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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine di Roger Caillois
Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A.


Mimicry.
Ogni gioco presuppone l’accettazione temporanea, se non di un’illusione (per quanto quest’ultima parola non significhi altro che entrata in gioco: in-lusio), almeno di un universo chiuso, convenzionale e, sotto determinati aspetti, fittizio. Il gioco può consistere non già nello sviluppare un’attività o nel subire un destino in un contesto immaginario, ma nel diventare noi stessi un personaggio illusorio e comportarci in conseguenza. Ci troviamo allora di fronte a tutta una serie di manifestazioni che hanno come caratteristica comune quella di basarsi sul fatto che il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un’altra. Ho scelto di designare queste manifestazioni con il termine di mimicry, parola inglese che indica il mimetismo, segnatamente degli insetti, per sottolineare la natura fondamentale ed elementare, quasi organica, dell’impulso che le suscita.

Il mondo degli insetti appare, di fronte al mondo umano, come la soluzione più lontana che la natura possa fornire. Questo mondo è l’opposto, sotto tutti i profili, di quello dell’uomo, ma non è meno elaborato, complesso e sorprendente. Mi pare quindi legittimo prendere qui in considerazione i fenomeni di mimetismo di cui gli insetti presentano gli esempi più inquietanti. Infatti, a un libero comportamento dell’uomo, versatile, arbitrario, imperfetto e soprattutto diretto a una qualche costruzione esteriore, corrisponde nell’animale, e più particolarmente nell’insetto, una modificazione organica, fissa, assoluta, che contrassegna la specie e che vediamo infinitamente ed esattamente riprodotta di generazione in generazione in miliardi di individui: ad esempio, le caste delle formiche e delle termiti rispetto alla lotta di classe o i disegni delle ali delle farfalle rispetto alla storia della pittura. Per poco che si ammetta questa ipotesi, sulla cui temerarietà non nutro alcuna illusione, l’inesplicabile mimetismo degli insetti fornisce immediatamente uno straordinario rincontro al gusto dell’uomo di mascherarsi, travestirsi, portare una maschera, sostenere una parte. Solo che, questa volta, la maschera, il travestimento, fa parte del corpo, invece d’essere un accessorio inventato e costruito. Ma, in tutti e due i casi, serve esattamente agli stessi fini: mutare l’apparenza del soggetto e incutere paura agli altri.18

Presso i vertebrati, la tendenza a imitare si manifesta innanzitutto in una sorta di contagio rigorosamente fisico, quasi irresistibile, analogo al contagio dello sbadiglio, della corsa, della claudicazione, del sorriso e, soprattutto, del movimento. Hudson ha creduto di poter affermare che, spontaneamente, un giovane animale “segue ogni oggetto che si allontana, fugge ogni oggetto che si avvicina”. Al punto che un agnello sobbalza e scappa se la madre si volta e gli muove incontro, senza riconoscerla, mentre segue l’uomo, il cane, il cavallo che vede allontanarsi. Contagio e imitazione non sono ancora simulacro, ma lo rendono possibile e fanno nascere l’idea, il gusto della mimica. Negli uccelli, questa tendenza porta alle parate nuziali, a cerimonie, sfoggi ed esibizioni a cui maschi e femmine, a seconda dei casi, si abbandonano con straordinaria applicazione ed evidente piacere. Quanto ai granchi Oxyrhyncha che si conficcano nel guscio tutte le alghe o i polipi che riescono a prendere, la loro inclinazione al mascheramento, qualunque ne sia la spiegazione, non lascia dubbi.

Mimica e travestimento sono dunque le molle complementari di questa categoria di giochi. Nel bambino, si tratta essenzialmente di imitare l’adulto. Di qui, il successo dei costumi e dei giocattoli che riproducono in miniatura gli arnesi, gli apparecchi, le armi e le macchine di cui si servono i grandi. La bambina gioca alla mamma, alla cuoca, alla lavandaia, alla stiratrice; il bambino finge d’essere un soldato, un moschettiere, un poliziotto, un pirata, un cow-boy, un marziano,19 ecc. Fa l’aeroplano allargando le braccia e imitando il brontolio del motore. Ma i comportamenti che rientrano nella mimicry trascendono i limiti dell’infanzia e investono ampiamente la vita adulta. E comprendono ugualmente ogni divertimento a cui ci si abbandoni mascherati o travestiti, divertimento che consiste nel fatto stesso di essere mascherati e nelle sue conseguenze. Infine, è evidente che la rappresentazione teatrale e l’interpretazione drammatica entrano a pieno diritto in questo gruppo.

Il piacere consiste nell’essere un altro o nel farsi passare per un altro. Ma, dal momento che si tratta di un gioco, la questione essenziale non è esattamente quella di ingannare lo spettatore. Il bambino che fa il treno può anche rifiutare il bacio del padre dicendogli che non si baciano le locomotive, ma in fondo non cerca di fargli credere d’essere una vera locomotiva. A Carnevale, la persona mascherata non vuole realmente far credere di essere un vero marchese, un vero torero, un vero pellerossa; cerca piuttosto di spaventare e di approfittare della generale atmosfera di libertà, essa stessa risultato del fatto che la maschera mette in ombra il personaggio sociale e libera la vera personalità del soggetto. Neppure l’attore cerca di far credere d’essere “sul serio” Lear o Carlo V. Sono solo la spia e il fuggiasco a mascherarsi per ingannare realmente; loro, infatti, non giocano.

Attività, immaginazione, interpretazione: la mimicry non può avere alcun rapporto con Valea, che impone al giocatore l’immobilità e il brivido dell’attesa, ma non è escluso che coincida per alcuni aspetti con l’agon. Non penso tanto alle gare per il miglior travestimento in cui la coincidenza è del tutto esteriore. C’è una complicità più sottile facilmente riscontrabile. Per coloro che non vi partecipano da protagonisti, ogni agon è uno spettacolo. Uno spettacolo, però, che per essere valido esclude il simulacro. Le grandi manifestazioni sportive diventano occasioni privilegiate di mimicry se appena ci si convince che, in esse, il simulacro è trasferito dai protagonisti agli spettatori: non sono gli atleti che mimano, bensì il pubblico. Già l’identificazione con il campione costituisce di per sé una mimicry affine a quella per cui il lettore si riconosce nell’eroe del romanzo, lo spettatore nel protagonista del film. Per convincersene, basta considerare la funzione perfettamente simmetrica del campione e della vedette, sulla quale avrò occasione di tornare in modo più esplicito. I campioni, trionfatori dell’agon, sono le vedette degli incontri sportivi. Le vedette, a loro volta, sono i vincitori di una competizione più diffusa la cui posta è il favore popolare. Sia gli uni che gli altri ricevono moltissima posta dagli ammiratori, rilasciano interviste a una stampa avida di notizie sensazionali, firmano autografi.

Di fatto, la corsa ciclistica, l’incontro di pugilato o di lotta, la partita di calcio, di tennis o di polo, costituiscono degli spettacoli in sé con i loro costumi, l’apertura solenne, la liturgia adeguata, lo svolgimento prestabilito. Sono, in una parola, dei drammi le cui alterne vicende tengono il pubblico con il fiato sospeso e che si concludono con un risultato che esalta gli uni e delude gli altri. La natura di questi spettacoli resta quella di un agon, ma i loro caratteri esteriori sono i caratteri tipici di una rappresentazione. Gli spettatori non si accontentano di incoraggiare con la voce e i gesti lo sforzo degli atleti preferiti o, all’ippodromo, quello dei cavalli su cui hanno puntato: una sorta di contagio fisico li porta a mimare l’atteggiamento degli uomini e delle bestie come per aiutarli, allo stesso modo in cui un giocatore di birilli piega impercettibilmente il corpo nella direzione che vorrebbe far prendere alla palla alla fine del suo percorso. In questo caso, oltre allo spettacolo, ha origine, nel pubblico, una competizione per mimicry che affianca l’agon vero e proprio del campo o della pista.

A eccezione di una, la mimicry presenta tutte le caratteristiche del gioco: libertà, convenzione, sospensione del reale, spazio e tempo delimitati. Non vi si trova, tuttavia, l’assoggettamento continuo a regole imperative e precise: lo sostituiscono, come abbiamo visto, la dissimulazione della realtà, la simulazione di un’altra realtà. La mimicry è invenzione continua. La regola del gioco è unica: consiste, per l’attore, nell’affascinare lo spettatore, evitando che un eventuale errore porti quest’ultimo a rifiutare l’illusione; e consiste, per lo spettatore, nel prestarsi all’illusione senza ricusare di primo acchito lo scenario, la maschera, l’artificio cui viene invitato a prestar fede, per un determinato periodo di tempo, come a un reale più reale del reale.

Ilinx. Un’ultima specie di giochi comprende quelli che si basano sulla ricerca della vertigine e consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e a far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. In tutti i casi, si tratta di accedere a una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione.

Il turbamento provocato dalla vertigine è comunemente ricercato per se stesso: mi limiterò a citare gli esercizi dei dervisci danzanti e quelli dei voladores messicani. Ho scelto questi due esempi di proposito, perché i primi si ricollegano, per la tecnica impiegata, ad alcuni giochi infantili, mentre i secondi evocano piuttosto certi raffinati aspetti dell’alta acrobazia. I dervisci cercano l’estasi girando su se stessi secondo un moto che va man mano accelerando scandito dal ritmo sempre più precipitoso dei tamburi. Il panico e l’ipnosi della coscienza sono raggiunti mediante il parossismo di una rotazione frenetica, contagiosa e partecipata.20 In Messico, i voladores — Huastechi o Totonachi — si issano sulla cima di un palo alto da venti a trenta metri. Con due finte ali attaccate ai polsi, assumono le sembianze di aquile. Si allacciano alla vita l’estremità di una corda che passa poi fra le dita dei piedi in modo che essi possano effettuare tutta la discesa con la testa in giù e le braccia aperte. Prima di arrivare a terra, compiono diversi giri completi, tredici secondo Torquemada, descrivendo una spirale che va man mano allargandosi. La cerimonia, che comprende diversi voli e inizia a mezzogiorno, viene spesso interpretata come una danza del sole calante, accompagnato nel suo tramonto da uccelli che simbolizzano altrettanti morti divinizzati. La frequenza degli incidenti ha indotto le autorità messicane a proibire questo rischioso esercizio.21

Non è del resto necessario appellarsi a degli esempi tanto peregrini e prestigiosi. Ogni bambino conosce altrettanto bene, girando vorticosamente su se stesso, il modo di accedere a uno stato centrifugo di dispersione e sbandamento in cui il corpo non ritrova che a fatica il suo equilibrio e la percezione la sua nettezza. Non c’è dubbio che il bambino faccia questo per gioco e vi provi piacere. Nel gioco della trottola, ad esempio, il bambino ruota su un tacco più velocemente che può. In modo analogo, nel gioco haitiano detto del mais d’or, due bambini si tengono per mano, uno di fronte all’altro, le braccia tese. Con il corpo irrigidito e piegato all’indietro, i piedi uniti, essi girano vorticosamente fino a restare senza fiato per il piacere di barcollare quando smettono. Gridare a squarciagola, precipitarsi a rotta di collo giù per una discesa, il toboga, la giostra, purché giri abbastanza in fretta, procurano sensazioni analoghe.

