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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine di Roger Caillois
Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A.


Ce l’ha, prima di tutto, nell’alea stessa dell’eredità, che distribuisce in modo disuguale i doni e le tare. In seguito, interviene immancabilmente perfino in quelle prove pur vòlte ad assicurare il trionfo del più meritevole. Non si può evitare, infatti, che la sorte non favorisca indebitamente il candidato che viene interrogato proprio sull’argomento che ha studiato a fondo, mentre compromette la riuscita dello sfortunato che si vede chiedere il solo punto che avrà trascurato. Ecco perciò reintrodotto, nel cuore stesso dell’agon, un elemento aleatorio.

Infatti, la fortuna, l’occasione, l’idoneità ad approfittarne svolgono un ruolo costante e di primo piano nelle società reali. Innumerevoli e complesse sono le interferenze fra i vantaggi derivanti dalla nascita, sia in senso fisico che sociale (e che possono essere sia determinate cariche onorifiche o determinati beni, sia la bellezza, la salute o alcune eccezionali disposizioni) e le conquiste della volontà e della pazienza, della competenza e del lavoro (che sono appannaggio del merito). Da una parte, il dono degli dei o della congiuntura; dall’altra, la ricompensa allo sforzo, alla tenacia, all’abilità. Allo stesso modo, nel gioco di carte, la vittoria sancisce una superiorità mista in cui convergono la distribuzione (casuale) delle carte e la competenza del giocatore. Alea e agon sono dunque contraddittori ma solidali. Un conflitto permanente li contrappone, un’intesa essenziale li unisce.

Attraverso i loro principi, e sempre di più attraverso le loro istituzioni, le società moderne tendono ad allargare il campo della competizione regolata, vale a dire del merito, a spese di quello della nascita o dell’eredità, vale a dire del caso. Un’evoluzione di questo tipo soddisfa in pari tempo la giustizia, la ragione e la necessità di impiegare nel miglior modo possibile i vari talenti. È per questo che i riformatori politici si sforzano incessantemente di concepire una concorrenza più equa e affrettarne l’avvento. Tuttavia, i risultati della loro azione restano alquanto scarsi e deludenti. Inoltre, essi appaiono estremamente lontani e improbabili.

Intanto, ciascuno comprende facilmente, non appena si trovi nell’età della ragione, che per lui è troppo tardi e che ormai il dado è tratto. Ciascuno è insomma prigioniero della propria condizione; il suo merito personale gli consentirà forse di migliorarla, ma non di uscirne. Non gli farà cambiare radicalmente il livello di vita. Da qui nasce la nostalgia di eventuali scorciatoie, di soluzioni immediate che offrano la prospettiva di un improvviso successo, anche se relativo. E bisogna ben chiederlo alla sorte, visto che il lavoro serio e le qualifiche personali risultano impotenti a procurarlo.

Inoltre, molti si rendono perfettamente conto di non avere molto da aspettarsi dai propri meriti. Vedono cioè benissimo che altri ne hanno di più, sono più abili, più forti, più intelligenti, più operosi o più ambiziosi, hanno più salute o più memoria, piacciono di più o sono più convincenti. Perciò, consci della propria inferiorità, non ripongono alcuna speranza in un confronto realmente giusto, imparziale e quasi matematico. Anch’essi si rivolgono allora alla fortuna cercando un principio di discriminazione che sia loro più clemente. Non sperando più di vincere nei vari tornei dell’agon, si rivolgono alle lotterie, a ogni tipo di estrazione a sorte in cui il meno dotato, lo stupido e il minorato, il pigro e il pasticcione, davanti alla meravigliosa cecità di un nuovo tipo di giustizia, si ritrovano finalmente uguali agli uomini di qualità, provvisti di meriti e di intelligenza.

A questo punto, l’alea appare di nuovo come la necessaria compensazione, il complemento naturale dell’agon. Una classificazione unica, definitiva, soffocherebbe ogni prospettiva in coloro che condanna. Occorre una prova di ricambio, un’altra possibilità. Il ricorso alla fortuna aiuta a sopportare l’ingiustizia della competizione falsata o troppo dura e, contemporaneamente, lascia una speranza ai diseredati che una concorrenza dichiarata manterrebbe ai posti peggiori, che sono necessariamente i più numerosi. È per questo che, nella misura in cui l’alea della nascita perde l’antica supremazia e la concorrenza regolata estende il suo dominio, si vedono sorgere e proliferare accanto a questa un’infinità di meccanismi secondari destinati a concedere improvvisamente a un eccezionale vincitore, stupefatto e felice, una promozione fuori serie.

A questo scopo rispondono essenzialmente i giochi d’azzardo, ma anche diverse prove, giochi d’azzardo mascherati, che hanno come caratteristica comune quella di presentarsi come delle competizioni, mentre in realtà è un elemento di rischio, di scommessa, di fortuna semplice o composta, a detenervi il ruolo essenziale. Queste prove, queste lotterie, consentono al giocatore fortunato una fortuna più modesta di quanto non creda, ma la cui prospettiva è sufficiente ad affascinarlo. Ognuno può essere l’eletto. Questa eventualità, per quanto quasi illusoria, incoraggia gli umili a sopportare meglio la mediocrità di una condizione dalla quale non hanno praticamente altro modo di poter mai evadere. Ci vorrebbe un eccezionale colpo di fortuna: un miracolo. Ora, questo miracolo è appunto funzione dell’alea proporlo in permanenza. Da qui, l’intramontabile fortuna dei giochi d’azzardo. Lo Stato stesso vi ha il proprio tornaconto. Creando, nonostante le proteste dei moralisti, delle lotterie ufficiali, esso intende beneficiare largamente di un cespite di reddito che, per una volta, gli viene devoluto con entusiasmo. E quando rinuncia a questo espediente, e lascia all’iniziativa privata il beneficio della sua gestione, impone comunque ingenti tasse alle varie operazioni che presentano la caratteristica di una scommessa sul destino.

Giocare significa rinunciare al lavoro, alla pazienza, al risparmio, in vista del gran colpo, del colpo fortunato che, in un secondo, procura ciò che un’intera, logorante vita di privazioni e fatiche non concederà mai a meno che ci si metta la fortuna o si ricorra alla speculazione che, appunto, appartiene in un certo senso all’ambito della fortuna. Per essere più allettanti, le vincite devono essere elevate, almeno le più importanti. I biglietti, invece, devono essere il meno costosi possibile, ed è inoltre opportuno che si possa facilmente suddividerli (riducendone proporzionalmente costo e valore) allo scopo di metterli alla portata della massa degli impazienti cultori. Ne consegue che i vincitori di grosse cifre sono rari. Non importa: la somma che ricompensa il più favorito dalla sorte apparirà ancora più prestigiosa.

Prendiamo pure il primo esempio che ci viene in mente e che certo non è il più probante: alla lotteria abbinata al Grand Prix de Paris, l’ammontare del primo premio è di cento milioni di franchi, una somma cioè che deve apparire semplicemente leggendaria alla stragrande maggioranza dei compratori di biglietti che guadagnano faticosamente poche decine di migliaia di franchi al mese. Se si calcola infatti sui quattrocentomila franchi il salario annuo dell’operaio medio, questa somma rappresenta il valore di circa duecentocinquant’anni di lavoro. Il biglietto, che si vende a diciottomila cinquecento franchi, un po’ più della metà del guadagno mensile, è del resto fuori della portata della maggior parte dei salariati. Questi si accontentano allora di acquistare dei “dixièmes” che, per duemila franchi, gli fanno balenare la prospettiva di un premio di dieci milioni, equivalente istantaneo e totale di un quarto di secolo di duro lavoro. L’attrazione di questa improvvisa ricchezza è inevitabilmente inebriante, in quanto significa, di fatto, un mutamento radicale di condizione, praticamente inconcepibile attraverso un iter normale: un autentico dono del destino.60

La magia creata si rivela efficace: in base alle ultime statistiche pubblicate, i Francesi hanno speso, nel 1955, centoquindici miliardi solo per i giochi d’azzardo controllati dallo Stato. Su questo totale, gli incassi netti della Lotteria nazionale ammontano a quarantasei miliardi, vale a dire a mille franchi per ogni Francese. Nello stesso anno, sono stati distribuiti circa venticinque miliardi di premi. I primi premi, la cui importanza relativa in rapporto al totale di premi continua ad aumentare, sono visibilmente calcolati per suscitare la speranza di un arricchimento che i giocatori sono manifestamente incoraggiati a rappresentarsi come avente valore di esempio.

