, e non hanno più voglia di attendere a faccende
serie, seduti nella parte più alta del cielo, si chinano a guardare
cosa fanno gli uomini. né c'è spettacolo che gustino di più. Dio immortale!
quello sì che è teatro! Che varietà nel tumultuoso agitarsi dei pazzi!
Io stessa, infatti, talvolta vado a sedermi nelle file degli Dèi dei
poeti. Questo si strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno è
riamato tanto più ama senza speranza. Quello sposa la dote e non la
donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora,
roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari
sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando
a pagare dei professionisti perché recitino la commedia del compianto!
C'è chi piange sulla tomba della matrigna, e chi spende tutto ciò
che può racimolare per impinguarsi il ventre, a rischio, magari, di
ridursi in breve a morire di fame. Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri
il sonno e l'ozio. C'è chi si prodiga con ogni cura per gli affari
degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei
debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un altro
pone all'apice della sua felicità morire povero pur di arricchire
l'erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre
tutti i mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle
onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra
piuttosto che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che
credono si possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando
a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in vista dello stesso
risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli
altri offrono agli Dèi che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo
divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono
intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti
che, pur trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi,
pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono
da più degli altri perché hanno le dita inanellate d'oro. né mancano
di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente
venerabili, senza dubbio perché una piccola parte degli illeciti profitti
vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti
della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d'incustodito,
tranquillamente se ne appropriano come l'avessero ricevuto in eredità.
C'è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già questo sogno,
per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi,
mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto
quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti.
Questo si fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche,
quello è contento di starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli
che intentano interminabili cause e che, portatori di opposti interessi,
fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato
che è in combutta con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare
il mondo, un altro propende per il grandioso. C'è chi, senza nessuna
ragione d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme,
a Roma, a San Giacomo di Compostella. Insomma, se, come
una volta Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli
uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame
di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi,
a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare,
nell'atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che
razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così
piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto,
un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e
ne distrugge migliaia e migliaia. 49. Sarei io stessa
un'autentica pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a
più non posso, se continuassi ad elencare tutte le forme di stolta
pazzia proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra i mortali
vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso
ramo d'oro. Fra loro al primo
posto stanno i grammatici, che sarebbero per certo la genìa più calamitosa,
più lugubre, più invisa agli Dèi, se non ci fossi io a mitigare, con
una dolce forma di follia, i guai di quella infelicissima professione.
Su di essi, infatti, non pesano solo le cinque maledizioni di cui
parla l'epigramma greco, ma tante, tante di più: sempre affamati,
sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole, e le ho chiamate scuole,
ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di
tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati
dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia,
per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini.
Sono così contenti di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa
atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a
quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi
incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di
Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume è la quintessenza del nitore,
quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavitù è pari
a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la loro tirannide
col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche più felici si sentono
per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre ficcano in
testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte
a chi, Palemone o Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorità?
E con non so quali trucchi riescono a meraviglia nell'intento di apparire
al re sciocche mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno
di sé. C'è poi un'altra fonte
di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome
della madre di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA,
BOVINATOR o MANTICULATOR, o quando, scavando da qualche parte, tira
fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione mutila.
O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! come
se avesse messo in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia! E che
diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro insulsissimi
versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono ormai
che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena più
divertente si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda
si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus,
e un altro più avveduto per caso se ne accorge, allora sì, per Ercole,
che ne viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di
ingiurie! Possano tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento. Ho conosciuto una
volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino,
di matematica, di filosofia, di medicina, e questo a livello superiore.
Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto, da oltre vent'anni
si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se
vivrà abbastanza da stabilire con certezza come vadano distinte le
otto parti del discorso; finora nessuno, né dei Greci né dei Latini,
ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno considera
congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi
tante grammatiche quanti grammatici, anzi di più se solo il mio amico
Aldo Manuzio ne ha pubblicate più di cinque, questo tale non tralascia
di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa
che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in
materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com'è
dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, rendendo vane così
annose fatiche. Preferite chiamarla follia o stoltezza? A me poco
importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio,
l'animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da
non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani. 50. Meno mi devono
i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera
schiatta come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno
di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle
risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità
e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto
sono legate Filautìa e Kolakìa, che da nessun'altra stirpe mortale
ricevono un culto altrettanto schietto e costante. Quanto ai retori,
benché prevarichino un poco con la complicità dei filosofi, fanno
parte anche loro della nostra confraternita. Molte cose lo dimostrano,
ma una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze, tanto hanno
scritto e con tanto impegno a proposito dell'arte di scherzare. E
l'autore, chiunque esso sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la
follia tra le varietà di facezie; Quintiliano poi, che in questo campo
è di gran lunga il migliore, ci ha dato sul riso un capitolo più lungo
dell'ILIADE. Tanto essi valorizzano la follia che spesso quando sono
a corto d'argomenti, cercano una scappatoia nel riso. A meno di negare
che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo
cose che appunto, fanno ridere. Nella stessa schiera
rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri.
Mi devono tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano
i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono
per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici né Persio né Lelio,
a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà, perché
senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti, tagli, sostituzioni.
Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per
nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo comprano un
premio da nulla quale è la lode, e lode di pochissimi, per di più:
la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno,
la più dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio. Aggiungi il danno
della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura
la cecità, la povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri,
la senescenza precoce, la morte prematura; e chi più ne ha, più ne
metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali sì gravi in cambio
del plauso di uno o due cisposi. Quanto più felice il delirio dello
scrittore mio seguace quando, senza starci punto a pensare, solo col
modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento,
traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa,
anche i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che
scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli
stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso
che le leggano? e che peso può avere il giudizio di così pochi sapienti,
se a contrastarlo c'è una folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti
si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti
altrui e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona
una gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano su questo,
che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo,
avranno tratto vantaggio dall'inganno. Vale la pena di vedere
come sono soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna
a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri
stanno in mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono
quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia.
Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno
a conoscerli, se si pensa a quant'è grande il mondo; e meno ancora,
poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno gusti diversi.
Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri
degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno
o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo
benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con
le lettere dell'alfabeto, secondo l'uso dei filosofi. Eppure più di tutto
diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare
con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi,
encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco;
chi è superiore a Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per
accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico,
incerto, non sa quale partito prendere", finché ne escono tutti vittoriosi
e lasciano il campo da trionfatori. I saggi ridono di
queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega?
Ma intanto, per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero
i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti,
del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia
altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; né possono negarlo,
se non sono proprio degl'ingrati. 51. Fra gli eruditi
il primo posto spetta ai giureconsulti, e nessuno più di loro è soddisfatto
di sé quando, impegnati in una fatica di Sisifo, formulano leggi a
migliaia, non importa a qual proposito, e aggiungendo glosse a glosse,
pareri a pareri, fanno in modo da presentare lo studio del diritto
come il più difficile fra tutti. Attribuiscono infatti titolo di nobiltà
a tutto ciò che costa fatica. Accanto ai giuristi
collochiamo i dialettici e i sofisti, una genìa più loquace dei bronzi
di Dodona: uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera
con venti donne di prima scelta. Meglio per loro sarebbe, se fossero
soltanto chiacchieroni, e non anche litigiosi al punto di polemizzare
con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare
spesso, nella foga della contesa, i diritti della verità. Pieni di
sé come sono, godono ugualmente quando, armati di tre sillogismi,
non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito.