E le pratiche fisiche che le provocano sono svariate: l’acrobazia, la caduta o il lancio nello spazio, la rotazione vertiginosa, gli scivoloni, la velocità, l’accelerazione di un movimento rettilineo o la sua combinazione con un movimento rotatorio. Parallelamente, esiste una vertigine di ordine morale, un raptus che coglie all’improvviso l’individuo. Questa vertigine si accompagna spesso con il gusto normalmente represso del disordine e della distruzione che tradisce forme rozze e brutali di affermazione della personalità. Nei bambini, lo si riscontra particolarmente quando giocano a scaldamano,XII a vola l’asino,XIII alla cavallina XIV; tutti giochi che, all’improvviso, si fanno precipitosi e degenerano in vera e propria rissa. Negli adulti, niente è più rivelatore, in questo campo, della strana eccitazione che sempre li coglie nel falciare con una bacchetta gli steli più alti di un prato, nel far precipitare a valanga la neve da un tetto, o dell’ebbrezza che li coglie nei baracconi da fiera quando, per esempio, fracassano fragorosamente pile di stoviglie di scarto.

Per comprendere le numerose varietà di un simile impulso che è al tempo stesso uno smarrimento sia organico sia psichico, propongo il termine ilinx, nome greco di gorgo, da cui appunto deriva, nella stessa lingua, il nome della vertigine (ìlingos).

Neppure questo tipo di piacere è privilegio esclusivo dell’uomo. È il caso di citare in primo luogo il capostorno di alcuni mammiferi, in particolare degli erbivori. Anche se si tratta di una manifestazione patologica, è troppo significativa per essere sottaciuta. Non mancano del resto esempi in cui il carattere di gioco è indubbio. I cani roteano su se stessi per afferrarsi la coda finché non cadono. Altre volte, sono invasi da un’autentica frenesia della corsa che non li abbandona finché non si fermano stremati. Antilopi, gazzelle, cavalli selvaggi sono colti spesso da un panico che non corrisponde ad alcun pericolo reale, né alla minima avvisaglia di pericolo e che tradisce piuttosto l’effetto di un irresistibile contagio e di un’immediata condiscendenza a cedervi.22 I topi d’acqua si divertono a girare su se stessi, come se fossero trascinati dal risucchio della corrente. Il caso dei camosci è ancor più significativo. Secondo Karl Groos, essi si arrampicano sui nevai; di là, ciascuno di loro prende lo slancio e si lascia scivolare giù lungo un pendio scosceso mentre gli altri lo stanno a guardare.

Il gibbone sceglie un ramo flessibile, lo curva sotto il suo peso finché quello non si tende e lo proietta violentemente in aria. Si riprende come può e ricomincia all’infinito questo esercizio inutile e inesplicabile se non per l’intimo piacere che ne ricava. Ma sono soprattutto gli uccelli a prediligere i giochi di vertigine. Si lasciano cadere, come pietre, da grandissime altezze e aprono le ali solo a pochi metri da terra, dando l’impressione che stiano per sfracellarvisi. Quindi risalgono e si lasciano ricadere di nuovo. Nella stagione degli amori, utilizzano queste prodezze per sedurre la femmina. Il falco notturno d’America, descritto da Audubon, è un virtuoso di questa suggestiva acrobazia.23

Gli uomini, dopo la trottola, il mais d’or, gli scivoloni, la giostra e l’altalena dell’infanzia, dispongono essenzialmente degli effetti dell’ubriachezza e di un certo numero di danze, dal turbinare mondano, ma insidioso, del valzer, a tutta una serie di mosse frenetiche, vibranti, convulse. Essi traggono inoltre un piacere dello stesso tipo dall’ebbrezza provocata da un’estrema velocità, come si prova, ad esempio, sugli sci, in motocicletta o a bordo di una macchina scoperta. Per dare a questo tipo di sensazione l’intensità e la violenza capace di stordire gli adulti, si sono dovute inventare macchine potenti. Non c’è dunque da stupirsi se si è dovuta aspettare l’età industriale perché la vertigine diventasse realmente una categoria del gioco. Essa è ormai dispensata a una massa avida per mezzo di una quantità di meccanismi infernali, collocati nelle fiere e nei luna-park.

Questi marchingegni andrebbero evidentemente al di là del loro scopo, se si trattasse solo di sconvolgere gli organi dell’orecchio interno da cui dipende il senso dell’equilibrio. Ma in realtà è tutto il corpo ad essere soggetto a una serie di shock tali da convincere chiunque a starne alla larga, se non vedesse gli altri accalcarsi, bramosi di subirli. Val la pena, infatti, osservare la gente all’uscita di queste “attrazioni”. Ne escono esseri lividi per lo spavento, barcollanti, in preda alla nausea. Hanno cacciato urla di terrore, gli si è mozzato il fiato, hanno provato l’atroce sensazione che tutto, dentro di loro, fosse attanagliato dalla paura e perfino i loro organi interni si torcessero e si raggomitolassero come per difendersi da un terribile assalto. E tuttavia, ecco che la maggior parte di queste persone, prima ancora di essersi completamente riprese, già si affrettano al botteghino per acquistare il diritto di provare ancora una volta quello stesso supplizio da cui si aspettano un godimento.

Ed è proprio il caso di dire godimento, perché appare inadeguato chiamare distrazione un così parossistico trasporto, più vicino allo spasmo che al divertimento. È importante d’altra parte osservare che la violenza dello shock provato è tale che i proprietari di queste “attrazioni” si sforzano, nei casi estremi, di adescare gli ingenui annunciando, in modo astutamente menzognero, che “ancora per questa volta” il giro non costerà niente. In cambio, si fa pagare agli spettatori il privilegio di assistere, tranquillamente seduti su in galleria, ai tormenti delle vittime consenzienti o colte di sorpresa, esposte a forze terrificanti o a strane bizzarrie.

Sarebbe alquanto azzardato trarre conclusioni troppo nette circa questa strana e crudele ripartizione dei ruoli. Essa non è caratteristica di un solo tipo di giochi: la ritroviamo anche nella boxe, nel catch e nei combattimenti di gladiatori. L’essenziale, qui, risiede nella ricerca di quel preciso smarrimento, di quel panico momentaneo che viene definito con il termine di vertigine, e delle indubbie caratteristiche di gioco che vi sono associate: libertà di accettare o rifiutare la prova, limiti rigidi e fissi, separazione dal resto della realtà. Il fatto che la prova sia inoltre occasione di spettacolo non diminuisce, ma rafforza la sua natura di gioco.

Alla luce di questi accostamenti e di queste esclusioni semantiche, quali possono essere l’estensione e il significato del termine paidia? Per quanto mi riguarda, lo definirei come il vocabolo che abbraccia le manifestazioni spontanee dell’istinto di gioco: il gatto impigliato in un gomitolo di lana, il cane che si scrolla, il neonato che ride al sonaglio della sua culla, rappresentano i primi esempi identificabili di questo tipo di attività. Essa interviene in ogni manifestazione di gioiosa esuberanza espressa da un’agitazione immediata e caotica, da uno stato di svago e distensione libera e spontanea, spesso eccessiva, il cui carattere improvvisato e anarchico resta l’essenziale, se non l’unica ragion d’essere. Dalla capriola alla zuffa, dal tafferuglio alla baldoria, non mancano esempi perfettamente calzanti di simili voglie improvvise di movimento, di colore o di rumore.

Questo bisogno elementare di chiasso e di agitazione appare inizialmente come impulso a toccare tutto, ad afferrare, assaggiare, annusare, e poi lasciar cadere ogni oggetto accessibile. Diventa spesso piacere di fare a pezzi, gusto della distruzione. Spiega la soddisfazione nel ritagliare all’infinito pezzetti di carta con le forbici, sfilacciare della stoffa, far crollare una costruzione di pezzi, attraversare una fila, portare turbamento e disordine nel gioco o nell’occupazione degli altri, ecc. Ben presto sopraggiunge la voglia di mistificare o di sfidare, tirando fuori la lingua, facendo le boccacce, fingendo di toccare o gettare l’oggetto vietato. Si tratta, per il bambino, di affermarsi, di sentirsi causa, di costringere, gli altri a prestargli attenzione. A questo proposito, K. Groos riferisce il caso di una scimmia che si divertiva a tirare la coda di un cane che coabitava con lei, ogni volta che questo faceva finta di addormentarsi. La gioia primitiva di distruggere e rovesciare è stata particolarmente osservata, dalla sorella di C.J. Romanes, in una scimmia cappuccina, con una precisione di particolari delle più significative.24

B. DALLA TURBOLENZA ALLA REGOLA

Le regole sono inscindibili dal gioco non appena quest’ultimo acquisisce quella che chiamerò un’esistenza istituzionale. A partire da quel momento, esse entrano a far parte della sua natura e lo trasformano in strumento di cultura fecondo e decisivo. Resta comunque il fatto che all’origine del gioco c’è una libertà prima, originaria, che è esigenza di distensione e insieme distrazione e fantasia. Questa libertà è il motore indispensabile del gioco e rimane all’origine delle sue forme più complesse e più rigorosamente organizzate. Una simile potenza primaria d’improvvisazione e spensieratezza, che chiamo paidia, si incontra con il gusto della difficoltà gratuita, che propongo di chiamare ludus, per dare origine ai vari giochi cui si può attribuire senza esagerazione una funzione civilizzatrice. Essi illustrano, infatti, i valori morali e intellettuali di una cultura. E contribuiscono inoltre a puntualizzarli e svilupparli.

Ho scelto il termine di paidia perché ha la stessa radice della parola bambino e, secondariamente, per non sconcertare inutilmente il lettore ricorrendo a dei termini presi da una lingua troppo agli antipodi. Ma il sanscrito kredati e il cinese wan appaiono più ricchi e al tempo stesso più rivelatori, per la varietà e la natura dei loro significati annessi. È anche vero, però, che essi presentano gli inconvenienti di un’eccessiva ricchezza di significati e quindi un certo pericolo di confusione. Kredati designa il gioco degli adulti, dei bambini e degli animali. Si applica segnatamente al salto, alla capriola, vale a dire ai movimenti bruschi e bizzarri provocati da un eccesso di allegria o vitalità. Si usa anche per le relazioni erotiche illecite, per il moto delle onde e per tutto ciò che ondeggia al vento. Il termine wan è ancora più esplicito, tanto per ciò che designa che per ciò che scarta, vale a dire i giochi di abilità, di competizione, di simulacro e d’azzardo. In cambio, esso presenta innumeri sfumature di senso sulle quali avrò occasione di tornare.

Il bambino non si limita a questo. Prova piacere nel trastullarsi con il suo stesso dolore, tormentando ad esempio con la lingua un dente che gli fa male. Gli piace anche che gli si faccia paura. Egli ricerca dunque sia un male fisico, ma limitato, guidato, di cui egli stesso è causa, sia un’angoscia psichica, ma sollecitata da lui e che egli può far cessare a suo piacimento. In ambedue i casi, sono già riconoscibili gli aspetti fondamentali del gioco: attività volontaria, convenuta, separata e guidata. Nasce ben presto il gusto di inventare delle regole e adeguarvisi ostinatamente, a qualunque costo: il bambino fa allora con se stesso o con i compagni ogni sorta di scommesse, che sono, come abbiamo visto, le forme elementari dell’agon; cammina a piè zoppo, a ritroso, con gli occhi chiusi, gioca a chi guarderà il sole, sopporterà un dolore o resterà in una posizione faticosa più a lungo.

In generale, le prime manifestazioni della paidia non hanno nome né possono averlo proprio perché restano al di qua di ogni stabilità, di ogni connotazione distintiva, di ogni esistenza nettamente differenziata, che permetterebbe al vocabolario di legittimare la loro autonomia con una denominazione specifica. Ma non appena si profilino le convenzioni, le tecniche, gli strumenti, si sviluppano con essi i primi giochi caratterizzati: la cavallina, nascondino, l’aquilone, la trottola, gli scivoloni, mosca cieca, la bambola. Qui cominciano a biforcarsi le diramazioni contraddittorie dell’agon, dell’alea, della mimicry e dell’ilinx. Qui interviene parimenti il piacere che si prova nel superare una difficoltà creata di proposito, deliberatamente, e arbitrariamente definita, tale, insomma, che il fatto di venirne a capo non comporta altro vantaggio se non l’intimo compiacimento di averla risolta.