Prova ne sia la pubblicità ufficiosa più o meno imposta ai beneficiari di queste fulminee fortune, benché, su richiesta, l’anonimato possa esser loro garantito. Comunque, è consuetudine che i giornalisti informino dettagliatamente l’opinione pubblica circa la loro vita quotidiana e i loro progetti. Sembrerebbe che si voglia invitare la folla dei lettori a tentare la sorte un’altra volta.

Non in tutti i paesi i giochi d’azzardo vengono organizzati in faraoniche estrazioni a sorte valide a livello nazionale. Privati di questo carattere ufficiale e dell’appoggio dello Stato, essi vedono diminuire rapidamente la loro estensione. Il valore assoluto dei premi cade con il numero dei giocatori. Non c’è più quella sproporzione quasi infinita fra la somma arrischiata e la somma bramata. Ma dal volume più modesto delle scommesse non consegue affatto che il totale delle poste in gioco sia alla fine meno rilevante.

Anzi, succede proprio il contrario, perché l’estrazione non è più, allora, un’operazione solenne e in un certo senso eccezionale. Il ritmo delle partite supplisce largamente al volume delle poste. Al Casinò, nelle ore in cui si gioca, i croupier, ossequienti a un ritmo stabilito dalla direzione, non smettono un istante di lanciare la pallina della roulette e annunciare i risultati. Nelle capitali mondiali del gioco, a Deauville, a Montecarlo, a Macao o a Las Vegas, a esempio, le somme continuamente in circolazione possono non arrivare a quelle cifre da capogiro che ci si compiace di immaginare, ma la legge dei grandi numeri assicura un utile quasi invariabile su operazioni rapide e ininterrotte. È sufficiente perché la Città o lo Stato ne ricavi una prosperità vistosa e scandalosa che si manifesta generalmente nello splendore delle feste, nel lusso aggressivo, nella libertà dei costumi, tutte seduzioni che hanno il loro evidente aspetto pubblicitario e sono del resto apertamente volte ad attrarre la clientela.

Comunque, queste cittadelle “specializzate” attraggono soprattutto clienti di passaggio che vengono a concedersi qualche giorno di “perdizione” in un ambiente eccitante e disimpegnato, ma che subito dopo ritornano a una vita di lavoro e austerità. Fatte le debite proporzioni, le città che offrono al tempo stesso un rifugio e un paradiso alla passione del gioco, assomigliano a immense case chiuse o a smisurate fumerie d’oppio. Sono cioè oggetto di una tolleranza controllata e redditizia. Una popolazione nomade di curiosi, di sfaccendati o di maniaci le percorrono senza fissarvisi. Sette milioni di turisti lasciano ogni anno a Las Vegas sessanta milioni di dollari che rappresentano circa il 40% del budget del Nevada. E tuttavia, il tempo che questa gente vi passa è come una parentesi nel corso normale della vita. Lo stile della civiltà non viene intaccato.

L’esistenza di grandi città i cui giochi d’azzardo sono la ragion d’essere e la risorsa quasi esclusiva, rivela indubbiamente la forza di quell’istinto che si esprime nella ricerca della fortuna. Tuttavia, non è in quelle città anomale che questo istinto si manifesta nella sua forma più preoccupante. Nelle altre città, il totalizzatore urbano permette a ciascuno di giocare alle corse senza neppure recarsi all’ippodromo. Alcuni sociologi hanno osservato la tendenza degli operai a costituire in fabbrica delle specie di club nei quali scommettono somme relativamente importanti, se non addirittura sproporzionate al loro salario, sul risultato delle partite di calcio.61 Anche qui, c’è un elemento di civiltà.62

Lotterie di Stato, Casinò, ippodromi, totalizzatori di ogni genere restano nei limiti dell’alea pura di cui osservano rigorosamente le leggi di giustizia matematica.

Infatti, detratte le spese generali e la trattenuta effettuata dall’amministrazione, il guadagno, per smisurato che possa sembrare, resta rigorosamente proporzionato alla puntata e al rischio di ciascun giocatore. Una innovazione davvero notevole del mondo moderno consiste in quelle che chiamerei senz’altro lotterie mascherate: quelle, cioè, che non richiedono puntate in denaro e si danno l’aria di premiare il talento, l’erudizione gratuita, l’ingegno e qualsivoglia altro merito che sfugga per sua natura all’apprezzamento obiettivo o alla sanzione legale. Alcuni grandi premi letterari procurano realmente a uno scrittore fortuna e gloria, almeno per qualche anno. Sull’onda di questi premi, ne sono stati creati migliaia d’altri che non procurano granché, ma sostituiscono e in qualche modo monetizzano il prestigio dei premi più importanti. Una ragazza, dopo essersi vittoriosamente cimentata con delle rivali sempre più temibili, viene finalmente proclamata Miss Universo: diventa una stella del cinema o sposa un miliardario. Sulla sua scia, vengono elette innumerevoli e imprevedibili Reginette, Damigelle d’onore, Sirenette, Miss Cinema o Eleganza, ecc. che, nel migliore dei casi e per una sola estate, godono di una notorietà inebriante, ma discutibile, di una vita brillante, ma estremamente effimera, in uno dei grand-hotel di qualche località alla moda. Ogni gruppo vuole avere la sua Miss. Non ci sono limiti. Perfino i radiologi hanno eletto una Miss Squelette: è la signorina Loi’s Conway, diciott’anni, che ha rivelato, ai raggi X, di possedere la struttura ossea più affascinante.

A volte, occorre una certa preparazione alla prova. Alla televisione, si vede offrire un piccolo patrimonio a chi riesce a rispondere a domande sempre più difficili in un determinato settore. Un’equipe altamente professionalizzata e alcuni apparati impressionanti danno una certa solennità a questo spettacolo settimanale: un conduttore esperto intrattiene il pubblico; una giovane donna, mirabilmente telegenica, fa da valletta; agenti in divisa fingono di sorvegliare l’assegno offerto alla pubblica cupidigia; un meccanismo elettronico assicura una selezione incontestabile delle domande; una cabina insonorizzata, infine, permette ai candidati di raccogliersi, di preparare, soli e davanti a tutti, la risposta fatidica. Generalmente di condizione modesta, si presentano tremanti al cospetto di un tribunale insensibile. Centinaia di migliaia di lontani spettatori partecipano alla loro angoscia e si sentono al tempo stesso lusingati di controllare una simile prova.

Apparentemente, si tratta di un esame in cui le domande vengono espressamente graduate per accertare il grado nozionistico del soggetto: un agon. In realtà, si tratta di una serie di scommesse in cui la probabilità di vincere diminuisce man mano che aumenta il valore della ricompensa offerta. Il nome di Lascia o Raddoppia, dato frequentemente a questo gioco, non lascia dubbi in proposito e denuncia inoltre la rapidità della progressione. Meno di dieci domande bastano a rendere il rischio estremo e la ricompensa affascinante. Quelli che arrivano alla fine diventano, per un certo periodo, veri e propri eroi nazionali: negli Stati Uniti, la stampa e l’opinione pubblica portarono successivamente alle stelle un calzolaio esperto in musica operistica italiana, una Scolaretta nera dall’impeccabile ortografia, un poliziotto appassionato di Shakespeare, una vecchia signora attenta lettrice della Bibbia e un militare ferratissimo in gastronomia. E ogni settimana spuntano nuovi eroi.63

L’entusiasmo suscitato da queste successive scommesse e l’alto indice di gradimento della trasmissione indicano chiaramente che la formula corrisponde a un bisogno generalmente sentito. A ogni modo, lo sfruttamento di questo bisogno è altamente redditizio, come quello dei concorsi di bellezza e indubbiamente per le stesse ragioni. Queste fortune fulminee e tuttavia oneste, dal momento che sembrano dovute al merito, forniscono una compensazione all’angustia della rivalità sociale che si esercita dopo tutto solo fra gente della stessa classe e dello stesso livello di vita o d’istruzione. La concorrenza quotidiana è da una parte dura e implacabile, dall’altra monotona ed estenuante. Non soltanto non diverte in alcun modo, ma accumula rancore su rancore. Logora e scoraggia gli animi. Perché, praticamente, non lascia alcuna speranza di poter uscire dalla propria condizione con i soli emolumenti forniti dal lavoro. Ciascuno aspira così a prendersi una rivincita. Sogna un’attività dotata di poteri inversi, che appassioni e, al tempo stesso, dia all’improvviso l’opportunità di un’autentica promozione. Certo, chi vi rifletta non può illudersi: la consolazione offerta da questi espedienti è derisoria ma, dal momento che la pubblicità ne moltiplica la risonanza, il numero assai ridotto dei vincenti conta meno dell’enorme massa di tifosi che seguono dalle loro case le peripezie della prova. Essi si identificano più o meno con i concorrenti. E s’inebriano, per delega, del trionfo del vincitore.