Del resto la loro pertinacia li rende invincibili, anche se il loro
avversario è uno Stentore. 52. E poi ci sono
i filosofi, venerandi per barba e mantello: affermano di essere i
soli sapienti; tutti gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com'è
bello il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli; quando
misurano, quasi col pollice e il filo, il sole, la luna, le stelle,
le sfere; quando rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi
e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima esitazione,
come se fossero a parte dei segreti della natura artefice delle cose,
come se venissero a noi dal consiglio degli Dèi! La natura, intanto,
si fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi. A dimostrare
che nulla sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla
spiegazione di ogni singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla,
affermano di sapere tutto; non conoscendo se stessi e non accorgendosi,
a volte, della buca o del sasso che hanno sotto il naso, o perché
in molti casi ci vedono poco, o perché sono altrove con la testa,
sostengono di vedere idee, universali, forme separate, materie prime,
quiddità, ecceità, e cose tanto sottili da sfuggire, credo, persino
agli occhi di Linceo. Disprezzano in particolare il profano volgo,
quando confondono le idee agli ignoranti con triangoli, quadrati,
circoli, e figure geometriche siffatte, disposte le une sulle altre
a formare una specie di labirinto, e poi con lettere collocate quasi
in ordine di battaglia e variamente manovrate. né mancano, fra loro,
quelli che, consultando gli astri, predicono l'avvenire promettendo
miracoli che vanno al di là della magia; e, beati loro, trovano anche
chi ci crede. 53. Quanto ai teologi,
forse meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio
e di toccare quest'erba puzzolente, perché, altezzosi e litigiosi
come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere con centinaia di argomenti,
costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero
senz'altro di eresia, questo essendo il fulmine con cui di solito
atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure, ancorché siano
i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche
loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell'alta
opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la
loro dimora, e li induce a guardare dall'alto in basso con una sorta
di commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano
a terra, mentre loro, trincerati dietro un valido esercito di magistrali
definizioni, conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite,
a tal segno abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti
di Vulcano con distinzioni che recidono ogni nodo con una facilità
che neppure la bipenne di Tenedo possiede, inesauribili nel coniare
termini nuovi e parole rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani
misteri, i criteri che sono a base della creazione e dell'ordinamento
del mondo; per quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di
generazione in generazione; in che modo, in che misura e in quanto
tempo Cristo si è formato nel grembo della Vergine; come nell'Eucaristia
ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma queste sono cose
risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi
e illuminati - così li chiamano. Quando se le trovano di fronte si
esaltano: "Qual è l'istante
della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è sostenibile
la proposizione "Dio Padre odia il Figlio"? avrebbe potuto Dio assumere
figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? In caso
affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli,
essere messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse
consacrato mentre Cristo pendeva dalla croce? e poteva Cristo, in
quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? Infine, dopo la resurrezione,
potremo mangiare e bere?". Della fame e della sete, infatti, costoro
si preoccupano fino da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche
molto più sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalità,
le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, fatta
eccezione di un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre più
profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Aggiungi sentenze
così paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi,
sembrano al confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio,
che accomodare una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore
è delitto più grave che strangolare mille uomini; che dire una volta
tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più grave che lasciare
andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose
utili e belle. A rendere ancora più sottili queste sottilissime sottigliezze
ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ché usciresti prima
dai labirinti che non dalle oscure tortuosità di realisti, nominalisti,
tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte
le scuole, ma solo le principali. In tutte c'è tanta
erudizione, tanta astrusità, che, secondo me, persino gli Apostoli,
se si trovassero a dover discutere con questi teologi di nuovo genere,
avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo. Paolo poté dimostrare
la sua fede, ma quando dice che "la fede è sostanza di cose sperate,
e argomento delle non parventi", dà una definizione manchevole dal
punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente fece
professione di carità, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima
epistola ai Corinzi, un'analisi ed una definizione difettose in sede
dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano l'Eucaristia con
la dovuta pietà. Non credo però che, interrogati sul termine A QUO
e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull'ubiquità di
un medesimo corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo,
sulla croce e nel sacramento dell'Eucaristia; sull'istante in cui
avviene la transubstanziazione, dovuta com'è ad una formula composta
di più parole distinte, e quindi a una quantità discreta in divenire:
non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel definire, gli
Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti. Avevano conosciuto
la madre di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l'ineccepibile metodo
filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del
peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da
colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe
capito - certo non ne ha mai colto la sottigliezza - la questione
del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha
la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non
hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente
e finale del battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo carattere
delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito,
attenendosi unicamente al principio evangelico: "Dio è spirito, e
chi lo adora deve adorarlo in spirito e verità". Non pare tuttavia
sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso
modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone
sul muro, purché vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e
tre raggi nell'aureola che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere
queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno
trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns
Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non
fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano
alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata.
Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità
infusa e carità acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente,
cosa creata o increata. Detestano il peccato, ma possa io morire se
sono riusciti a definire cosa sia quello che diciamo peccato; per
questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. L'insegnamento
di Paolo può essere preso come punto di riferimento per giudicare
di tutti gli Apostoli; ebbene, io non potrei mai indurmi a credere
che egli avrebbe così spesso condannato le questioni, le discussioni,
le genealogie e quelle che chiamava logomachìe, se fosse stato un
esperto nell'argomentare. E sì che le dispute dei suoi tempi erano
senz'altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri
maestri che potrebbero dare punti a Crisippo. Anche se poi questi
maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto
una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano,
ma ne offrono un'accettabile interpretazione Quest'onore tributano
in parte all'antichità, in parte all'autorità degli Apostoli. Del
resto, sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia pretendere
la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva mai sentito
far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica in Crisostomo,
in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: "affermazione
respinta". Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i
filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con
la vita e coi miracoli più che con i sillogismi. D'altra parte nessuno
dei loro avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle
"questioni quodlibetali" di Scoto. Al giorno d'oggi, qual mai pagano,
qual mai eretico non si darebbe senz'altro per vinto di fronte a tante
capillari sottigliezze? Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non
capirci nulla, o tanto privo di ritegno da scoppiare in sconce risate;
o, infine, così esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad
armi pari: un mago di fronte a un mago, o un duello fra due avversari
armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere
e ritessere la tela di Penelope. Secondo me i cristiani darebbero
prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai
da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi
gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati,
gl'invitti albertisti, e con essi l'intera banda dei sofisti: assisterebbero,
credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista
prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai
loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato?
chi tanto avveduto da non restarne accecato? Ma voi credete che
i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve
ne è di più dotti, che tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole
futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio esecrando, e il massimo
dell'empietà, parlare con linguaggio così volgare di cose tanto misteriose,
oggetto d'adorazione più che di spiegazione; discuterne usando il
profano argomentare dei pagani; definirle con tanta presunzione, e
infangare la maestà della divina teologia con parole e concetti così
poveri e addirittura sordidi. Nel frattempo, però,
gli altri rimangono pieni di sé, addirittura si battono le mani, e
dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano
neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere
di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli
simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare da certa rovina
la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro sillogismi,
come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare
poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole
a piacere, ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera? Esigere
che le proprie conclusioni, già accettate da un certo numero di scolastici,
siano ritenute più importanti delle leggi di Solone e addirittura
da anteporre ai decreti dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide
a capello con le loro conclusioni esplicite e implicite, come fossero
i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse
l'oracolo, sentenziano: "Proposizione scandalosa"; "proposizione irriverente";
"questa odora di eresia"; "questa suona male". Per fare un cristiano
non basta più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né
san Girolamo, né sant'Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso,
il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri,
così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l'insegnamento di
questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi
riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: "vaso da notte,
tu puzzi" e "il vaso da notte puzza"; oppure: "bolle la pentola" e
"la pentola bolle"? Chi avrebbe liberato
la Chiesa da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto,
se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta
autorità? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno tutto ciò?
o quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se
per molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? o quando
fabbricano a capriccio nuove sfere celesti, creandone infine una più
grande di tutte, più bella, perché le anime beate abbiano agio di
passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal segno
la loro testa è infarcita di una miriade di sciocchezze del genere
che, secondo me, nemmeno quella di Giove era così gonfia quando, sul
punto di partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo
di scure. Perciò non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li
vedete con la testa così accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe. A volte, anch'io rido
del fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto
più si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile
solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d'ingegno quello
che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la
dignità delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica.
Mirabile maestà, invero, quella dei teologi, se a loro soli è lecito
costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune
questo privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi
agli Dèi quando vengono salutati con venerazione quasi religiosa,
e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell'appellativo qualcosa
di simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un'empietà
non scrivere "Magister noster" tutto in lettere maiuscole. Se poi
qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister", di colpo annullerebbe
la maestà del nome teologico. 54. Quasi altrettanto
felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e
monaci, usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false.