Questi stimolo, che è propriamente il ludus, è anch’esso presente nelle diverse categorie di giochi, tranne in quelli che si basano integralmente su una pura decisione della sorte. E appare come il complemento e l’educazione della paidia che esso disciplina e arricchisce. È inoltre occasione di allenamento e porta normalmente alla conquista di una determinata abilità, all’acquisizione di una particolare padronanza nel maneggiare determinati strumenti o nell’attitudine a trovare una risposta soddisfacente a problemi d’ordine strettamente convenzionale.

La differenza con L’agon sta nel fatto che, nel ludus, la tensione e l’ingegno del giocatore si esercitano al di fuori di ogni sentimento esplicito di emulazione o di rivalità: si lotta contro l’ostacolo e non contro uno o diversi concorrenti. Sul piano della destrezza manuale, si possono citare giochi come il bilboquetXV il diabolo, lo yo-yo. Questi strumenti semplici utilizzano spesso elementari leggi naturali; a esempio, la forza di gravità e la rotazione nel caso dello yo-yo, in cui si tratta di trasformare un movimento rettilineo alternativo in movimento circolare continuo. L’aquilone si basa invece sullo sfruttamento di una situazione atmosferica concreta. Con esso, il giocatore effettua a distanza una specie di auscultazione del cielo. Proietta la sua presenza al di là dei confini del proprio corpo. Allo stesso modo, il gioco della mosca cieca offre l’opportunità di mettere alla prova le risorse della percezione facendo a meno della vista.25 Si può facilmente intuire che le possibilità del ludus sono quasi infinite.

Giochi come il solitaireXVI o la baguenaudeXVII appartengono già, all’interno della stessa specie, a un altro gruppo: si richiamano costantemente allo spirito di calcolo e di combinazione. Infine, i cruciverba, i giochi matematici, gli anagrammi, i versi olorimi, i vari logogrifi,XVIII la lettura “attiva” di romanzi gialli (voglio dire cercando di identificare il colpevole)XIX, i problemi di scacchi o di bridge costituiscono, senza l’intervento di alcuno strumento, altrettante varietà della forma più pura e più diffusa del ludus.

Si può constatare in ogni caso una situazione di partenza suscettibile di ripetersi indefinitamente ma sulla base della quale possono prodursi combinazioni sempre nuove. Queste suscitano nel giocatore un’emulazione nei confronti di se stesso e gli permettono di verificare le tappe di un progresso del quale egli s’inorgoglisce e si compiace di fronte a coloro che condividono il suo gusto. Il rapporto del ludus con L’agon è evidente. Del resto, come nel caso dei problemi di scacchi o di bridge, può capitare che lo stesso gioco appaia sia come agon che come ludus.

La combinazione di ludus e di alea non è meno frequente: essa è particolarmente riconoscibile in quei solitari con le carte in cui l’ingegnosità delle mosse non influisce più che tanto sul risultato, e nelle macchinette mangiasoldi in cui il giocatore può, in misura minima, calcolare l’impulso dato alla biglia che segna i punti e dirigerne il percorso. Ciò non toglie che, in ambedue i casi, è essenzialmente il caso che decide. Tuttavia, il fatto che il giocatore non sia del tutto disarmato e sappia di poter contare, sia pure in misura minima, sulla sua abilità o sulla sua intelligenza basta a combinare la natura del ludus con quella dell’alea.26

Altrettanto spesso il ludus si fonde con la mimicry. Nel caso più semplice, abbiamo i giochi di costruzione che sono sempre giochi d’illusione, sia che si tratti di animali fatti con steli di saggina dai bambini Dogon, di gru o automobiline costruite unendo le lamine d’acciaio forate e le carrucole di qualche meccano, o di modellini di aerei o navi in miniatura che gli adulti non disdegnano di costruire meticolosamente. Ma è la rappresentazione teatrale che, fornendo la connessione essenziale, disciplina la mimicry fino a farne un’arte ricca di innumeri convenzioni diverse, di tecniche raffinate, di sottili e complesse risorse. In questa felice complicità, il gioco mostra in pieno la sua fecondità culturale.

Al contrario, allo stesso modo in cui non ci può essere alcuna fusione fra la paidia, che è tumulto ed esuberanza, e l’alea, che è attesa passiva della decisione del caso, brivido tacito e immoto, così non ce ne può essere fra il ludus, che è combinazione e calcolo, e l’ilinx, che è impeto puro. Il gusto di superare la difficoltà può intervenire in questo caso solo per combattere la vertigine e impedirle di diventare panico o smarrimento. Esso diventa allora scuola di dominio di sé, sforzo severo per conservare il sangue freddo o l’equilibrio. Lungi dall’unirsi all’ilinx, fornisce invece, come nell’alpinismo e nell’alta acrobazia, la disciplina adatta a neutralizzarne gli effetti funesti.

Considerato in se stesso, sembra quasi che il ludus sia qualcosa di incompleto, sorta di ripiego destinato a ingannare la noia. Molti vi si adattano solo in attesa di meglio, fino all’arrivo di qualche partner che permetta loro di cambiare questo piacere senza eco, isolato, con un gioco realmente disputato. Tuttavia, anche nel caso di giochi di destrezza o di combinazione (solitari, puzzle, cruciverba, ecc.) che escludono l’intervento di altri o lo rendono indesiderabile, il ludus non manca di tener viva nel giocatore la speranza di riuscire, un’altra volta, là dove ha appena sbagliato oppure di totalizzare un punteggio più elevato di quello che ha conseguito. In questo modo, ecco manifestarsi di nuovo l’influenza dell’agon. Essa ravviva l’atmosfera generale con il piacere che si prova nel superare una difficoltà sia pure arbitraria. Infatti, se è vero che ognuno di questi giochi viene praticato da una persona sola e non dà luogo, in linea di principio, ad alcuna competizione, è tuttavia facile trasformarlo in qualunque momento in un concorso, a premi o non, che eventualmente i giornali non mancheranno di organizzare. E non è neppure un caso se le macchinette mangiasoldi si trovano nei caffè, vale a dire in luoghi in cui l’utente può raggruppare intorno a sé un embrione di pubblico.

C’è d’altronde una caratteristica del ludus (che a mio parere si spiega con la latente compresenza dell’agon) che lo contraddistingue costantemente, ed è il fatto che esso segue eminentemente i capricci della moda.XX Lo yo-yo, il bilboquet, il diabolo, la baguenaude sono apparsi e scomparsi come per magia. Sono stati oggetto di un’infatuazione che non ha lasciato traccia e che un’altra è venuta ben presto a sostituire. Pur essendo più stabile, la moda dei divertimenti di natura intellettuale non è per questo meno circoscritta nel tempo: il rebus, l’anagramma, l’acrostico, la sciarada hanno avuto il loro momento di fortuna. È probabile che il cruciverba e il romanzo giallo siano destinati a subire la stessa sorte. Un fenomeno di questo tipo resterebbe incomprensibile se il ludus costituisse una distrazione tanto individuale quanto sembra. In realtà, esso è intimamente pervaso da un’atmosfera di competizione. È valido solo nella misura in cui il fervore di qualche appassionato cultore lo trasforma in un possibile agon. Quando questo fervore fa difetto, il ludus, di per sé, non riesce a sussistere. Esso è infatti insufficientemente alimentato dallo spirito di competizione organizzata, che pure non gli è essenziale; e non offre materia ad alcuno spettacolo capace di attirare le folle. Resta qualcosa di incerto e diffuso o rischia di degenerare nell’idea fìssa per il maniaco isolato che vi si consacri in modo assoluto e che, per meglio dedicarvisi, trascuri sempre più i suoi rapporti con il prossimo.

La civiltà industriale ha dato origine a una forma particolare di ludus: l’hobby, attività secondaria, gratuita, intrapresa e continuata unicamente per piacere: collezionismo, arti varie coltivate per diletto, bricolage XXI o piccole invenzioni, ogni occupazione, insomma, che appaia in primo luogo come una compensazione alla mutilazione della personalità causata dal lavoro alla catena di montaggio, automatico e parcellizzato. Si è appurato che l’hobby consiste spesso, da parte dell’operaio, ridiventato in questo caso artigiano, nella costruzione di modellini ridotti, ma completi, delle macchine alla fabbricazione delle quali è condannato a cooperare unicamente attraverso uno stesso gesto, ripetuto all’infinito, che non richiede da parte sua né abilità né intelligenza. La rivincita sulla realtà è in questo caso evidente: essa è del resto positiva e feconda e risponde a una delle più alte funzioni dell’istinto del gioco. Non è affatto strano che la civiltà industriale contribuisca a svilupparla, sia pure a titolo di compenso nei confronti dei suoi aspetti più sgradevoli. L’hobby è a immagine e somiglianza delle rare qualità che ne rendono possibile lo sviluppo.

In un senso generale, il ludus propone al desiderio primitivo di giocare e divertirsi degli ostacoli arbitrari continuamente rinnovati; inventa mille occasioni e mille strutture in cui trovano appagamento sia il desiderio di distensione che il bisogno, di cui l’uomo non sembra potersi liberare, di utilizzare in pura perdita il sapere, l’applicazione, l’abilità, l’intelligenza di cui dispone, senza contare il dominio di sé, la capacità di resistenza al dolore, alla stanchezza, al panico o all’ebbrezza.

Sotto questo profilo, ciò che chiamo ludus rappresenta, all’interno del gioco, l’elemento la cui portata e fecondità culturale appaiono più sorprendenti. Esso non esprime un atteggiamento psicologico così netto come l’agon, l’alea, la mimicry o l’ilinx ma, disciplinando la paidia, contribuisce indistintamente a dare alle categorie fondamentali del gioco la loro purezza e il loro massimo grado di validità.

Il ludus non è del resto l’unica metamorfosi concepibile della paidia. Una civiltà come quella dell’antica Cina inventò per essa un diverso destino. Ispirata alla saggezza e alla cautela, la cultura cinese è poco portata all’innovazione per partito preso. L’esigenza di progresso e lo spirito d’intraprendenza le appaiono spesso come una sorta di prurito privo di fecondità decisiva. Con queste premesse, essa orienta ovviamente la turbolenza e il sovrappiù di energia della paidia in una direzione più consona ai suoi valori supremi. A questo punto, è il caso di ritornare al termine wan. Secondo alcuni, esso designerebbe etimologicamente l’azione di accarezzare indefinitamente un pezzetto di giada per lucidarlo, per avere la sensazione della sua levigatezza o per accompagnare un sogno a occhi aperti. Ed è forse a causa di questa sua origine etimologica che esso mette in luce un altro destino della paidia. La riserva di agitazione libera che la definisce inizialmente sembra in questo caso incanalata non già verso la valentia, il calcolo, la difficoltà superata, ma verso la calma, la pazienza, il puro fantasticare. Il termine wan, infatti, indica essenzialmente tutti i tipi di occupazioni semi-meccaniche che lasciano lo spirito distratto e libero, alcuni giochi complessi che lo avvicinano al ludus, e, al tempo stesso, la meditazione indolente, la contemplazione apatica.

Il chiasso e il tumulto sono designati con l’espressione jeou-nao, letteralmente “ardente-disordine”. Composto con questo stesso termine nao, la parola wan evoca ogni tipo di comportamento esuberante e gaio. Unita a tchouang (fingere), significa “divertirsi a far finta di...”. Si vede chiaramente che il termine wan coincide quasi perfettamente con le diverse manifestazioni possibili della paidia, senza che, usato da solo, possa designare un genere particolare di giochi. Non è utilizzato né per la competizione, né per i dadi, né per l’interpretazione drammatica. Tanto vale dire che esso esclude le diverse categorie dei giochi che ho chiamato istituzionali.