C. LA DELEGA

Si profila a questo punto un elemento nuovo, di cui è importante cogliere appieno il significato e la portata. La delega è una forma degradata, diluita, della mimicry, la sola che possa prosperare in un mondo retto dai princìpi abbinati del merito e della fortuna. A questi concorsi, la maggior parte fallisce o non è neppure in grado di presentarsi. I più non vi hanno accesso o non arrivano alla vittoria finale. Ogni soldato può avere nella sua giberna il bastone di maresciallo e il più meritevole può farcela; ciò non toglie che ci sia sempre un solo maresciallo a comandare battaglioni di soldati. La fortuna, come il merito, non favorisce che rari eletti. La massa resta nella sua frustrazione. Ognuno desidera essere il primo: la giustizia e il codice gliene danno il diritto. Ma ognuno sa, o sospetta, che potrebbe benissimo non esserlo, per la semplice ragione che di primo ce n’è uno solo. Così, sceglie d’essere vincitore per interposta persona, per delega, che è il solo modo per cui tutti trionfino allo stesso tempo e trionfino senza sforzo né rischio d’insuccesso.

Di qui il culto, essenzialmente caratteristico della società moderna, della diva e del campione. Culto che può sembrare a buon diritto inevitabile in un mondo in cui lo sport e il cinema hanno tanto posto. Tuttavia, questo omaggio unanime e spontaneo ha una motivazione meno apparente ma non meno persuasiva. La diva e il campione propongono le immagini affascinanti dei soli grossi successi che possono toccare in sorte, con il concorso della fortuna, alla persona più povera e sconosciuta. Una devozione ineguagliabile saluta il trionfo di colui o colei che non avevano altro, per riuscire, che i propri meriti personali: muscoli, voce o fascino, armi naturali, inalienabili, dell’uomo senza appoggio sociale.

La consacrazione è rara e, quel che più conta, comporta immancabilmente un elemento d’imprevisto. Non è il logico coronamento di una carriera dalla rigida trafila, bensì ricompensa una convergenza straordinaria e misteriosa in cui confluiscono e si sommano i doni delle fate chine sulla culla, una perseveranza che nessun ostacolo ha incrinato e l’ultima prova, costituita dall’occasione rischiosa, ma decisiva, incontrata e colta senza esitazione. D’altra parte, l’idolo ha chiaramente trionfato in mezzo a una concorrenza subdola, confusa e tanto più implacabile dato che il successo deve arrivare presto. Perché queste doti, che la persona più umile può aver ricevuto in sorte e che sono l’occasione del povero, hanno vita breve: la bellezza sfiorisce, la voce s’incrina, i muscoli arrugginiscono, i movimenti perdono scioltezza. Chi, d’altra parte, non sogna vagamente di poter approfittare della possibilità magica, che pure sembra a portata di mano, di accedere al fuggevole empireo del lusso e della gloria? Chi non aspira a diventare diva o campione? Ma fra questa massa di sognatori, quanti si scoraggiano alle prime difficoltà? Quanti le abbordano? Quanti pensano realmente di affrontarle un giorno? Per questo, quasi tutti preferiscono trionfare per procura, attraverso gli eroi di film e romanzi o, meglio ancora, tramite quei personaggi reali e familiari che sono le dive e i campioni. Si sentono, nonostante tutto, rappresentati dalla manicure eletta Reginetta di bellezza, dalla commessa cui è stato affidato il ruolo di protagonista in un kolossal, dal figlio di bottegaio che vince il Tour de France, dal garagista che indossa il costume luccicante e diventa un toreador di gran classe.

Non c’è più inestricabile mescolanza dell’agon e dell’atea. Un merito che autorizza ciascuno a pretendere determinate cose si unisce all’incredibile fortuna della grossa vincita, per assicurare, sembra, al primo venuto, un successo tanto straordinario da apparire miracoloso. A questo punto, interviene la mimicry. Ciascuno partecipa per interposta persona a uno smisurato trionfo che, apparentemente, può toccargli in sorte, ma a proposito del quale nessuno ignora, dentro di sé, che l’eletto sarà uno solo su milioni di concorrenti. In modo che ciascuno si trova al tempo stesso autorizzato all’illusione e dispensato dagli sforzi che dovrebbe esercitare se volesse realmente tentare la sorte e cercare d’essere proprio lui l’eletto.

Questa identificazione vaga e superficiale, ma costante, tenace e universale, costituisce una sorta di volano stabilizzatore della società democratica. La maggior parte delle persone non ha che questa illusione per sognare, per evadere da un’esistenza piatta, monotona e logorante.64

Questa trasposizione -dovrei forse dire questa alienazione-tocca livelli tali da portare normalmente a gesti individuali altamente drammatici o a una sorta di isteria contagiosa che scoppia all’improvviso coinvolgendo tutta una generazione di giovani. Il diffondersi di questi miti è del resto favorito dalla stampa, dal cinema, dalla radio, dalla televisione. Il manifesto, il settimanale illustrato rendono il volto del campione o della diva onnipresente, inevitabile, ammaliante. Esiste un’osmosi continua fra questi idoli effimeri e la folla dei loro ammiratori. Questi sono tenuti al corrente dei loro gusti, manie, superstizioni e dei particolari più insignificanti della loro vita. Li imitano, ne copiano la pettinatura, ne adottano lo stile, il modo di vestirsi e di truccarsi, il regime alimentare. Vivono tramite loro e in loro, a un punto tale che alcuni non si danno pace della loro morte e rifiutano di sopravvivergli. Infatti, queste devozioni appassionate non escludono la frenesia collettiva né le epidemie di suicidi.65

È evidente che non è la bravura dell’atleta né l’arte dell’interprete a fornire la chiave di questi fanatismi, bensì una sorta di generale bisogno di identificazione con il campione o con la diva. Un’assuefazione di questo tipo diventa ben presto una seconda natura.

La vedette rappresenta il successo personificato, la vittoria, la rivincita sull’opprimente, sordida inerzia quotidiana, sugli ostacoli che la società oppone alla bravura e al merito. La dismisura della gloria dell’idolo illustra la possibilità permanente di un trionfo che, già, è un po’ patrimonio e, in ogni caso, è un po’ opera di ciascuno di quelli che l’applaudono. Questa brillante ascesa che, pare, consacra il primo o la prima venuta, sconvolge ogni gerarchia stabilita, abolisce in modo clamoroso e radicale la fatalità che la propria condizione fa pesare su ciascuno.66 C’è peraltro una tendenza a sospettare qualcosa di losco, di sporco o di irregolare in carriere simili. Quel residuo di invidia che sussiste nell’adorazione non manca di scorgervi un torbido successo dell’ambizione e dell’intrigo, della sfacciataggine o della pubblicità.

I re sono esenti da un simile sospetto, ma la loro posizione, lungi dal contraddire l’ineguaglianza sociale, ne fornisce al contrario l’esemplificazione più clamorosa. E si vede la stampa e l’opinione pubblica, esattamente come per le vedette, appassionarsi ai regnanti, ai cerimoniali di corte, agli amori delle principesse e all’abdicazione dei sovrani.