Per buona parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione;
e nessuno s'incontra in giro più di questi pretesi solitari. Non vedo
che cosa potrebbe esserci di più miserando di loro, se non ci fossi
io a soccorrerli in tanti modi. perché, pur essendo questa genìa a
tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale con
qualcuno di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia nell'illusione
di essere chissà che cosa. In primo luogo ritengono che il massimo
della pietà consista nell'essere tanto ignoranti da non sapere neppur
leggere. Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi,
di cui sono in grado di indicare a memoria il numero d'ordine senza
peraltro capirli, sono convinti d'accarezzare in modo dolcissimo le
orecchie degli Dèi. Neppure mancano quelli che vendono a caro prezzo
il loro sudiciume e l'andare in giro mendicando: dinanzi alle porte
chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c'è albergo, non
veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo danno
degli altri mendicanti. Cosi, queste carissime persone, dicono di
darci un'immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza,
rozzezza, impudenza. E cosa c'è di più
divertente del loro fare tutto secondo una regola, quasi in base a
un calcolo matematico che sarebbe delittuoso violare? Quanti nodi
deve avere il sandalo; di che colore deve essere il cordone; quale
il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e di quale larghezza
la cintura; di che tipo e di che capacità il cappuccio; quale la precisa
misura della chierica; quante ore vanno concesse al sonno? Eppure,
quanta diversità, chi non lo vede, in questa uguaglianza imposta a
corpi e temperamenti così vari! Tuttavia, per queste sciocchezzuole,
non solo si considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro
si disprezzano a vicenda e, pur professando la carità apostolica,
fanno un'autentica tragedia di una cintura diversa o di un colore
un po' più scuro. Ne potresti vedere di così rigidamente attaccati
alla regola da portare esclusivamente vesti di lana di Cilicia, e
biancheria di lino di Mileto; altri, al contrario, portano vesti di
lino e biancheria di lana. C'è chi, odiando toccare il danaro come
fosse veleno, non si astiene comunque né dal vino né dalle donne.
Infine, mirabile in tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto
a regola di vita, e questo, non nell'intento di guardare a Cristo,
ma per distinguersi tra di loro. Buona parte della
loro soddisfazione deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome
di Cordiglieri, distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri
godono del nome di Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi,
quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti,
altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco.
Gran parte di costoro, a tal punto dà peso alle proprie cerimonie
e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia
premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che Cristo, non
facendo alcun conto del resto, chiederà loro se hanno osservato il
suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà il pancione gonfio
di pesci d'ogni specie; un altro rovescerà al suo cospetto centinaia
di moggi di salmi. Un altro ancora farà il conto degli infiniti digiuni;
se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, è stato per quell'unico
pasto che si concedeva... dopo. Altri ancora mostrerà il mucchio delle
cerimonie a cui ha partecipato, tanto greve che a malapena potrebbero
trasportarlo sette navi da carico. Qualcuno si vanterà di avere oltrepassato
i sessant'anni senza toccare denaro, se non con le mani protette da
due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e grassa
che neanche un marinaio se ne gioverebbe. Chi ricorderà di avere fatto
per più di undici anni la vita dell'ostrica, sempre attaccato allo
stesso luogo; e chi si farà un merito della voce divenuta rauca per
l'ininterrotto cantare, o del rimbecillimento derivato dalla vita
solitaria; altri ancora della lingua resa torpida dal voto del silenzio.
Ma Cristo, interrompendo queste vanterie che altrimenti rischierebbero
di non finire più, "Di dove viene, dirà, questa nuova schiatta di
Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa non si
fa parola. Pure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma
di parabola, ho promesso l'eredità del padre mio non alle cocolle,
non alle giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carità. Non
conosco questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato
che vorrebbero sembrare anche più santi di me, occupino, se vogliono,
i cieli dei seguaci di Abraxas, o si facciano edificare un nuovo cielo
da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai miei precetti". Quando sentiranno
queste parole, e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che
faccia credete che si guarderanno a vicenda? Nel frattempo si beano
della loro speranza, e non senza mio merito. E poi, benché lontani
dalla vita pubblica, nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare,
perché attraverso la cosiddetta confessione conoscono senza eccezione
i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro, è peccato,
salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi di qualche racconto
più divertente; ma anche allora raccontano i fatti solo in via ipotetica,
senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi calabroni, predicando
al popolo, se ne vendicano a misura di carbone, e bollano il nemico
con allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi
non capisce proprio nulla. né la smettono di latrare, se prima non
gli hai gettato il boccone in bocca. Eppure, quale commediante,
quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando
nella predica s'esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro
assoluta ridicolaggine, s'attengono nel modo più spassoso alle norme
sull'arte del dire tramandate dai maestri? Dio immortale! come gesticolano!