Questi sono indicati da termini più specifici. La parola hsi corrisponde ai giochi di travestimento o di rappresentazione e copre l’intero ambito del teatro e delle arti dello spettacolo. La parola choua rimanda ai giochi di abilità e destrezza, ma si usa anche per alcune gare ludiche, scherzi e freddure, per la scherma, per gli esercizi di perfezionamento in un’arte difficile. La parola teou indica la lotta propriamente detta: il combattimento di galli, il duello. Tuttavia, la si usa anche per i giochi di carte. Infine, la parola tou, che in nessun caso può riferirsi a un gioco di bambino, designa i giochi d’azzardo, i rischi, le scommesse, le ordalie. E serve anche a indicare il blasfemo, perché tentare la sorte è considerato una scommessa sacrilega nei confronti del destino.27

L’ampio ventaglio semantico del termine wan appare quindi del più grande interesse. Include prima di tutto il gioco infantile e tutti i vari tipi di divertimento frivolo e spensierato che possono essere ad esempio evocati dai verbi folleggiare, divertirsi pazzamente, scherzare, ecc. È usato per le pratiche sessuali ardite, anormali o stravaganti. Contemporaneamente, è impiegato per i giochi che richiedono riflessione e che escludono la fretta, come gli scacchi, la dama cinese,XXII il puzzle (Tai Kiao) XXIII e il gioco XXIV dei nove anelli.28 Comprende anche il piacere di assaporare una vivanda o il bouquet di un vino, il gusto di collezionare opere d’arte, o anche quello di esaminare, di maneggiare con voluttà e perfino di costruire piccoli oggetti, gingilli, il che lo avvicina alla categoria occidentale dell’hobby, vale a dire al collezionismo o al bricolage. Ed evoca infine la serena e placante dolcezza del chiaro di luna, il piacere di una gita in barca sulle limpide acque di un lago, l’assorta contemplazione di una cascata.29

L’esempio della parola watt basta da solo a dimostrare che il destino delle culture si legge anche nei giochi. Dare la preferenza all’agon, all’alea, alla mimicry o all’ilinx contribuisce a decidere l’avvenire di una civiltà. Allo stesso modo, incanalare la riserva di energia disponibile rappresentata dalla paidia verso l’invenzione o verso la fantasticheria, esprime una scelta, senza dubbio implicita, ma fondamentale e di indiscutibile portata.

3. VOCAZIONE SOCIALE DEI GIOCHI

Il gioco non è soltanto distrazione individuale. Anzi, forse lo è meno di quanto non si pensi. Certo, esistono molti giochi, specialmente di bravura, in cui il giocatore manifesta un’abilità del tutto personale e in cui appare logico giocare da soli.XXV Ma i giochi di abilità assumono presto la caratteristica di giochi di competizione nell’abilità. Se ne può fornire una prova evidente. Per quanto individuale sia l’aggeggio con cui si gioca: aquilone, trottola, yo-yo, diabolo o cerchio, ci si stancherebbe presto di un passatempo simile se non ci fossero né concorrenti né spettatori, per lo meno virtuali. In questo tipo di esercizi affiora pur sempre un elemento di rivalità, e ognuno cerca di far colpo sui rivali, sia pure invisibili o assenti, compiendo virtuosismi inediti, aumentando il grado di difficoltà, stabilendo momentanei record di durata, di velocità, di precisione, di altezza, traendo motivo di gloria, anche solo in cuor proprio, da una qualche performance di difficile conseguimento.
In linea di massima, il possessore di una trottola non si diverte affatto in mezzo a dei patiti del bilboquet, né l’amatore dell’aquilone in un gruppo impegnato a giocare al cerchio. I proprietari degli stessi giocattoli si riuniscono in un luogo consacrato dall’abitudine o semplicemente comodo: là, essi si misurano, esibiscono la loro abilità. Questo fatto costituisce spesso la parte essenziale del divertimento.

La tendenza alla competizione non resta a lungo implicita e spontanea. Essa porta all’istituzione di un regolamento che viene adottato di comune accordo. In Svizzera, a esempio, hanno luogo gare di aquiloni che si svolgono con tutte le regole. L’aquilone che vola più alto è proclamato vincitore. In Oriente, la competizione assume l’aspetto di un particolare torneo: la corda dell’aquilone, a una certa distanza dalla velatura, viene spalmata di pece su cui sono conficcati pezzetti di vetro dalle punte taglienti. Si tratta di tranciare, intersecandola con mosse virtuosistiche, la corda degli altri aquiloni: competizione più che mai accentuata, nata da un divertimento che, in linea di principio, non pareva affatto competitivo. Un altro esempio eloquente del passaggio da uno svago individuale a un piacere competitivo e perfino spettacolare è fornito dal bilboquet. Quello degli Eschimesi rappresenta, molto schematicamente, un animale: orso o pesce in cui sono praticati numerosi fori. Il giocatore deve infilarli tutti secondo un ordine stabilito, con lo stiletto tenuto in mano. Poi, ricomincia tutto da capo con lo stiletto tenuto nell’indice ripiegato, quindi con lo stiletto che fuoriesce dalla piega del gomito, e infine con lo stiletto stretto fra i denti, mentre il corpo dello strumento descrive figure sempre più complicate. Ogni colpo mancato obbliga il giocatore sfortunato a passare la mano a un rivale. Costui si accinge alla stessa progressione, cerca di ricuperare il ritardo o di conquistare un certo vantaggio. E mentre lancia e riprende il pupazzo, il giocatore mima un’avventura o descrive punto per punto un’azione. Racconta un viaggio, una caccia, un combattimento, enumera le diverse fasi dello smembramento della preda, operazione che è generalmente monopolio delle donne. A ogni nuovo buco, annuncia, trionfante:

Essa riprende il coltello
Squarcia la foca
Toglie la pelle
Toglie gli intestini
Apre il petto
Toglie le viscere
Toglie le costole
Toglie la colonna vertebrale
Toglie il bacino
Toglie le membra posteriori
Toglie la testa
Toglie il grasso
Piega la pelle in due
La immerge nell’urina
La fa asciugare al sole, ecc.

A volte, il giocatore se la prende con il rivale e si accinge, con la fantasia, a farlo a pezzi:

Ti picchio
Ti uccido
Ti taglio la testa
Ti taglio il braccio
E poi l’altro
Ti taglio la gamba
E poi l’altra
I pezzi ai cani
I cani mangiano...

E non solo i cani, ma anche le volpi, i corvi, i granchi, tutto quello che viene in mente. L’altro, prima di riprendere la contesa, dovrà rimettere insieme il suo corpo nell’ordine inverso. Questo incalzare, questo inseguimento ideale viene puntualizzato dai clamori del pubblico, che segue con passione le fasi del duello.

A questo livello, il gioco di bravura diventa ovviamente fenomeno culturale: veicolo di comunione e di collettiva allegria nel freddo e nella lunga oscurità della notte artica. Questo caso estremo non costituisce un’eccezione. Ma ha il vantaggio di suggerire a che punto il gioco più individuale per natura o destinazione si presti naturalmente a ogni specie di sviluppo e arricchimento che, all’occorrenza, ne fanno quasi una sorta di istituzione. Si direbbe che al gioco manchi qualcosa, quando è ridotto a semplice esercizio individuale.

Generalmente, i giochi trovano la pienezza del loro significato solo nel momento in cui suscitano una rispondenza complice. Anche quando, in linea di principio, i giocatori potrebbero tranquillamente dedicarvisi in disparte, ciascuno per conto proprio, i giochi diventano ben presto pretesti di gare o spettacolo, come abbiamo osservato prima per l’aquilone o il bilboquet. La maggior parte di essi, infatti, appare come domanda e risposta, sfida e accettazione della stessa, provocazione e contagio, effervescenza o tensione condivisa. Richiedono presenze attente e simpatetiche. È probabile che nessuna categoria di giochi sfugga a questa legge. Perfino i giochi d’azzardo sembrano avere maggiore attrattiva in mezzo alla folla, se non addirittura alla ressa. Niente impedirebbe ai giocatori di trasmettere le loro scommesse per telefono o di fare le loro puntate confortevolmente seduti in un pacifico salotto, in casa di uno di loro. Ma no, essi preferiscono trovarsi sul posto, spintonati e premuti dalla folla che
si accalca all’ippodromo o al Casinò, tanto il loro piacere e la loro eccitazione vengono intensificati dal brivido fraterno di una massa di sconosciuti.

Allo stesso modo, è spiacevole trovarsi soli in un teatro, e perfino in una sala di proiezione, nonostante l’assenza di attori direttamente esposti a sperimentare quel vuoto. È chiaro, d’altronde, che ci si traveste e ci si maschera per gli altri. I giochi di vertigine, infine, si trovano anch’essi nella stessa condizione: altalena, giostra, toboga, richiedono da parte loro un fervore, una febbre collettiva, che sostengano e incoraggino l’ebbrezza che procurano.

Dunque, le varie categorie di gioco, l’agon (per definizione), l’alea, la mimicry, l’ilinx presuppongono non la solitudine, ma la compagnia. Tuttavia, si tratta per lo più di una cerchia necessariamente ristretta. Poiché si deve giocare uno alla volta e condurre il gioco come lo si intende personalmente e al tempo stesso come stabiliscono le regole, il numero dei giocatori, qualora tutti intervengano attivamente, non può moltiplicarsi all’infinito. Una partita non ammette che un numero limitato di partner, associati o no. Il gioco appare dunque spesso come un’occupazione di piccoli gruppi di iniziati o aficionados che si dedicano, in disparte e per pochi istanti, al loro divertimento preferito. Eppure, già la massa degli spettatori favorisce la mimicry, proprio come la turbolenza collettiva stimola l’ilinx e a sua volta se ne nutre.

In determinate circostanze, anche quei giochi che, per loro natura, parevano destinati a essere giocati fra poche persone, vanno oltre questo plafond e assumono forme che, pur appartenendo indubbiamente ancora all’ambito del gioco, richiedono però un’organizzazione molto articolata, un apparato complesso, un personale specializzato e gerarchizzato. Danno origine, insomma, a strutture permanenti e sofisticate che ne fanno delle istituzioni a carattere ufficioso, privato, marginale, a volte clandestino, ma il cui statuto appare notevolmente stabile e duraturo.

Ognuna delle categorie fondamentali del gioco presenta così degli aspetti socializzati che, con la loro ampiezza e stabilità, hanno acquisito diritto di cittadinanza nella vita collettiva. Per l’agon, questa forma socializzata è essenzialmente lo sport, cui si aggiungono certe manifestazioni ibride che insidiosamente confondono fortuna e merito, come a esempio i giochi radiofonici e i concorsi che rientrano nel campo della pubblicità commerciale; per l’alea, sono i Casinò, le corse, le lotterie di Stato e tutti quei giochi gestiti da potenti società che fanno da totalizzatore; per la mimicry, le arti dello spettacolo, dal teatro d’opera alle marionette e al Guignol e, con una sfumatura un po’ più torbida, già orientata verso la vertigine, il Carnevale e il ballo mascherato; per l’ilinx, infine, il luna-park e quegli appuntamenti annuali, ciclici, di feste e sagre popolari.

Un intero capitolo dello studio dei giochi deve prendere in esame quelle manifestazioni attraverso le quali i giochi entrano direttamente a far parte delle abitudini quotidiane. Queste manifestazioni contribuiscono infatti a fornire alle diverse culture alcuni dei loro usi e delle loro istituzioni più facilmente identificabili.

4. DEGENERAZIONE DEI GIOCHI

Quando si è trattato di enumerare i caratteri che definiscono il gioco, questo è apparso come un’attività: 1° libera; 2° separata; 3° incerta; 4° improduttiva; 5° regolata; 6° fittizia; fermo restando che gli ultimi due caratteri tendono ad escludersi l’un l’altro.