La maestà ereditaria, la legittimità garantita da generazioni di potere assoluto, procura l’immagine di una grandezza simmetrica che trae dal passato e dalla storia un prestigio più stabile di quello conferito da un successo improvviso e passeggero. Per beneficiare di questa superiorità decisiva, i monarchi -si usa ripetere- non fanno altra fatica che quella di nascere. Il loro merito appare nullo. Si ammette comunemente che essi portano il peso di privilegi eccezionali che non hanno fatto niente per meritare e che non hanno neanche dovuto desiderare e scegliere: puro verdetto di un’alea assoluta.

L’identificazione è allora minima. Per definizione, i re appartengono a un mondo proibito in cui solo la nascita permette di entrare. Non rappresentano la mobilità della società, le possibilità che essa offre ma, al contrario, la sua chiusura e la sua coesione, con tutti i limiti e gli ostacoli che esse oppongono al tempo stesso al merito e alla giustizia. La legittimità dei prìncipi appare come l’incarnazione suprema, quasi scandalosa, della legge naturale. Essa corona (in senso proprio), destina al trono un essere che niente, tranne questa fortuna, distingue dalla massa di coloro sui quali, in virtù di una cieca sentenza della sorte, si trova chiamato a regnare.

Pertanto, la fantasia popolare sente l’esigenza di riavvicinare il più possibile alla condizione comune colui che ne è invece separato da una distanza invalicabile. Lo si vuole allora semplice, sensibile e, soprattutto, oppresso dalla pompa e dagli onori cui è condannato. Per invidiarlo meno, lo si compiange. Si dà per certo che le gioie più semplici gli siano precluse e si ripete con insistenza che non ha la libertà di amare, che è schiavo della corona, dell’etichetta, dei doveri di Stato. Un curioso miscuglio di invidia e compassione circonda così la dignità suprema e attira al passaggio di re e regine un popolo che, mentre li acclama, cerca di convincersi che non sono fatti diversamente da lui e che la corona non porta tanto la felicità e il potere quanto la noia e la tristezza, la fatica e la costrizione.

Regine e re sono descritti bisognosi d’affetto, di sincerità, di intimità privata, di fantasia e soprattutto di libertà. “Non posso neppure comperare un giornale,” avrebbe detto la regina d’Inghilterra nel corso della sua visita a Parigi nel 1957. Questo è proprio il genere di frasi che l’opinione pubblica attribuisce ai sovrani e che ha bisogno di credere corrispondente a una verità essenziale.

La stampa tratta regine e principesse come altrettante vedettes, ma vedettes prigioniere di un ruolo unico, coercitivo, immutabile, da cui esse aspirerebbero solo a liberarsi. Vedettes involontarie, prigioniere del proprio personaggio.

Una società, sia pure egualitaria, non lascia ai diseredati alcuna speranza di evadere dalla loro esistenza frustrante. Li condanna quasi tutti a restare per tutta la vita nel quadro angusto che li ha visti nascere. Per ingannare un’ambizione cui pure a scuola gli insegnano a tendere e che poi la vita rivela ben presto chimerica, la società li illude seducendoli con immagini radiose: mentre il campione e la diva fanno loro balenare il miracolo dell’ascesa brillante concessa anche al più diseredato, il rigido protocollo delle corti è lì a ricordargli che la vita dei re non è felice se non nella misura in cui conserva qualcosa di comune con la loro, di modo che l’aver ricevuto dalla sorte l’investitura più smisurata non appare poi un così grande vantaggio.

Queste credenze sono curiosamente contraddittorie. Per menzognere che siano, traducono un’illusione insopprimibile: proclamano una fiducia nei doni della sorte, quando questi favoriscono gli umili e negano i vantaggi che questi doni apportano, quando assicurano fin dalla culla un destino glorioso ai figli dei potenti.

Simili atteggiamenti, pure fra i più diffusi, appaiono estremamente strani. Occorre, per rendersene conto, una spiegazione adeguata alla loro grande diffusione e alla loro stabilità. Essi si collocano fra gli ingranaggi permanenti di una data società. Il nuovo gioco sociale, l’abbiamo visto, è definito dalla dialettica fra la nascita e il merito, fra la vittoria riportata dal migliore e il colpo fortunato che esalta il beniamino della sorte. Tuttavia, mentre la società poggia sull’eguaglianza di tutti e la proclama, solo un esiguo numero di persone nasce o arriva ai primi posti, che, chiaramente, non tutti possono occupare, a meno di un’impensabile alternanza. Di qui, il sotterfugio della delega.

Un mimetismo larvato e benigno fornisce un’innocua compensazione a una moltitudine rassegnata, senza speranza né fermo proposito di accedere a quell’universo di lusso e di gloria che l’abbaglia. La mimicry si diffonde orizzontalmente, imbastardita; privata della maschera, non porta più alla possessione e all’estasi, ma alla fantasticheria più vana. Questa ha origine nel fascino malioso della sala buia o nello stadio assolato, quando tutti gli sguardi sono fissi sulle gesta di un fulgido eroe. È riecheggiata all’infinito dalla pubblicità, dalla stampa, dalla radio. Identifica da lontano migliaia di succube prede con i loro idoli favoriti e le fa vivere, con la fantasia, la vita “piena” e lussuosa di cui ogni giorno si sentono descrivere i particolari e i drammi. Con la decadenza della maschera, che ormai è portata solo in rarissime occasioni, la mimicry, che si è propagata orizzontalmente, fa da supporto o da contrappeso alle nuove norme che governano la società.

Al tempo stesso, la vertigine, ancor più svilita, esercita la sua continua e possente sollecitazione unicamente attraverso il corrompimento che le corrisponde, vale a dire attraverso l’ebbrezza procurata dall’alcool o dalle droghe. Anch’essa, come la maschera, come il travestimento, non è più che gioco propriamente detto, vale a dire attività regolata, circoscritta, separata dalla vita reale. Questi ruoli episodici sono senza dubbio ben lungi dall’esaurire la virulenza delle forze finalmente sottomesse del simulacro e della trance. Per questo, esse rispuntano fuori sotto forme ipocrite e pervertite all’interno di un mondo che cerca di tenerle a freno e non concede generalmente loro alcun diritto.

È tempo di concludere. Non si trattava dopo tutto che di indicare come si abbinano le motivazioni fondamentali dei giochi. Di qui, i risultati di una doppia analisi. Da una parte, la vertigine e il simulacro, che tendono di concerto all’alienazione della personalità, prevalgono in un certo tipo di società, dal quale non sono del resto escluse l’emulazione e la fortuna. Ma l’emulazione non vi è codificata e ha pochissimo spazio, quando ne ha uno, nelle istituzioni, e per di più si presenta generalmente sotto forma di una semplice prova di forza o di un rilancio di prestigio. Del resto, questo stesso prestigio resta per lo più di origine magica e di natura ipnotica: ottenuto attraverso lo spasimo e la trance, garantito dalla maschera e la mimica. Quanto alla fortuna, essa non è, in questo tipo di società, l’espressione astratta di un coefficiente statistico, ma anch’essa il segno sacrale del favore degli dei.