E come cambiano voce! E come canterellano! Come si spenzolano verso
l'uditorio e come mutano espressione! come punteggiano tutto con urla!
Quest'arte oratoria viene trasmessa come un segreto da un fraticello
all'altro: sebbene non mi sia concesso di venirne a conoscenza, tenterò
comunque di procedere per congetture. Scimmiottando i poeti,
cominciano con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della
carità, prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono
trattare del mistero della Croce, prendono opportunamente gli auspici
da Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno,
si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro
discorso è la fede, premettono una lunga introduzione sulla quadratura
del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido, scusate,
volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare
il mistero della Trinità, volendo fare cosa che suonasse gradita all'orecchio
dei teologi, e mettere al tempo stesso in mostra la sua non comune
dottrina, si dette a battere una strada affatto nuova. Partì dalle
lettere dell'alfabeto, dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza
del nome col verbo e dell'aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia
dei più, anche se non mancava qualcuno che borbottava tra sé le parole
d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente arrivò
al punto di dimostrare che l'immagine di tutta la Trinità scaturisce
dai rudimenti grammaticali in modo tale che nessun matematico potrebbe
disegnarla con più evidenza nella polvere. E nel comporre questa orazione,
quel teologo principe per otto mesi interi aveva faticato tanto, che
anche oggi è più cieco di una talpa, senza dubbio per avere consumato
tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure
non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto il successo
con poca spesa. Ho ascoltato un altro
ottuagenario, un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns
Scoto redivivo. Dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con
mirabile sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire
era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. perché il fatto
che la sua declinazione abbia tre casi soli è segno manifesto della
divina Trinità. Il mistero ineffabile poi, sta nel fatto che il primo
caso, JESUS, termina in sé il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU,
in U: quelle tre lettere significano che è sommo, medio e ultimo.
Restava un mistero anche più ostico, da risolversi col calcolo matematico.
Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una lettera,
in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli
Ebrei è SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di
qui risulta manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai peccati.
Per l'originalità dell'esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi
in particolare, sì che per poco non toccò loro la sorte di Niobe;
mentre a me quasi successe come al Priapo di legno di fico che, con
suo grave danno, si trovò ad assistere ai riti notturni di Canidia
e di Sagana. E non a torto. Infatti, quando mai il greco Demostene,
o il latino Cicerone, sono andati ad escogitare un simile esordio?
Essi ritenevano difettoso un proemio che troppo si scostasse dal tema:
neanche i bifolchi, che hanno la natura per guida, esordiscono così.
Ma questi dotti ritengono che il loro preambolo - così lo chiamano
- raggiunga il massimo della potenza retorica quando proprio non ha
nulla a che fare col resto del discorso, tanto che chi ascolta meravigliato
finisce col dire tra sé: "ma dove si va a finire?". In terzo luogo
commentano, tirandone fuori un raccontino, qualche breve passo del
Vangelo, ma frettolosamente e quasi incidentalmente, mentre questo
solo era il punto da sviluppare. In quarto luogo, cambiando parte
in commedia, sollevano un problema teologale, che talvolta non sta
né in cielo né in terra. Anche questo ritengono conforme alle regole
dell'arte. Qui finalmente assumono piglio teologico, riempiendo gli
orecchi degli ascoltatori di famosi nomi di dottori solenni, dottori
sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori santi, dottori
irrefragabili. Allora sbandierano davanti ad una folla ignorante sillogismi,
maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni e altre sciocchezze
prive di mordente e decisamente scolastiche. Resta ormai il quinto
atto, in cui l'artista deve rivelarsi in tutta la sua bravura. A questo
punto tirano in ballo una qualche rozza e sciocca storiella, tolta,
penso, dallo SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA ROMANORUM, e ne offrono
un'interpretazione allegorica, tropologica, ed anagogica. Così portano
a compimento la loro Chimera, qualcosa che neppure Orazio riusciva
a immaginare quando scriveva: "aggiungete ad una testa d'uomo, ecc.". Da non so chi, hanno
poi sentito dire che l'inizio dell'orazione deve essere basso di tono.
Perciò cominciano con una voce così bassa che neanche loro la sentono,
come se il parlare servisse quando nessuno capisce. Hanno anche imparato
che, a volte, per suscitare emozioni, è opportuno erompere in un grido.