Queste sei qualità, puramente formali, ci dicono ben poco sui vari atteggiamenti psicologici che stanno a monte del gioco. Contrapponendo alquanto vivamente il mondo del gioco al mondo della realtà, mettendo in risalto il fatto che il gioco è essenzialmente un’attività a parte, esse lasciano prevedere che ogni contaminazione con la vita normale rischia di corrompere e guastare la sua stessa natura.

Pertanto, può essere interessante chiedersi che cosa diventino i giochi quando la rigida barriera che separa le loro regole ideali dalle leggi confuse e insidiose dell’esistenza quotidiana perda la necessaria nettezza. Certo, essi non possono esorbitare così come sono dal terreno (scacchiera, recinto, pista, stadio, palcoscenico) che è loro riservato o dai tempi che sono loro impartiti e la cui fine significa in modo inequivocabile la chiusura di una parentesi. Prenderanno necessariamente forme diverse e senza dubbio a volte inattese.

Inoltre, nel gioco, un codice rigido e assoluto governa sovrano negli amatori il cui assenso preliminare appare come la condizione stessa della loro partecipazione a un’attività isolata e totalmente convenzionale. Ma se, improvvisamente, la convenzione non è più accettata o non è più sentita come tale? Se l’isolamento non è più rispettato? Né le forme né la libertà del gioco possono più sussistere. Resta solo, tirannico e incalzante, l’atteggiamento psicologico che spingeva ad adottare un gioco di una specie piuttosto che di un’altra. Ricordiamo che questi atteggiamenti distintivi sono in numero di quattro: l’ambizione di trionfare grazie al solo merito personale in una competizione regolata (agon), l’abdicazione della volontà a vantaggio di un’attesa ansiosa e passiva della sentenza della sorte (alea), il gusto di assumere una personalità diversa dalla propria (mimicry) e infine la ricerca della vertigine (ilinx). Nell’agon, il giocatore conta solo su se stesso, si sforza, si accanisce; nell’alea, conta su tutto tranne che su se stesso, e si abbandona a poteri che gli sfuggono; nella mimicry, immagina di essere un altro e inventa un universo fittizio; nell’ilinx, appaga il suo desiderio di vedere provvisoriamente distrutti la stabilità e l’equilibrio del proprio corpo, di sfuggire alla tirannia della propria percezione, di provocare lo smarrimento della propria coscienza.

Se il gioco consiste nel fornire a queste potenti pulsioni un soddisfacimento formale, ideale, limitato, separato dalla vita normale, che cosa succede, dunque, quando ogni convenzione è violata? Quando l’universo del gioco non è più separato ermeticamente? Quando c’è contaminazione con il mondo reale in cui ogni gesto porta con sé conseguenze ineluttabili? A ognuna delle categorie fondamentali corrisponde allora una perversione specifica che è la risultante dell’assenza di freno e protezione insieme. L’impero degli istinti ridiventando assoluto, la tendenza che l’attività isolata, riparata e in qualche modo neutralizzata del gioco riusciva a stornare, si riversa nella vita normale e tende a subordinarla il più possibile alle proprie esigenze. Ciò che era piacere diventa idea fissa; ciò che era evasione diventa costrizione; ciò che era divertimento, diventa febbre, ossessione, fonte d’angoscia.

Il principio del gioco è corrotto. E non lo è -si badi bene- per la presenza di bari o giocatori professionisti, ma unicamente per la contaminazione della realtà. In fondo, non c’è perversione del gioco, c’è come uno smarrirsi e un andare alla deriva di una delle quattro pulsioni primarie che presiedono ai giochi. Il caso non è affatto eccezionale. Si manifesta ogni volta che l’istinto considerato non incontra nella categoria di giochi che gli corrisponde la disciplina e il rifugio che lo stabilizzano, o ogni volta che esso rifiuta di accontentarsi di tale illusione.

Quanto al baro, egli resta invece all’interno dell’universo del gioco. Se ne stravolge le regole, lo fa, comunque, fingendo di rispettarle. Cerca di imbrogliare. È disonesto, ma ipocrita. E quindi tutela e proclama con il suo atteggiamento la validità delle convenzioni che viola, perché ha bisogno che almeno gli altri le rispettino. Se viene scoperto, è cacciato via. L’universo del gioco resta intatto. Allo stesso modo, colui che di un’attività di gioco fa il proprio mestiere, non cambia in alcun modo la natura del gioco. Ovviamente, lui, personalmente, non gioca: esercita una professione. La natura della competizione o quella dello spettacolo non vengono affatto modificate se gli atleti o gli attori sono dei professionisti che si esibiscono in cambio di un salario e non dei dilettanti che tendono unicamente al proprio divertimento. La differenza riguarda solo loro.

Per i pugili, i ciclisti o gli attori professionisti, l’agon o la mimicry non è più una distrazione volta a compensarli dalle fatiche o a distrarli dalla monotonia di un lavoro impegnativo e logorante. È il loro stesso lavoro, necessario alla sopravvivenza, attività impegnativa e costante, irta di ostacoli e problemi, e alla quale reagiscono proprio giocando a qualche gioco che non li impegni.

Anche per l’attore, la rappresentazione teatrale è una finzione. Si trucca, si traveste, simula, recita. Ma quando cala il sipario e si spengono le luci, ricade nella realtà. La separazione dei due universi resta assoluta. Allo stesso modo, per il professionista del ciclismo, della boxe, del tennis o del calcio, il cimento, l’incontro, la corsa restano competizioni regolate e formalizzate. Non appena terminate, il pubblico si affretta all’uscita. Il campione è restituito alle sue preoccupazioni quotidiane, deve difendere i propri interessi, ideare e mettere in opera la politica che gli assicuri l’avvenire più agiato. Le rivalità perfette e precise nell’ambito delle quali ha appena misurato la propria bravura nelle condizioni più artificiali possibili, lasciano il posto, non appena abbia abbandonato lo stadio, il velodromo o il ring, ad antagonismi ben diversamente temibili. Rivalità subdole, incessanti, implacabili, che impregnano tutta la sua vita. Come l’attore fuori del palcoscenico, egli si trova allora ricondotto alla comune condizione, al di fuori dello spazio chiuso e del tempo privilegiato in cui regnano le leggi rigorose, gratuite e indiscutibili del gioco.

Fuori dall’arena, dopo il colpo di gong, comincia la vera perversione dell’agon, la più diffusa fra tutte. Essa si manifesta in ogni antagonismo che non sia più temperato dal rigore dello spirito di gioco. Ora, la concorrenza assoluta non è mai solo una legge di natura. Essa ritrova nella società la sua brutalità originaria non appena scorga una via libera nella fitta rete delle costrizioni morali, sociali o legali che, come quelle del gioco, costituiscono dei limiti e delle convenzioni. Per questo, l’ambizione forsennata, ossessiva, in qualunque campo si eserciti, purché si manifesti senza rispettare le regole del gioco e del gioco leale, dev’essere denunciata come la deviazione decisiva che, nel caso particolare, fa ritorno alla situazione di partenza. Niente, d’altronde, rivela meglio il ruolo civilizzatore del gioco dei freni che esso suole opporre all’avidità naturale. È assodato che il giocatore ideale è quello che sa considerare con una certa eleganza, distacco e un’ombra, almeno, di sangue freddo, i risultati negativi dello sforzo più costante o la perdita di una posta ingente. La decisione, anche ingiusta, dell’arbitro è approvata per principio. La corruzione dell’agon comincia là dove non vengono riconosciuti né arbitri né arbitraggi.

Per i giochi d’azzardo c’è, parallelamente, corruzione del principio a cui si informano non appena il giocatore cessa di rispettare il caso, vale a dire cessa di ritenerlo una forza impersonale e neutra, senza sentimento né memoria, puro effetto meccanico delle leggi che presiedono alla ripartizione della fortuna. La degenerazione dell’alea nasce con la superstizione.XXVI È infatti allettante, per colui che si affida al destino, cercare di prevederne le decisioni o conciliarsene i favori. Il giocatore accorda un valore significante a ogni sorta di fenomeni, incontri e prodigi che immagina prefigurare la sua buona o cattiva sorte. Va in cerca dei talismani più efficaci. Si attiene al più vago avvertimento della sorte che gli venga trasmesso in sogno o attraverso presagi o presentimenti vari. Infine, per neutralizzare gli influssi nefasti, procede o fa procedere agli opportuni scongiuri.

Un simile atteggiamento, che si presenta nella sua forma più esasperata nella pratica dei giochi d’azzardo, lo ritroviamo del resto estremamente diffuso a livello generale di psicologia del profondo e quindi ben lungi dall’interessare solo coloro che frequentano i Casinò o le corse o che acquistano biglietti della lotteria. La regolare pubblicazione di oroscopi da parte di quotidiani e settimanali trasforma per la massa dei lettori ogni giornata e ogni settimana in una sorta di promessa o di minaccia che il cielo e l’oscuro potere degli astri tengono in sospeso. Per lo più, questi oroscopi indicano in particolare il numero favorevole, quel giorno, per i nati sotto i vari segni dello zodiaco. Ciascuno può allora acquistare dei biglietti della lotteria corrispondenti a quel numero: quelli che terminano con quella cifra, quelli che la contengono diverse volte o quelli il cui numero ridotto all’unità mediante addizioni successive coincide con essa, vale a dire praticamente quasi tutti.30 È significativo che la superstizione, in questa forma estremamente ingenua e popolare, si riveli così direttamente legata ai giochi d’azzardo. Bisogna tuttavia ammettere che il fenomeno va ben oltre.

Si presume che ognuno di noi, uscendo dal letto alla mattina, si trovi a essere vincente o perdente in una gigantesca lotteria incessante, gratuita, inevitabile, che determina per ventiquattr’ore il nostro coefficiente generale di successo o di fallimento. Questo interessa sia il modo di procedere che le nuove risoluzioni e gli affari di cuore. Il redattore dell’oroscopo ha lo scrupolo di avvertire che l’influenza degli astri si esercita entro limiti molto variabili, così che la profezia semplicistica non può mai essere del tutto sbagliata. Certo, la maggior parte del pubblico legge con sorridente scetticismo queste predizioni puerili. Però le legge. Anzi, tiene molto a leggerle. Al punto che molti, pur dichiarandosi scettici, cominciano la lettura del giornale proprio dall’oroscopo. Pare che le pubblicazioni a grande tiratura non si azzardino spesso a privare i loro lettori di questa soddisfazione, di cui non è opportuno sottovalutare l’importanza né la diffusione.

I più creduloni non si accontentano delle indicazioni sommarie dei quotidiani e dei settimanali illustrati. Ricorrono a pubblicazioni specializzate. A Parigi, una di queste ha una tiratura che supera i centomila esemplari. Spesso, l’adepto si reca a consultare un esegeta patentato. A questo proposito, disponiamo di alcune cifre rivelatrici: centomila parigini consultano ogni giorno seimila indovini, veggenti o cartomanti; secondo l’Istituto nazionale di Statistica, trentaquattro miliardi di franchi vengono spesi ogni anno in Francia presso astrologi, maghi e altri “fachiri”.31 Negli Stati Uniti, per la sola astrologia, un’inchiesta del 1953 ha contato trentamila professionisti accertati, venti riviste specializzate, una delle quali stampa fino a cinquecentomila copie, e duemila periodici che ospitano una rubrica di oroscopi. E ha valutato in due cento milioni di dollari le somme spese ogni anno unica mente per interrogare gli astri, salvi restando gli altri metodi di divinazione.