All’opposto, la competizione regolata e il verdetto del caso, che implicano ambedue dei calcoli precisi, delle teorie destinate a suddividere equamente rischi e ricompense, costituiscono i principi complementari di un altro tipo di società. Creano il diritto, vale a dire un codice fisso, astratto, consequenziale, mediante il quale modificano così profondamente le norme della vita sociale che l’adagio romano “Ubi societas, ibi jus”, presupponendo una correlazione assoluta fra la società e il diritto, sembra ammettere che la società stessa cominci con questa rivoluzione. In un universo di questo tipo, l’estasi e la pantomima non sono sconosciute, ma vi si trovano per così dire declassate. In tempi normali, vi appaiono solo imbastardite, sconsacrate, se non addirittura addomesticate, come stanno a dimostrare diversi fenomeni proliferanti, ma nonostante tutto subalterni e inoffensivi. Tuttavia, la loro capacità dirompente resta sufficientemente forte da poter precipitare in qualunque momento una folla in una qualche mostruosa frenesia. La storia ne fornisce parecchi esempi singolari e agghiaccianti, dalle Crociate di bambini del Medioevo fino al delirio orchestrato dei Congressi di Norimberga ai tempi del Terzo Reich, passando attraverso innumerevoli epidemie di saltatori e danzatori, di epilettici e flagellanti, attraverso gli Anabattisti di Munster nel XVI secolo, il movimento noto con il nome di Ghost-Dance Religion. presso i Sioux della fine del XIX secolo, ancora male integrati al nuovo stile di vita, il “risveglio” del Galles nel 1904-5, e infiniti altri contagi immediati, irresistibili, a volte devastanti, contraddittori nei confronti delle norme fondamentali delle civiltà nelle quali si manifestano.67

Un esempio recente, caratteristico di questo fenomeno, benché di minore ampiezza, è offerto dalle manifestazioni di violenza collettiva cui si sono abbandonati gli adolescenti di Stoccolma intorno al Capodanno del 1957, gratuita esplosione di una follia distruttiva muta e accanita.68

Questi eccessi, che sono anche degli accessi, non possono più costituire la regola, né apparire come un momento, un segno di grazia, come l’esplosione attesa e riverita. Possessione e mimica non portano ormai che uno smarrimento incomprensibile, passeggero e che fa orrore, come la guerra, che mi è appunto capitato di presentare come l’equivalente della sagra primitiva. L’ossesso non è più considerato l’interprete folle di un dio che lo possiede. Non si crede più che abbia poteri divinatori e di guarigione. Per un comune accordo, l’autorità è ormai una faccenda di calma e di ragione, non di frenesia. E si sono dovute anche neutralizzare la follia e la festa e ogni prestigioso tohu-bohu, nato dal delirio di uno spirito o dall’effervescenza di una massa. A questo prezzo, ha potuto nascere e svilupparsi lo Stato e gli uomini passare dall’illusorio dominio magico dell’universo, folgorante, totale e vano, al lento, ma effettivo assoggettamento tecnico delle energie naturali.

Il problema è lungi dall’essere risolto. Si continua a ignorare la serie fortunata di scelte decisive che permise a poche, eccezionali culture di varcare la porta più difficile da superare, di vincere la scommessa più ardua, quella che immette nella storia, che, contemporaneamente, autorizza un’ambizione indefinita e grazie alla quale l’autorità del passato cessa d’essere pura analisi per tramutarsi in potere di innovazione e condizione di progresso: patrimonio al posto di ossessione.

Il gruppo che sa reggere una simile scommessa sfugge dal tempo immemore e immoto, in cui attendeva solo il ritorno ciclico e paralizzante delle Maschere Creatrici, che lui stesso mimava a intervalli fissi in una totale e sconvolgente abdicazione di coscienza. Si impegna in un’impresa ben altrimenti audace e feconda, che è lineare, che non ritorna periodicamente al punto di partenza, che cerca e che esplora, che non ha fine, che è l’avventura stessa della civiltà.

Certo, sarebbe assurdo concludere che, per poter tentare la prova, sia bastato ricusare l’ascendente della coppia mimicry-ilinx per sostituirgli un universo di cui il merito e la fortuna, l’agon e l’alea, si sarebbero divisi il governo. Sarebbe pura teoria, pura speculazione filosofica. Ma che questa rottura accompagni la rivoluzione decisiva e che debba entrare nella sua corretta descrizione, anche se questo ripudio non porta inizialmente che delle conseguenze impercettibili, questo non vedo davvero come lo si possa negare: lo si troverà semmai fin troppo evidente e quasi superfluo da sottolineare.

9. REVIVISCENZE NEL MONDO MODERNO

Se la mimicry e l’ilinx costituiscono realmente per l’uomo delle tentazioni permanenti, non dev’essere facile eliminarle dalla vita collettiva in modo che vi sussistano solo allo stato di divertimento infantile o di comportamenti aberranti. Per quanto se ne discrediti scrupolosamente la validità, se ne diradi l’impiego, se ne addomestichino o neutralizzino gli effetti, la maschera e la possessione corrispondono nonostante tutto a degli istinti sufficientemente minacciosi perché sia necessario conceder loro qualche soddisfazione, certo limitata e inoffensiva, ma di grande scalpore e tale da offrire almeno uno spiraglio agli ambigui piaceri del mistero e del brivido, del panico, dello stupore e della frenesia.

Si scaricano così delle energie selvagge, esplosive, pronte a raggiungere, improvvisamente, un pericoloso grado di parossismo. Tuttavia, la loro forza deriva principalmente dalla loro alleanza: per domarle più facilmente, non c’è niente di meglio che dividere i loro poteri e ostacolare la loro complicità. Il simulacro e la vertigine, la maschera e l’estasi erano costantemente associate nell’universo viscerale e ipnotico così a lungo governato dalla loro intesa segreta. Ormai, esse non appaiono che separate, svilite e isolate, in un mondo che le rifiuta e che del resto progredisce solo nella misura in cui riesce a dominare o sviare la loro potenziale violenza.

Infatti, in una società liberata dal sortilegio malioso della coppia mimicry-ilinx, la maschera perde necessariamente il suo potere di metamorfosi. Colui che la porta non si sente più incarnazione di quelle potenze leggendarie di cui ha assunto le disumane sembianze. Né coloro che vuol spaventare si lasciano più trarre in inganno dalla misteriosa apparizione. La maschera stessa ha mutato aspetto. E ha anche cambiato, nella maggior parte dei casi, destinazione. Ha acquisito infatti un nuovo ruolo, meramente utilitario. Strumento di dissimulazione nel caso del delinquente che cerca di nascondere le proprie sembianze, la maschera non impone una presenza: protegge una identità. Del resto, a che scopo usare proprio una maschera? Un foulard è sufficiente. Maschera è piuttosto l’apparecchio che isola le vie respiratorie in un ambiente inquinato o che assicura ai polmoni l’ossigeno indispensabile. In ambedue i casi, si è ben lontani dall’antica funzione.

La maschera e l’uniforme

Come ha giustamente osservato Georges Buraud, la società moderna conosce due sole sopravvivenze dell’antica maschera degli stregoni: il loup (bautta) e la maschera grottesca del Carnevale. Il loup, maschera ridotta all’essenziale, elegante e quasi astratta, è per molto tempo l’attributo delle feste erotiche e della cospirazione. Presiede ai giochi equivoci della sensualità e al mistero dei complotti contro il potere. È simbolo di intrigo: amoroso o politico.69 Emana inquietudine e provoca un leggero brivido. Al tempo stesso, assicurando l’anonimato, protegge e libera. Nel corso di un ballo, non sono solo due sconosciuti che si abbordano e danzano insieme. Sono due esseri che si ammantano di mistero e che già sono legati da una tacita promessa di complicità. La maschera li libera manifestamente dalle costrizioni che la società fa pesare su di loro. In un mondo in cui i rapporti sessuali sono oggetto di innumerevoli interdetti, è significativo che la maschera - il loup, dal nome della bestia istintiva e predatrice per eccellenza - rappresenti tradizionalmente il modo e quasi la decisione ostentata di non curarsene.

L’intera avventura è condotta sul piano del gioco, vale a dire conformemente a delle convenzioni stabilite in anticipo, in un’atmosfera e entro determinati limiti di tempo che la separano dalla vita normale e la rendono, in linea di principio, priva di conseguenze su quest’ultima.