Perciò, a metà di un discorso concitato, all'improvviso si mettono
a strillare furiosamente, senza il minimo bisogno. Quegli scoppi di
voce che nulla giustifica ti farebbero giurare di trovarti davanti
a casi da trattare con l'elleboro. Inoltre, avendo appreso che il
discorso deve animarsi via via che procede, quando, bene o male, hanno
esaurito l'inizio delle singole parti, a un tratto adottano un tono
appassionato, anche se l'argomento è dei meno interessanti, e finiscono
col concludere dando l'impressione di essere esausti. Avendo infine imparato
che i retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre
qualche battuta scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con un
tale senso d'opportunità, da farti dire che sono come l'asino davanti
alla lira. Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare più solletico
che ferite. né riescono mai ad adulare meglio di quando fanno mostra
di non aver peli sulla lingua. Infine tutto il loro stile è tale da
farti giurare che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza,
restandone però molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto
da non lasciare dubbi: o i ciarlatani hanno imparato la retorica dagli
oratori, o gli oratori dai ciarlatani. Nondimeno, certo per
opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a
Demostene o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di
uditorio soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui
si curano di parlare in modo gradito, perché i mercanti, opportunamente
lisciati, sono inclini, di solito, ad elargire una piccola parte del
mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre ragioni,
sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perché è loro costume
attingerne conforto quando vogliono sfogare i propri malumori coniugali. Vi rendete conto,
suppongo, di quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando
tra i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla,
ridicole sciocchezze e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo
e Sant'Antonio. 55. Non mi par vero
di concludere, oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati
nel nascondere ciò che mi devono, quanto empi nell'ostentare una finta
pietà religiosa. E' giunto il tempo
di trattare un po', con tutta schiettezza, dei re e dei prìncipi di
corte, che, come si conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima
sincerità. Se, infatti, avessero solo una briciola di senno, che vi
sarebbe di più malinconico, o di meno desiderabile, della loro vita?
né riterrà che valga la pena d'impadronirsi del potere con lo spergiuro
o col parricidio, chiunque consideri l'entità del peso che grava sulle
spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il potere
supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi.
Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi
neanche di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve
assicurarsi dell'integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati.
Lui solo, agli occhi di tutti, può, a guisa di astro benefico, giovare
enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi senza macchia, oppure,
come letale cometa, trarle all'estrema rovina. I vizi degli altri
non sono altrettanto conosciuti e non si propagano tanto. Ma se il
principe, con la posizione che occupa, si scosta appena dalla retta
via, subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini.
Inoltre poiché la condizione del principe porta con sè parecchie cose
che di solito inducono a tralignare piaceri, libertà, adulazione,
lusso - tanto più attentamente egli deve stare in guardia, se non
vuole venir meno al proprio compito. Infine, per non parlare di insidie,
odi, e altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa quel vero Re
che quanto prima gli chiederà ragione anche della colpa più lieve,
e tanto più severamente quanto più prestigioso fu il suo imperio.
Se il principe riflettesse su queste cose e su moltissime altre del
genere - e ci rifletterebbe se avesse senno - non dormirebbe, credo,
sonni tranquilli, né riuscirebbe a gustare il cibo. Col mio aiuto, i prìncipi
lasciano, ora, tutti questi motivi d'affanno nelle mani degli Dèi,
e se la spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli,
perché una punta d'ansia non abbia mai a levarsi dal fondo del cuore.
Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un principe,
se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita
per trarne un utile magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano
nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro sostanze,
facendole confluire nel loro tesoro privato: ma trovando dei pretesti,
tanto da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore
iniquità. E per conquistare comunque le simpatie popolari aggiungono
qualche parola di adulazione. Dovete immaginare un uomo, come se ne
vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene,
tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con un'autentica
avversione per la cultura, la libertà e la verità, che non si cura
minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura
le proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una
collana d'oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virtù riunite;
mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al
suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche. Dategli
lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza dell'animo,
e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo
Stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti simbolici col suo
genere di vita, credo che finirebbe col provare solo vergogna della
sua pompa, e col temere che qualche critico salace non si prendesse
gioco di lui volgendo in beffa questo apparato scenico. |