Si possono individuare senza difficoltà numerosi indizi della connivenza fra i giochi d’azzardo e la divinazione: uno dei più manifesti e immediati è forse il fatto che le stesse carte servono sia ai giocatori per tentare la sorte che alle veggenti per predire l’avvenire. Costoro, poi, utilizzano giochi di carte specializzati solo per un fatto di prestigio. Comunque, non si tratta che di mazzi di carte normali, completati successivamente da ingenue didascalie, illustrazioni parlanti o allegorie tradizionali. Gli stessi tarocchi XXVII furono e sono tuttora impiegati per ambedue gli scopi. In ogni caso, esiste uno slittamento quasi naturale fra rischio e superstizione.

Quanto all’ostinato accanimento che oggi si riscontra nella ricerca del bacio della fortuna, si tratta di un fenomeno verosimilmente compensatorio della tensione continua richiesta dalla feroce competitività della vita moderna. Chi dispera delle proprie capacità è portato a contare sul destino. Una competizione eccessivamente dura scoraggia la persona pavida e la invita ad affidarsi alle forze esterne. Il pusillanime tenta, attraverso la conoscenza e lo sfruttamento delle probabilità che gli riserva il cielo, di ottenere la ricompensa che egli teme di non riuscire a conquistare con le proprie qualità, con uno sforzo ostinato e un’applicazione tenace. Piuttosto che ostinarsi in un’ingrata fatica, egli chiede alle carte o alle stelle di avvertirlo del momento propizio al successo della sua impresa.

La superstizione appare così come la perversione, vale a dire l’applicazione alla realtà di quel particolare principio del gioco, l’alea, in base al quale non ci si aspetta niente da se stessi e tutto dal caso. La corruzione della mimicry segue un tracciato parallelo: si manifesta quando l’imitazione, la simulazione, non è più presa per tale, quando colui che è mascherato crede alla realtà del travestimento e della maschera. Egli non fa più la parte del personaggio che rappresenta; convinto di essere quel personaggio, si comporta di conseguenza e dimentica il suo vero essere. La perdita della propria identità profonda rappresenta il castigo di colui che non sa limitare al gioco il proprio gusto a indossare i panni di un’altra personalità. Si tratta, per essere precisi, dell’alienazione.

Anche qui, il gioco protegge dal pericolo. Il ruolo dell’attore è nettamente delimitato dalla superficie del palcoscenico e dalla durata dello spettacolo. Abbandonato quello spazio magico, spentasi la fantasmagoria, l’istrione più vanitoso, l’interprete più compenetrato sono bruscamente costretti da quelle che sono le condizioni stesse del teatro a ripassare in guardaroba e riprendersi la loro personalità. Gli applausi non sono soltanto un’approvazione e una ricompensa. Segnano la fine dell’illusione e del gioco. Allo stesso modo, il ballo in maschera termina all’alba e il Carnevale è di breve durata. Il costume ritorna dal trovarobe o nell’armadio. Ognuno ritrova l’uomo di prima. La precisione dei limiti impedisce l’alienazione. Questa si manifesta invece come esito di un lavoro sotterraneo e continuo. Si verifica quando non c’è stata una netta distinzione fra l’incantesimo e la realtà, quando il soggetto, lentamente, ha potuto immedesimarsi, ai suoi stessi occhi, in un’altra personalità, chimerica, invadente, che rivendica dei diritti esorbitanti nei confronti di una realtà necessariamente con essa incompatibile. Arriva il momento in cui l’alienato — l’altro da sé — si accanisce disperatamente a negare, piegare o distruggere questo scenario troppo resistente e, per lui, inconcepibile, provocante.

È importante considerare, per l’agon come per l’alea o la mimicry, come l’intensità del gioco non sia in alcun caso causa della deviazione funesta. Questa deriva sempre da una contaminazione con la vita normale. Si manifesta quando l’istinto che presiede al gioco deborda dai limiti rigidi di tempo e di luogo, senza convenzioni preliminari e imperative. Si può benissimo giocare con grande impegno, prodigarvisi al massimo, rischiarvi tutta la propria fortuna, la vita stessa, ma bisogna potersi fermare al momento stabilito e saper tornare alla condizione normale, là dove le regole del gioco, liberatorie e protettive insieme, non hanno più corso.

La competizione è una legge della vita ordinaria. Il caso, anch’esso, non contraddice la realtà. L’imitazione vi trova posto, come possiamo vedere con i truffatori, le spie e i fuggiaschi. In cambio, la vertigine ne è praticamente bandita, a meno che non si prendano in considerazione alcune rare professioni in cui la bravura di chi le pratica consiste comunque nel dominarla. Inoltre, la vertigine comporta quasi necessariamente un pericolo di morte. Nei luna-park, in quegli aggeggi che servono a provocarla artificialmente, vengono generalmente prese delle precauzioni severe per eliminare ogni rischio. E tuttavia, ogni tanto ci scappa l’incidente, anche con macchine studiate e costruite per garantire una perfetta sicurezza a coloro che le usano e che sono sottoposte a scrupolosi controlli periodici. La vertigine fisica, stato estremo e che priva il paziente di ogni mezzo di difesa, è tanto difficile da ottenere quanto rischiosa da sperimentare. Per questo, la ricerca del travolgimento della coscienza o della perdita della percezione, per espandersi nella vita quotidiana, deve assumere delle forme molto diverse da quelle che la vediamo prendere sulle varie macchine rotanti, montagne russe, ottovolante, ecc., inventati per suscitare la vertigine nell’universo chiuso e protetto del gioco.

Queste strutture, costose, complesse, che occupano molto spazio, esistono solo nei luna-park delle grandi città dove vengono montate periodicamente in occasione di alcune feste popolari. Già per l’atmosfera che vi regna, esse appartengono all’universo del gioco. Inoltre, la natura delle scosse che procurano corrisponde in tutto e per tutto alla definizione dello stesso: sono brevi, intermittenti, calcolate, discontinue, come altrettante partite o incontri successivi. Restano fondamentalmente indipendenti dal mondo reale. La loro azione è limitata alla loro stessa durata. Cessano con l’arresto della macchina e non lasciano, nel cultore di questi divertimenti, che un fuggevole senso di stordimento prima di restituirlo al suo stato normale.

Per introdurre la vertigine nella vita quotidiana bisogna passare dagli effetti immediati della fisica ai poteri torbidi e fumosi della chimica. Si chiede allora alla droga o all’alcool l’ebbrezza desiderata o il panico voluttuoso che gli aggeggi del luna-park dispensano in modo repentino e brutale. Ma, questa volta, il vortice non è più fuori dalla realtà né separato da essa: vi si è insediato e vi si sviluppa all’interno. Se, come la vertigine fisica, queste ebbrezze, queste euforie, possono ugualmente distruggere per un certo tempo la stabilità della percezione e il coordinamento dei movimenti, liberare dal peso dei ricordi, dai tormenti della responsabilità e dall’incalzante fardello della vita, non per questo la loro influenza viene a cessare con il cessare dell’accesso. Lentamente, ma stabilmente, esse alterano l’organismo. Tendono a creare, con un bisogno permanente, uno stato d’ansia insopportabile. Ci si trova allora agli antipodi del gioco, attività sempre contingente e gratuita. Con l’alcool e la droga, la ricerca della vertigine irrompe nella realtà in modo crescente, tanto più vasto e pericoloso in quanto suscita un’assuefazione che allontana via via la soglia a partire dalla quale si prova lo stordimento ricercato.

Anche a questo proposito, l’esempio degli insetti e dei girini è alquanto istruttivo. Ce ne sono di quelli che vanno pazzi per i giochi di vertigine, come stanno a provare, se non le farfalle che danzano intorno alla fiamma, per lo meno i girini che, nel loro parossistico mulinello, trasformano la superficie del più piccolo stagno in un carosello argentato. Ora, gli insetti, e particolarmente gli insetti sociali, conoscono anch’essi la “degenerazione della vertigine” sotto forma di un’ebbrezza dalle conseguenze funeste.

Così, una formica delle più comuni, la Formica sanguinea, lecca avidamente gli essudati odorosi formati da eteri grassi secreti dalle ghiandole addominali di un piccolo coleottero chiamato Lochemusa strumosa. Le formiche introducono nei propri nidi le larve di questo e le nutrono con tanta cura da trascurare le proprie. Ben presto, le larve della Lochemusa divorano le larve delle formiche le cui regine, mal curate, non generano più che degli pseudogini sterili. Il formicaio decade e sparisce. La Formica fusca che, libera, uccide le Lochemusa, le risparmia se è invece schiava presso la Formica sanguinea. Per questa stessa passione di una sostanza grassa e odorosa, essa mantiene presso di sé l’Atemeles emarginata che la porta alla rovina. Tuttavia, essa distrugge quest’ultimo parassita, se è schiava presso la Formica rufa che non lo tollera. Non si tratta dunque di un’inclinazione irresistibile ma di una sorta di vizio che può sparire in determinate circostanze: la servitù, in particolare, ora lo suscita, ora consente di resistervi. I capi impongono le loro usanze ai prigionieri.32

Questi casi di intossicazione volontaria non sono isolati. Un’altra specie di formiche, l’Iridomyrmex sanguineus del Queensland, va alla ricerca dei bruchi di una piccola falena grigia per bere l’umore inebriante che essi emettono. Schiacciano con le loro mandibole le carni succose di queste larve per farne sprizzar fuori tutto il liquido che contengono. Quando hanno ben spremuto un bruco, passano a un altro. Il male è che i bruchi della falena divorano le uova dell’Iridomyrmex. Qualche volta, l’insetto che emette l’essudato odoroso “conosce” il suo potere e provoca la formica. La larva del Lycaena arion, studiata da Chapman e da Frohawk, è munita di una sacca da miele. Quando incontra un’operaia della specie Myrmica laevinodis, solleva i segmenti anteriori del suo corpo, invitando la formica a trasportarla nel suo nido. Ora, il Lycaena arion si nutre di larve di Myrmica e quest’ultima si interessa al Lycaena solo nei periodi in cui questo insetto produce miele. Infine, un emittero giavanese, Ptilocerus ochraceus, descritto da Kirkaldy e Jacobson, porta nel mezzo della faccia ventrale una ghiandola contenente un liquido tossico che offre alle formiche, che ne sono ghiotte. Queste corrono subito a leccarlo. Il liquido le paralizza ed esse diventano cosi, per il Ptilocerus, una facile preda.33

I comportamenti aberranti delle formiche non rivelano forse, come abbiamo detto, l’esistenza di istinti nocivi alla specie. Stanno piuttosto a dimostrare che l’attrazione irresistibile per una sostanza paralizzante riesce a neutralizzare gli istinti più forti, in particolare l’istinto di conservazione che spinge l’individuo a vegliare sulla propria sicurezza e gli comanda di proteggere e nutrire la prole. Le formiche, potremmo dire, “dimenticano” tutto per la droga. Adottano i comportamenti più funesti, si offrono spontaneamente al nemico o gli abbandonano le loro uova e le loro larve.

In modo curiosamente analogo, l’ebetismo, l’ebbrezza, l’intossicazione da alcool, spingono l’uomo verso una strisciante ma irreversibile autodistruzione. Alla fine, privato della libertà di volere qualcos’altro oltre al suo veleno, egli si trova in preda a uno smarrimento organico continuo, straordinariamente più pericoloso della vertigine fisica che, almeno, non compromette che provvisoriamente la sua capacità di resistere al fascino del vuoto.

Quanto al ludus e alla paidia, che non sono categorie del gioco ma modi di giocare, essi passano nella vita ordinaria conservando il loro eterno contrasto: quello appunto che oppone il chiasso a una sinfonia, lo scarabocchio all’applicazione sapiente delle leggi della prospettiva. La loro contrapposizione è continuamente alimentata dal fatto che un’impresa preliminarmente concertata, in cui le diverse risorse disponibili ricevono la loro utilizzazione ottimale, non ha alcunché da spartire con un’agitazione pura, caotica, che tende unicamente al proprio parossismo.