Il Carnevale, date le sue origini, è un’esplosione di licenziosità che, ancor più del ballo mascherato, esige il travestimento e si basa sulla libertà che scatena. Le maschere di cartone, enormi, comiche, sfacciatamente colorate, sono l’equivalente, sul piano popolare, della bautta sul piano mondano. Non si tratta più, questa volta, di avventure galanti, di intrighi che nascono e muoiono nel corso di una sapiente schermaglia verbale in cui i partners, a turno, provocano e si ritraggono. Sono scherzi grossolani, spinte, pigia pigia, risate provocanti, atteggiamenti sbracati, mimiche grottesche, istigazione continua al baccano, alla bisboccia, allo straparlare, all’esagitazione. Le maschere, insomma, si prendono una breve rivincita sulla buona educazione e sul contegno riservato che devono osservare per tutto il resto dell’anno. Si avvicinano fingendo di spaventare. Il passante, stando al gioco, finge d’aver paura o, al contrario, mostra ostentatamente di non averne. Se si arrabbia, si squalifica: rifiuta di giocare, non riesce a capire che le normali convenzioni sociali sono momentaneamente sostituite da altre, diverse convenzioni, destinate appunto a farsi beffe delle prime. Entro determinati limiti di tempo e di spazio, il Carnevale offre una sorta di sfogo all’eccesso, alla violenza, al cinismo e alla rapacità dell’istinto. Ma li orienta in pari tempo verso l’esagitazione disinteressata, vacua e giocosa, li invita a un gioco bouffon, per riprendere l’espressione esatta di G. Buraud, che tuttavia non pensa al gioco. E non si sbaglia: questo svilimento finale della mimicry sacrale non è altro che un gioco. E ne presenta del resto la maggior parte delle caratteristiche. Semplicemente, più vicino alla paidia che al ludus, esso rimane interamente dalla parte dell’improvvisazione anarchica, del tohu-bohu e della gestualità scomposta, del puro dispendio di energia.

Ma è senz’altro ancora troppo; l’ordine e la misura s’impongono ben presto all’effervescenza stessa e tutto finisce in cortei, in battaglie di fiori, in gare per il miglior costume. Le autorità, d’altra parte, vedono così chiaramente nella maschera la fonte viva di ogni sfogo popolare che si limitano a proibirne l’uso là dove la frenesia generale tendeva, come a Rio de Janeiro, ad assumere per una decina di giorni consecutivi delle proporzioni incompatibili con il funzionamento stesso dei servizi pubblici.

Nella società civilizzata, l’uniforme sostituisce la maschera delle società misteriche. Ne è press’a poco l’esatto contrario. A ogni modo, è il segno di un’autorità fondata su princìpi rigorosamente opposti. La maschera era destinata a nascondere e terrorizzare. Significa l’irruzione di una potenza temibile e capricciosa, intermittente ed eccessiva, che s’impone per ispirare un sacro terrore alla moltitudine profana e per punire gli errori e le imprudenze. L’uniforme è anch’essa un travestimento, ma ufficiale, permanente, regolamentare e che, soprattutto, lascia il volto scoperto. Fa dell’individuo il rappresentante e il servitore di una regola imparziale e immutabile, non già la preda delirante di una contagiosa frenesia. Dietro la maschera, la faccia stralunata dell’ossesso assume impunemente ogni espressione stravolta, torturata, mentre il funzionario deve badare che sul suo volto nudo si possa leggere solo che egli è un essere tutto ragione e sangue freddo, unicamente preposto all’applicazione della legge. Niente sottolinea forse meglio, e comunque in modo più evidente, l’opposizione dei due tipi di società di questo eloquente contrasto fra le due apparenze emblematiche -una che occulta, l’altra che proclama-assunte da coloro cui è demandato il mantenimento di ordini così antagonisti.

Il luna-park

Fatta eccezione per l’uso, d’altronde modesto, della raganella e del tamburello, e fatta eccezione per i girotondi e le farandole, il Carnevale è curiosamente povero di strumenti e occasioni di vertigine. È come disarmato, ridotto alle sole risorse, sia pure considerevoli, che nascono dall’uso della maschera. L’ambito vero e proprio della vertigine è altrove, come se un’intelligenza interessata avesse prudentemente dissociato i poteri dell’ilinx e quelli della mimicry. Le fiere, i parchi di divertimenti, dove invece non si usa portare la maschera, costituiscono in compenso i luoghi deputati in cui si trovano riunite le occasioni, le insidie e le attrazioni della vertigine.

Questi recinti presentano le caratteristiche essenziali dei campi da gioco. Sono separati dallo spazio circostante mediante porticati, festoni, ghirlande, rampe e insegne luminose, pertiche, vessilli, decorazioni di ogni genere, visibili da lontano e che segnano i confini di un universo consacrato. Infatti, superata quella barriera, ci si trova in un mondo curiosamente più ricco e pieno di quello della vita di tutti i giorni: una folla eccitata e rumorosa, un’orgia di colori e di luci, un pandemonio continuo, spossante, che frastorna e in cui ciascuno ama apostrofare gli altri o cerca di attirare l’attenzione su di sé, un trambusto che invita alla spensieratezza, alla confidenza, alla chiacchiera, alla sfrontatezza bonacciona. Tutto questo conferisce all’animazione generale un’atmosfera singolare. Inoltre, nel caso delle fiere, il loro carattere ciclico aggiunge alla rottura nello spazio una scansione del tempo, che contrappone un momento di parossismo al monotono svolgimento dell’esistenza quotidiana.

La fiera, il luna-park — l’abbiamo visto — appaiono come l’ambito proprio degli strumenti da vertigine, dei meccanismi di rotazione, oscillazione, sospensione, caduta, appositamente costruiti per provocare un panico viscerale. Ma tutte le categorie del gioco sono presenti nel luna-park e vi sommano le loro seduzioni. Il tiro a segno o il tiro con l’arco rappresentano i giochi di competizione e di destrezza nella loro forma più classica. I baracconi di lottatori invitano i passanti a misurare la propria forza con quella di campioni patentati, panciuti e fanfaroni. Più in là, il dilettante lancia su un pendio insidiosamente ripido nell’ultimo tratto un carrello stipato di pesi via via più numerosi e consistenti.

Dappertutto, lotterie: ruote che girano e si arrestano a indicare la decisione della sorte. In esse, la tensione dell’agon si alterna con la spasmodica attesa di un verdetto favorevole della fortuna. Fachiri, cartomanti, astrologi rivelano intanto l’ascendente delle stelle e squarciano i veli del futuro impiegando metodi inediti avallati dalla scienza più recente: la “radioestesia nucleare”, la “psicanalisi esistenziale”. Ecco appagato il gusto dell’alea e della sua anima dannata: la superstizione.

La mimicry non manca all’appuntamento: buffoni, clown, ballerine e pagliacci si esibiscono tutt’intorno per adescare il pubblico. Essi rappresentano l’attrazione del simulacro, la potenza del travestimento, di cui detengono d’altronde il monopolio: la folla, questa volta, non ha licenza di mascherarsi.

Tuttavia, è la vertigine che dà il la. Basta considerare il volume, l’importanza e la complessità dei macchinari che dispensano l’ebbrezza in sequenze regolari da tre a sei minuti. Laggiù, dei l’agoncini seguono delle rotaie disposte lungo un arco di circonferenza quasi perfetto, in modo che il veicolo, prima di raddrizzarsi, sembra precipitare in caduta libera e i passeggeri attaccati ai sedili hanno la sensazione di precipitare col treno. Più in là, i cultori di quelle emozioni sono rinchiusi in specie di gabbie che li fanno oscillare e li tengono sospesi a testa in giù a una certa altezza al di sopra della folla. In un’altra specie di aggeggi, lo scatto improvviso di molle giganti catapulta all’estremità di una pista delle navicelle che tornano lentamente a riprender posto nel meccanismo che le proietterà nuovamente fuori. Tutto è calcolato per provocare sensazioni viscerali e uno spavento, un panico fisiologico: velocità, caduta precipitosa, scosse, rotazione accelerata unita a salite e discese alternate. Un’ultima trovata utilizza la forza centrifuga. Questa, mentre il pavimento si ritrae e si abbassa di qualche metro, tiene aderenti alla parete di un gigantesco cilindro dei corpi senza appoggio, immobilizzati in svariate posizioni, tutti ugualmente attoniti. E vi restano “appiccicati come mosche”, come appunto promette la pubblicità.

Questi assalti organici vengono poi avvicendati a innumerevoli sortilegi annessi, atti a provocare smarrimento, a suscitare confusione, angoscia, nausea e qualche momentaneo brivido che tosto finisce in risa, come poco prima, all’uscita dall’infernale marchingegno, lo smarrimento fisico si trasformava immediatamente in indicibile sollievo. Questo è appunto il ruolo dei labirinti di specchi; delle esibizioni di mostri e di esseri ibridi: nani e giganti, sirene, bambini-scimmie, donne-piovra, uomini dalla pelle cosparsa di macchie scure come il mantello del leopardo. Orrore supplementare: si è invitati a toccare! Di fronte, vengono offerte le seduzioni non meno ambigue dei treni fantasma e dei castelli abitati dagli spiriti, in cui abbondano i corridoi scuri, le apparizioni, gli scheletri, gli sfioramenti di ragnatele, di ali di pipistrello, le botole, le correnti d’aria, le urla disumane e tutto l’arsenale ingenuo e puerile di terrori da paccottiglia, buoni soltanto a esacerbare un’eccitabilità compiaciuta, a far nascere un raccapriccio passeggero.