Ciò che si trattava di prendere in esame era la degenerazione dei principi del gioco o, se si preferisce, la loro libera espansione senza steccati né convenzioni. Abbiamo osservato che tale corruzione si produce in base a modalità identiche. E comporta delle conseguenze la cui gravità, forse, è solo apparentemente molto disuguale. La follia o la tossicodipendenza sembrano conseguenze sproporzionate alla semplice espansione di uno degli istinti del gioco al di fuori del campo in cui potrebbe dispiegarsi senza alcun danno irreparabile. Al contrario, la superstizione, causata dalla deviazione dell’alea, appare innocua. E, addirittura, l’ambizione sfrenata cui porta lo spirito di competizione svincolato dalle regole di equilibrio e lealtà, sembra spesso avvantaggiare l’audace che vi si abbandona. E tuttavia, la tentazione di affidarsi per le proprie scelte di vita alle potenze occulte e all’autorità dei segni, applicando meccanicamente un sistema di corrispondenze fittizie, non incoraggia l’uomo a trarre il miglior profitto dai propri privilegi essenziali. Lo spinge al fatalismo, lo rende incapace di una valutazione intelligente dei rapporti fra i fenomeni. Lo dissuade dal perseverare e dallo sforzarsi di riuscire a dispetto delle circostanze avverse.

Trasposto nella realtà, l’agon non ha altro scopo che il successo. Le regole di una rivalità cavalleresca vengono neglette e sprezzate; appaiono semplici convenzioni farraginose e ipocrite. Trionfa la competizione più feroce. Il successo giustifica i colpi bassi. Se l’individuo è ancora trattenuto dal timore dei tribunali o dell’opinione pubblica, alle nazioni pare legittimo, se non meritorio, condurre la guerra in modo spietato e senza limiti. Le varie restrizioni imposte alla violenza cadono in disuso. Le operazioni belliche non sono più limitate alle regioni di confine, alle piazzeforti e ai militari. Non si svolgono più in base a una strategia che a volte ha fatto assomigliare la guerra a un gioco. La guerra si allontana dal torneo cavalleresco, dal duello, in una parola dal combattimento regolato in campo chiuso, per trovare la sua forma totalizzante nelle distruzioni massicce e nei massacri di intere popolazioni.

Ogni degenerazione dei principi del gioco si traduce con un abbandono di quelle convenzioni precarie e alquanto dubbie che è sempre lecito, se non addirittura proficuo, negare, ma la cui difficile adozione costella tuttavia lo sviluppo della civiltà. Se i principi dei giochi corrispondono infatti a degli istinti potenti (competizione, ricerca della fortuna, imitazione, vertigine), si comprende facilmente come essi non possano ricevere un appagamento positivo e creativo che in determinate condizioni, ideali e circoscritte, quelle che vengono proposte, in ogni singolo caso, dalle regole del gioco. Abbandonate a se stesse, frenetiche e rovinose come tutti gli istinti, queste pulsioni elementari non possono portare che a delle conseguenze funeste. I giochi disciplinano gli istinti e impongono loro un’esistenza istituzionale. Nel momento in cui accordano agli impulsi un soddisfacimento formale e limitato, essi li educano, li fecondano e vaccinano l’anima contro la loro virulenza. Contemporaneamente, li rendo
no atti a contribuire positivamente ad arricchire e determinare gli stili delle culture.

5. PER UNA SOCIOLOGIA CHE PARTA DAI GIOCHI

Per molto tempo, lo studio dei giochi è stato semplicemente storia dei giocattoli. L’attenzione era rivolta agli strumenti e agli accessori dei giochi più che alla loro natura, alle loro caratteristiche, alle leggi e agli istinti che vi sono alla base, al tipo di soddisfazione che procurano. In generale, si consideravano i giochi semplici e insignificanti svaghi infantili e non si pensava di attribuir loro il benché minimo valore culturale. Le analisi condotte sull’origine dei giochi o dei giocattoli hanno pienamente confermato la prima impressione in base alla quale i giocattoli sono semplici strumenti e i giochi comportamenti divertenti e puerili, senza importanza, lasciati ai bambini quando gli adulti hanno trovato di meglio da fare. Così, le armi cadute in disuso diventano a loro volta giocattoli: l’arco, lo scudo, la cerbottana, la fionda. Il bilboquet e la trottola sono stati inizialmente arnesi magici. Molti altri giochi si basano ugualmente su antiche credenze o riproducono superficialmente riti svuotati del loro significato profondo. Conte e girotondi appaiono ugualmente come antichi incantesimi ormai fuori uso.

“Tutto scade nel gioco,” è portato a concludere il lettore di Hirn, di Groos, di Lady Gomme, di Carrington Bolton e tanti altri.34

Tuttavia, Huizinga, nel 1938, nella sua opera principale, Homo ludens, sostiene la tesi esattamente opposta: è la cultura che viene dal gioco. Il gioco è libertà e invenzione, fantasia e disciplina insieme. Tutte le manifestazioni importanti della cultura sono ricalcate su di esso. Sono debitrici dello spirito di ricerca, del rispetto della regola, del distacco che il gioco innesca e sviluppa. Sotto certi aspetti, le regole del diritto, quelle della prosodia, del contrappunto e della prospettiva, quelle della messinscena teatrale e della liturgia, quelle della tattica militare e della controversia filosofica sono altrettante regole di gioco. Stabiliscono delle convenzioni che bisogna rispettare. Si può senz’altro affermare che il loro intreccio sottile dia origine alla civiltà.

“Tutto avrebbe dunque origine dal gioco?” ci si domanda richiudendo Homo ludens.

Le due tesi si contrappongono quasi inesorabilmente. Non penso che siano state ancora messe a confronto, sia per privilegiarne una, sia per connetterle, integrarle una all’altra. Bisogna ammettere che sembrano ben lungi dal potersi facilmente conciliare. In un caso, i giochi sono sistematicamente presentati come altrettante degradazioni di quelle attività adulte che, avendo perso la loro vera portata, decadono a livello di distrazioni anodine. Nell’altro, lo spirito ludico è all’origine delle convenzioni feconde che permettono lo sviluppo delle culture. Stimola l’ingegno, la sottigliezza e l’inventiva. Contemporaneamente, insegna la lealtà nei confronti dell’avversario e dà l’esempio di competizioni in cui la rivalità non si prolunga mai oltre l’incontro. Attraverso il gioco, l’uomo si trova in grado di neutralizzare la monotonia, il determinismo, la cecità e la brutalità della natura. Impara a costruire un ordine, a concepire un’economia, a stabilire un’equità.

Tuttavia, per quanto mi riguarda, non ritengo impossibile comporre questa antinomia.XXX Lo spirito di gioco è essenziale alla cultura, ma giochi e giocattoli, nel corso della storia, sono effettivamente i residui della cultura. Sopravvivenze incomprese di una condizione superata o elementi presi a prestito da una cultura estranea e che si trovano espropriati del loro significato all’interno di quella in cui sono introdotti, essi appaiono ogni volta estranei al funzionamento della società in cui li si riscontra. Vi sono ormai soltanto tollerati, mentre in una fase precedente o nella società dalla quale hanno avuto origine, erano parte integrante delle istituzioni, sia religiose che laiche. In quel contesto, certamente, non erano affatto dei giochi, nel senso che si dà ai giochi dei bambini, ma non per questo partecipavano meno dell’essenza del gioco, quale la definisce giustamente Huizinga. È mutata la loro funzione sociale, non la loro natura. Il “transfert”, la degradazione che hanno subito, li hanno svuotati del loro significato politico o religioso. Ma questo decadimento non ha fatto che rivelare, isolandolo, ciò che in essi non era che gioco, struttura di gioco.

È il caso di dare alcuni esempi. La maschera ne offre subito il più pertinente e significativo: oggetto sacro universalmente diffuso e il cui passaggio allo stato di giocattolo segna probabilmente un mutamento capitale nella storia della civiltà. Ma esistono altri casi comprovati di un simile “transfert”. L’albero della cuccagna si ricollega ai miti di conquista del cielo, il calcio alla disputa del globo solare fra due fratrie antagoniste. Certi giochi con la corda servivano a presagire la preminenza delle stagioni e dei gruppi sociali che gli corrispondevano. L’aquilone, prima di diventare un gioco, in Europa, verso la fine del XVIII secolo, rappresentava nell’Estremo Oriente l’anima staccata, esteriore, del suo proprietario rimasto a terra, ma collegato magicamente (e realmente, attraverso la corda per mezzo della quale si trattiene l’aquilone) alla fragile armatura di carta abbandonata ai vortici dei venti. In Corea, l’aquilone svolgeva la funzione di capro espiatorio per liberare da ogni male una comunità peccatrice. In Cina, fu utilizzato per misurare le distanze; a mo’ di rudimentale telegrafo, per trasmettere brevi messaggi; infine, per lanciare una corda al di sopra di un corso d’acqua e permettere così di gettare un ponte di barche. Nella Nuova Guinea, lo si utilizzava per rimorchiare delle imbarcazioni. Il gioco detto della “campana” (o “gioco del mondo”) rappresentava, molto probabilmente, il labirinto in cui da principio si smarriva l’iniziato. Nel giocare “a prendersi”, dietro l’innocenza e l’agitazione puerili, si è riconosciuta la terribile scelta di una vittima propiziatoria: designata dalla sentenza fatale della sorte, prima d’esserlo dalle sillabe sonore e vuote della conta, essa poteva (per lo meno si suppone) liberarsi del suo marchio infamante passandolo per contatto a colui che raggiungeva nella corsa.

Nelle tombe dell’antico Egitto, si trova molto spesso la rappresentazione di una scacchiera. Le cinque case in basso a destra sono ornate di geroglifici propiziatori. Sopra il giocatore, vi sono delle iscrizioni che si riferiscono alle sentenze del giudizio dei morti cui presiede Osiride. Il defunto gioca la propria sorte nell’altro mondo e si guadagna, o perde, la beatitudine. Nell’India vedica, chi offre un sacrificio si dondola su un’altalena per aiutare il sole a risalire nel cielo. Si ritiene infatti che l’oscillante traiettoria dell’altalena colleghi il cielo e la terra e la si paragona all’arcobaleno, altro collegamento fra cielo e terra. L’altalena si trova generalmente associata alle idee di pioggia, di fecondità, di rinnovamento della natura. In primavera, si fa solennemente dondolare Kama, dio dell’amore, e Krishna, protettore degli armenti. L’altalena cosmica spinge l’universo in un su e giù eterno in cui sono trascinati gli esseri e i mondi.

I giochi periodici celebrati in Grecia erano accompagnati da sacrifici e processioni. Dedicati a una divinità, costituivano essi stessi un’offerta: quella dello sforzo, dell’abilità o della grazia. Queste competizioni sportive erano prima di tutto una sorta di culto, la liturgia di una cerimonia sacra.

In linea generale, i giochi d’azzardo sono stati costantemente collegati alla divinazione, così come i giochi di forza o di destrezza, o i tornei di enigmi, avevano valore di prova nei rituali di investitura di una qualche carica o ministero importante. Il gioco attuale è tuttora male affrancato dalla sua origine sacrale. Gli Eschimesi giocano al bilboquet solo all’equinozio di primavera. E a condizione di non andare a caccia l’indomani. Questa dilazione purificatoria non si spiegherebbe se la pratica del bilboquet non fosse stata inizialmente qualcosa di più di una semplice distrazione. In realtà, essa dà luogo a ogni specie di recitazioni mnemotecniche. In Inghilterra, c’è una data fissa per giocare alla trottola ed è legittimo sequestrare quella che gira fuori stagione. Sappiamo che un tempo villaggi, parrocchie e città possedevano trottole gigantesche che le confraternite facevano girare ritualmente quando ricorrevano determinate feste. Anche in questo caso, un gioco infantile pare uscito da una preistoria carica di significati profondi.