Giochi di specchi e spettri mirano allo stesso risultato: la presenza di un mondo fittizio in un voluto contrasto con la vita corrente in cui regna la rigida immutabilità delle specie e da cui i demoni sono banditi. Gli sconcertanti riflessi che moltiplicano e dissolvono l’immagine del corpo, la fauna composita, le ibride creature della favola e gli esseri mostruosi dell’incubo, gli anomali prodotti di una chirurgia maledetta e l’orrida, molle ripugnanza dei brancolamenti embrionali, il popolo delle larve e dei vampiri, quello degli automi e dei Marziani, (perché non vi è niente di strano o di inquietante che non trovi qui la sua collocazione), completano con un turbamento d’altra specie lo shock eminentemente fisico con il quale le varie montagne russe e gabbie volanti distruggono per un attimo la stabilità della percezione.

C’è bisogno di ricordarlo? Tutto resta gioco, vale a dire rimane libero, separato, circoscritto e stabilito. La vertigine, prima di tutto, quindi l’ebbrezza, il terrore, il mistero. Le sensazioni sono a volte terribilmente brutali, ma sia la durata che l’intensità dello smarrimento sono calcolate in anticipo. Per il resto, nessuno ignora che quella fantasmagoria finta è destinata più a divertirlo che a trarlo realmente in inganno. Tutto è regolato fin nei minimi particolari, e in base a una tradizione delle più conservatrici. Le stesse leccornie esposte sui banchi hanno qualcosa di antico ed eterno nel loro aspetto e nella loro qualità: torrone, lecca lecca, panpepati rotondi in cartoccetti di carta lucida decorata e ornata di lunghe frange scintillanti, maialini di panpepato che si possono fregiare sul momento del nome dell’acquirente.

Il piacere è un piacere fatto di eccitazione e di illusione, di smarrimento consentito, di cadute evitate all’ultimo momento, di urti smorzati, di innocue collisioni. L’immagine emblematica del tipico divertimento da fiera è quindi data dall’autoscontro in cui il guidatore, oltre a far mostra di tenere un volante (e bisogna vedere le facce serie, quasi solenni, di certuni), prova anche un piacere elementare, che fa parte della paidia, del parapiglia, e che è quello di inseguire le altre automobili, tamponarle di fianco, sbarrar loro la strada, provocare continuamente degli pseudo-incidenti senza guasti né vittime e fare esattamente, e fino alla nausea, tutto ciò che, nella realtà, è per lo più impedito dai regolamenti.

Inoltre, per coloro che “hanno l’età”, sull’autodromo da burletta come del resto all’interno di tutto il luna-park, in ogni “attrazione” da brivido, in ogni baraccone che promette terrore, laddove, cioè, l’effetto della velocità e il brivido della paura spingono i corpi uno vicino all’altro, incombe in modo insidioso e diffuso un’altra sottile angoscia, un’altra delizia, che deriva, questa volta, dalla ricerca del partner sessuale. Qui, si esce dal gioco propriamente detto e la fiera può essere considerata un po’ alla stessa stregua del ballo mascherato e del Carnevale, come un divertimento, cioè, che crea la stessa atmosfera propizia all’avventura desiderata. Con una sola differenza, tuttavia, ma estremamente significativa: la vertigine vi sostituisce la maschera.

Il circo

Viene spontaneo associare luna-park e circo. Quella del circo è una società a parte che ha le proprie usanze, il proprio orgoglio, le proprie leggi. Che riunisce un gruppo geloso della propria singolarità e orgoglioso del proprio isolamento. La gente del circo si sposa all’interno del gruppo. I segreti di ogni professione vengono trasmessi di padre in figlio. Le controversie vengono regolate, per quanto è possibile, senza fare appello alla giustizia “ufficiale”.

Domatori, giocolieri, cavallerizze, clown e acrobati sono sottoposti fin dall’infanzia a una disciplina rigorosa. Ciascuno bada a perfezionare i propri numeri la cui estrema, meticolosa precisione deve assicurare il successo e, all’occorrenza, garantire l’incolumità.

Questo mondo chiuso e rigoroso costituisce il lato austero della fiera. La sanzione fatale, quella della morte, vi è necessariamente presente, per il domatore come per l’acrobata; fa parte della tacita convenzione che lega attori e spettatori. Entra nelle regole di un gioco che prevede un rischio totale. Il rifiuto unanime, da parte della gente del circo, di usare reti o cavi che li preserverebbero da tragiche cadute, è alquanto eloquente. Bisogna, contro la loro ostinata volontà, che i poteri pubblici impongano la soluzione che, se protegge la loro vita, falsa però l’integrità della scommessa.

Il tendone rappresenta, per l’uomo del circo, non tanto un mestiere, quanto un modo di vita, non commensurabile, in fondo, con quello che è lo sport, il Casinò o il palcoscenico per il campione, il giocatore o l’attore professionisti. Vi si deve aggiungere una sorta di fatalità ereditaria e una rottura molto più accentuata con l’universo profano. Sotto questo profilo, la vita del circo non può assolutamente passare per un gioco. A tal punto che non vi avrei neppure accennato, se due delle sue attività tradizionali non fossero molto strettamente e significativamente legate all’ilinx e alla mimicry. alludo all’alta acrobazia e ai temi quasi fissi di certi numeri interpretati dai clown.

L’acrobazia

Lo sport fornisce il mestiere che corrisponde all’agon; un certo modo di giocare d’astuzia con la sorte fornisce il mestiere, o meglio il rifiuto di mestiere, che corrisponde all’alea; il teatro fornisce il mestiere, che corrisponde alla mimicry. Quanto all’acrobazia, essa rappresenta il mestiere che corrisponde all’ilinx. La vertigine, infatti, non vi appare solo come un ostacolo, una difficoltà o un rischio; qualcosa per cui il gioco dei trapezisti si differenzia dall’alpinismo, dal ricorso obbligato al paracadute o da quelle professioni che costringono l’operaio a lavorare a strapiombo. La vertigine vi costituisce la molla stessa di virtuosismi che non hanno altro scopo che quello di dominarla. Un gioco, a esempio, consiste espressamente nel muoversi nello spazio come se il vuoto non paralizzasse e come se non costituisse alcun pericolo.

Un’esistenza ascetica consente di ambire a questa sovrana abilità: un regime di severe privazioni e di rigorosa continenza, una ginnastica continua, la ripetizione regolare degli stessi movimenti, l’acquisizione di riflessi impeccabili e di un automatismo infallibile. I salti vengono effettuati in uno stato vicino all’ipnosi; muscoli sciolti e forti, un’olimpica padronanza di sé ne forniscono la condizione necessaria. Certo, l’acrobata deve calcolare lo slancio, il tempo e la distanza, la traiettoria del trapezio. Ma vive nel terrore di pensarvi nel momento fatidico. L’attenzione ha quasi sempre conseguenze fatali. Paralizza invece di aiutare, in un momento in cui la minima esitazione è funesta. La coscienza è omicida. Essa turba l’infallibilità ipnotica e compromette il funzionamento di un meccanismo la cui estrema precisione non consente dubbi né pentimenti. Il funambolo eseguirà bene il suo numero solo se sarà ipnotizzato dalla corda, l’acrobata, solo se sarà così sicuro di sé da osare di affidarsi alla vertigine invece di cercare di resisterle.70 La vertigine è parte integrante della natura: anche a essa non si comanda che adeguandovisi. Questi giochi, a ogni modo, avvicinandosi agli exploit dei voladores messicani, confermano e illustrano la fecondità naturale dell’ilinx dominato. Discipline aberranti, prodezze compiute in pura perdita e senza profitto alcuno, disinteressate, mortali e gratuite, esse meritano ciò nondimeno che si riconosca loro un’ammirevole testimonianza della tenacia, dell’ambizione e dell’ardire umano.