Girotondi e filastrocche, a loro volta, sembrano continuare o ripetere antiche liturgie cadute in disuso. Così, in Francia, La Tour prends garde, Le Pont du Nord o Les Chevaliers du Guet. E, in Inghilterra, Jenny Jones o Old Rogers.

Non c’è voluto molto di più, inoltre, per ritrovare nella drammatizzazione di questi giochi reminiscenze del ratto a scopo di matrimonio, di svariati tabù, di rituali funebri e di tanti costumi caduti in dimenticanza.

Non esiste alcun gioco, infine, che non sia apparso agli storici specializzati come lo stadio estremo della progressiva decadenza di un’attività solenne e decisiva che determinava la prosperità o il destino degli individui o delle comunità. Cionondimeno mi chiedo se una simile dottrina, che consiste nel considerare ogni gioco come la metamorfosi estrema e svilita di un’attività importante, non sia fondamentalmente errata e, a dirla franca, un’ottica del tutto illusoria che non risolve minimamente il problema.

È senz’altro vero che l’arco, la fionda, la cerbottana esistono tuttora come giocattoli mentre strumenti più potenti li hanno sostituiti in quanto armi. Ma i bambini giocano anche con pistole ad acqua o a cartuccia, e con carabine ad aria compressa, mentre né pistole né fucili sono fuori uso presso gli adulti. E giocano anche con carri armati, sommergibili e aerei in miniatura che lasciano cadere imitazioni miniaturizzate di bombe atomiche. Non esiste arma nuova che non venga immediatamente tradotta in giocattolo. Al contrario, non è del tutto sicuro che i bambini della preistoria non giocassero già con degli archi, delle fionde e delle cerbottane di fortuna, mentre i loro padri se ne servivano “sul serio” o “per davvero”, per usare un’espressione estremamente rivelatrice del linguaggio infantile. È improbabile che si sia aspettata l’invenzione dell’automobile per giocare alla diligenza. Il gioco di monopoli riproduce il funzionamento del capitalismo: non viene dopo il capitalismo.

L’osservazione è altrettanto valida sia per il sacro che per il profano. Le Katcina sono semi-divinità che costituiscono il principale oggetto di culto degli Indiani Pueblos del Nuovo Messico: ciò non impedisce che quegli stessi adulti che li onorano e li incarnano nel corso di danze mascherate, facciano poi delle bambole a immagine e somiglianza delle Katcina per divertire i bambini. Allo stesso modo, nei paesi cattolici, i bambini giocano normalmente alla messa, alla cresima, al matrimonio, al funerale. I genitori li lasciano fare, per lo meno finché l’imitazione si mantiene nei limiti di un certo rispetto. Nell’Africa nera, i bambini costruiscono in modo analogo maschere e rombi e vengono d’altronde puniti se l’imitazione passa i limiti e assume un carattere eccessivamente parodistico o sacrilego.

In poche parole, strumenti, simboli e rituali della vita religiosa, comportamenti e gesta della vita militare, vengono normalmente imitati dai bambini che si divertono a comportarsi come gli adulti, a fingere per un momento di essere adulti. Per questo, ogni cerimonia, o più in generale ogni attività rigorosamente regolata, non appena presenti degli elementi suggestivi o rivesta una qualche solennità, e soprattutto se l’officiante, per adempierla, indossa un costume speciale, serve normalmente da supporto a un gioco che la riproduce a vuoto. Di qui il successo delle armi-giocattolo e dei vari costumi che, grazie ad alcuni accessori caratteristici e agli elementi di un rudimentale travestimento, permettono al bambino di trasformarsi in ufficiale, in poliziotto, in fantino, in aviatore, in marinaio, in cow-boy, in bigliettaio d’autobus, in qualunque personaggio interessante che avrà colpito la sua attenzione. Lo stesso discorso vale per la bambola che, a ogni latitudine, permette alla bambina di imitare la madre, di essere una madre.

Si è portati a sospettare che non ci sia passaggio, svilimento di un’attività seria degradata a divertimento infantile, ma piuttosto presenza simultanea di due diversi registri. Il bambino indiano si divertiva già con l’altalena ai tempi in cui l’officiante faceva religiosamente oscillare Kama o Krishna sull’altalena liturgica sfarzosamente ornata di ghirlande e pietre preziose. I bambini d’oggi giocano al soldato senza che gli eserciti siano spariti. E come immaginare che un giorno sparisca il gioco della bambola? XXXVIII

Considerando ora le occupazioni degli adulti, il torneo è un gioco, la guerra non lo è. A seconda delle epoche, vi si muore, poco o molto che sia. Certo, si può essere uccisi anche in un torneo, ma solo accidentalmente, come in una corsa automobilistica, in un incontro di boxe o di scherma, perché il torneo è più regolato, più separato dalla vita reale, meglio circoscritto della guerra. Inoltre, al di fuori del suo spazio, esso è, per natura, privo di conseguenze: pura occasione di gesta prestigiose messe subito in ombra dalla prodezza seguente, così come ogni nuovo record oscura l’impresa precedente. Allo stesso modo, la roulette è un gioco, ma non lo è la speculazione, in cui tuttavia il rischio non è minore: la differenza sta nel fatto che, in un caso, ci si astiene dall’intervenire sulla sorte e, nell’altro, ci si adopera invece per intervenire sulla decisione finale, senz’altro freno che la paura dello scandalo o della prigione.

In questa prospettiva, si vede benissimo che il gioco non è affatto il residuo anodino di un’occupazione da adulto caduta in disuso e superata, benché ne perpetui eventualmente la parvenza. Il gioco si presenta innanzitutto come un’attività parallela, indipendente, che si contrappone alle gesta e alle decisioni della vita normale attraverso a delle caratteristiche specifiche che gli sono proprie e fanno sì che esso sia un gioco. Si tratta di quelle caratteristiche specifiche che prima ho tentato di definire e analizzare.

Così, i giochi dei bambini consistono in parte, e in modo assolutamente naturale, nel mimare gli adulti, esattamente come la loro educazione si prefigge lo scopo di prepararli a diventare a loro volta degli adulti gravati di responsabilità effettive, non più immaginarie e tali che basti dire “non gioco più” per abolirle. Il vero problema comincia qui. Perché non bisogna dimenticare che gli adulti non cessano di giocare, per conto loro, a giochi complessi, vari, a volte pericolosi, ma che restano pur sempre giochi, in quanto collaudati come tali. Sebbene vi si possano trovare impegnati il patrimonio e la vita stessa allo stesso modo e ancora di più di quanto non lo siano nelle attività cosiddette serie, ognuno li distingue immediatamente da queste ultime, anche quando esse appaiano al giocatore assai meno importanti del gioco che lo appassiona. Il gioco, infatti, resta separato, chiuso, in linea di massima senza ripercussione importante sulla solidità e la continuità della vita collettiva e istituzionale.

Tutti gli autori che si sono ostinati a vedere nei giochi, specialmente nei giochi infantili, delle modificazioni futili e divertenti di attività un tempo ricche di significato e ritenute decisive, non hanno considerato abbastanza che gioco e vita normale sono costantemente e in ogni campo antagonisti e simultanei. Un simile errore di valutazione ci fornisce tuttavia un insegnamento prezioso in quanto rivela, senza alcun dubbio, che la storia verticale dei giochi, voglio dire la loro trasformazione nel corso del tempo — il destino di una liturgia che finisce in girotondo, di uno strumento magico o di un oggetto di culto che diventa giocattolo — è ben lungi dal dare sulla natura del gioco tante informazioni quante ne hanno immaginate gli studiosi che hanno pazientemente scoperto queste audaci filiazioni. In compenso, queste stabiliscono, come di riflesso, che il gioco è coesistente, inseparabile dalla cultura, le cui manifestazioni più significative e complesse appaiono strettamente associate a delle strutture di giochi, se non addirittura come strutture di giochi prese sul serio, erette a istituzione, a regola generale, divenute strutture imperative, coercitive, insostituibili, promosse, in una parola, a regole del gioco sociale, norme di un gioco che è più di un gioco.

Alla fine, la questione di sapere che cosa sia venuto prima, se il gioco o la struttura seria, appare alquanto vana. Spiegare i giochi a partire dalle leggi, dalle usanze o dalle liturgie o, al contrario, spiegare la giurisprudenza, la liturgia, le regole della strategia, del sillogismo o dell’estetica partendo dallo spirito di gioco, sono operazioni complementari, ugualmente valide e feconde, se non pretendono di escludersi a vicenda. Le strutture ludiche e le strutture funzionali sono spesso identiche, ma le rispettive attività cui esse presiedono sono irriducibili l’una all’altra e si esercitano, a ogni modo, in campi fra loro incompatibili.

Tuttavia, ciò che si esprime nei giochi non è diverso da quanto esprime una cultura. La motivazione profonda coincide. Naturalmente, con il tempo, quando una cultura si evolve, ciò che era inizialmente istituzione può senz’altro trovarsi svilito. Un contratto un tempo essenziale diventa convenzione puramente formale, che ciascuno rispetta o non cura a proprio piacimento, perché ottemperarvi è ormai preoccupazione gratuita, voluttuaria, sopravvivenza prestigiosa, senza alcuna ripercussione sull’effettivo funzionamento della società considerata. Poco a poco, questa riverente, desueta considerazione scade a livello di semplice regola di gioco. Ma il solo fatto che si possa riconoscere in un gioco un antico elemento importante del meccanismo sociale, rivela una straordinaria connivenza ed eccezionali possibilità di scambio fra i due campi.

Ogni istituzione funziona in parte come un gioco, di modo che essa si presenta anche come un gioco che si è dovuto instaurare, un gioco che poggia su nuovi principi e che ha dovuto spodestarne uno precedente. Questo gioco inedito risponde a nuovi bisogni, mette in auge nuove norme e legislazioni, esige altri meriti e attitudini diverse. Sotto questo profilo, una rivoluzione appare come un mutamento delle regole del gioco: a esempio, i privilegi o le responsabilità un tempo devoluti a ciascuno dal caso della nascita, devono ormai essere ottenuti per mezzo del merito personale, col favore di un concorso o di un esame. In altre parole, i princìpi che ordinano i vari tipi di giochi — caso o destrezza, fortuna o superiorità dimostrata — si manifestano allo stesso modo anche al di fuori dell’universo chiuso del gioco. Bisogna però ricordare che essi governano quest’ultimo in modo assoluto, senza resistenza e, per così dire, come un mondo fittizio senza peso né materia, mentre nell’universo confuso, inestricabile, dei reali rapporti umani, la loro azione non è mai isolata, né sovrana, né circoscritta in partenza: comporta conseguenze inevitabili. Ha in sé, nel bene e nel male, una fecondità naturale.

Tuttavia, in ambedue i casi è possibile identificare le stesse motivazioni determinanti:

  • Il bisogno di affermarsi, l’ambizione di mostrarsi il migliore;
  • Il gusto della sfida, del primato, o semplicemente della difficoltà superata;
  • L'attesa, la ricerca del favore del destino;
  • Il piacere della segretezza, della finzione, del travestimento;
  • Quello di aver paura o di far paura;
  • La ricerca della ripetizione, della simmetria, o al contrario la gioia d'improvvisare, d'inventare, di variare le soluzioni all'infinito;
  • La gioia di delucidare un mistero, un enigma;
  • Le soddisfazioni procurate da ogni arte combinatoria;
  • Il desiderio di misurarsi in una prova di forza di abilità , di velocità , di resistenza, di equilibrio, d'ingegnosità ;
  • La messa a punto di regole e norme, il dovere di rispettarle, la tentazione di aggirarle;
  • Infine l'ebbrezza e il rapimento dei sensi, la nostalgia dell'estasi, il desiderio di un panico voluttuoso.