Gli dei buffoni che fanno la parodia

Innumerevoli sono le facezie dei clown. Esse derivano dal capriccio e dall’ispirazione momentanea del singolo artista. Esiste tuttavia un filone comico particolarmente tenace e ricorrente che sembra testimoniare, da parte sua, un’antichissima ed estremamente salutare preoccupazione degli uomini: quella di offrire a ogni mimica solenne la sua contropartita grottesca eseguita da un personaggio ridicolo. Al circo, questa è propriamente la parte di Augusto. I suoi abiti rattoppati, paradossali, troppo grandi o troppo piccoli, la parrucca irsuta e rossa, contrastano con i lustrini scintillanti dei clown e il loro cappello bianco a cono. Il poveraccio è incorreggibile: presuntuoso e maldestro insieme, si ostina a imitare i suoi partner e non riesce che a provocare dei disastri di cui è vittima. Fa tutto a rovescio. Si tira addosso scherzi di ogni genere, bastonate e secchi d’acqua.

Ora, sia coincidenza o ascendenza lontana, questo pagliaccio appartiene correntemente alla mitologia. Vi rappresenta l’eroe gaffeur, birbante o stupido XLII a seconda dei casi, il quale, al momento della creazione del mondo, con le sue imitazioni mancate dei gesti dei demiurghi, offusca l’opera loro e vi introduce a volte un germe di morte.

Gli Indiani Navajos del Nuovo Messico celebrano una festa il cui nome deriva da quello del dio Yebitchaï, allo scopo di ottenere la guarigione dei malati e la benedizione degli spiriti su tutta la tribù. Alcuni danzatori mascherati che personificano le divinità ne sono i principali attori; sono in numero di quattordici: sei numi tutelari maschi, sei divinità femminili, lo stesso Yebitchaï, il Dio-che-parla, e infine Tonenili, il Dio dell’Acqua. Quest’ultimo è l’Augusto della situazione. Porta la stessa maschera degli dei maschi, ma è vestito di stracci e si trascina dietro, attaccata alia cintola, una vecchia pelle di volpe. Fa apposta a ballare fuori tempo per confondere gli altri e combina una sciocchezza via l’altra. Finge di credere che la pelle di volpe sia viva e fa tutta una pantomima simulando di scoccare delle frecce nella sua direzione. E, soprattutto, scimmiotta gli atteggiamenti nobili di Yebitchaï, prendendolo in giro. Gonfia il petto, si dà arie di importanza. Ed è realmente im
portante: è una delle principali divinità dei Navajos. Ma è il dio buffone, quello che fa la parodia.

Presso gli Zuñi, che abitano la stessa regione, dieci fra gli esseri soprannaturali che vengono chiamati katcina sono considerati a parte rispetto gli altri. Sono i Koyemshis. Si tratta del figlio di un prete che commise incesto con la sorella agli albori della storia del mondo e di nove dei figli nati dall’unione proibita. Sono tutti spaventosamente brutti, di una bruttezza non meno comica che ripugnante. Inoltre, sono “come bambini”: barbuglianti, ritardati, sessualmente immaturi. Possono abbandonarsi a esibizioni oscene: “Non ha importanza,” si dice, “sono come bambini.” Ognuno di loro ha una diversa personalità da cui deriva un particolare comportamento comico, sempre lo stesso: cosi, Piläschiwanni è il codardo e finge continuamente di aver paura. Kalutsi è quello che ha sempre sete. Muyapona, fingendo d’esser persuaso della propria invisibilità, si nasconde dietro l’oggetto più minuscolo. Ha una bocca ovale, due bozze al posto delle orecchie, un altro bernoccolo sulla fronte e du
e corna. Posuki, poi, ride continuamente: ha una bocca verticale e diversi bernoccoli sulla faccia. Nabashi, invece, è triste; bocca e occhi all’ingiù e una verruca enorme al sommo del cranio. Questa banda dei dieci si presenta così come una troupe di clown perfettamente identificabili.

I maghi e i profeti che li incarnano, e si celano dietro maschere orribili e grottesche, devono sottostare a rigorosi digiuni e innumerevoli penitenze. Si ritiene quindi che coloro che accettano di essere Koyemshis si votino al bene comune. Per tutto il tempo durante il quale sono mascherati vengono temuti; chi rifiuti loro un dono o un favore rischia gravi calamità. Alla fine della festa Shalako, la più importante di tutte, l’intero villaggio fa loro numerosi regali: vivande, vesti e denaro che essi esibiscono poi solennemente. Nel corso delle cerimonie, si burlano degli altri dei, organizzano giochi a base di indovinelli, lanciano battute pesanti, fanno mille pagliacciate e si fan beffe del pubblico, rimproverando a uno la sua avarizia, commentando gli infortuni coniugali di un altro, ridicolizzando un terzo che si picca di vivere alla maniera dei Bianchi. Un comportamento rigorosamente liturgico.

Un elemento particolarmente significativo, presso gli Zuñi e i Navajos, è dato dal fatto che, si tratti degli Dei buffoni o di altre divinità, i personaggi mascherati non sono soggetti a crisi di possessione e la loro identità non è minimamente celata. Si sa benissimo che si tratta di amici e parenti mascherati. Se si rispetta e si teme in essi lo spirito che rappresentano, non li si prende mai -né essi stessi si prendono- per gli dei stessi. La teologia lo conferma. Essa racconta che un tempo le Katcina venivano personalmente presso gli uomini per dar loro prosperità, ma ne trascinavano sempre un certo numero -incantati o costretti- al Paese della Morte. Vedendo le conseguenze funeste di visite che essi avrebbero voluto benefiche, gli Dei Mascherati decisero di non venire più fisicamente presso gli uomini, ma di rendersi presenti fra loro solo in spirito. Chiesero agli Zuñi di fare delle maschere simili alle loro e promisero di calarsi in quei simulacri. A questo modo, la congiura del segreto, del mistero e del terrore, dell’estasi e della mimica, dell’ipnosi e dell’angoscia, così potente e diffusa come l’abbiamo vista in altre società, si trova qui dissociata. C’è travestimento senza possessione, e il rituale magico evolve in direzione della cerimonia e dello spettacolo. La mimicry prevale decisamente sull’ilinx invece di avere il compito subalterno di prepararla.

C’è un altro preciso particolare che sottolinea la rassomiglianza fra l’Augusto o i clown del circo e gli Dei buffoni della parodia. Viene sempre il momento in cui li si fa oggetto di una solenne annaffiata e il pubblico scoppia a ridere vedendoli tutti inzuppati e comicamente sgomenti per l’inatteso rovescio. Al solstizio d’estate, dall’alto delle terrazze, le donne Zuñi buttano dell’acqua sui Koyemshis, dopo che questi hanno visitato tutte le case del villaggio, e i Navajos offrono una spiegazione logica dei cenci a brandelli di Tonenili dicendo che sono adattissimi a chi è destinato a farsi annaffiare.71

Ci sia o no una filiazione diretta, la mitologia e il circo s’incontrano per mettere in rilievo un aspetto particolare della mimicry, la cui funzione sociale è incontestabile: la satira. Certo, in questo stesso ambito rientrano la caricatura, l’epigramma e la canzonetta, i buffoni di corte che accompagnano vincitori e monarchi con i loro lazzi. È senz’altro il caso di cogliere in questo insieme di istituzioni così diverse e così diffuse, ispirate tuttavia da un disegno identico, l’espressione di un unico bisogno di equilibrio. Un eccesso di maestà esige una contropartita grottesca. Perché il rispetto o la pietà popolari, gli omaggi dei grandi, gli onori dovuti alla suprema potestà rischiano pericolosamente di far girare la testa a chi se ne assume l’onere o si fregia della maschera di un Dio.

I fedeli non si lasciano affascinare fino in fondo, né giudicano priva di rischi la frenesia che può cogliere l’idolo inebriato della propria grandezza. In questo nuovo ruolo, la mimicry non è più il trampolino della vertigine, bensì una precauzione nei confronti di essa. Se il salto decisivo e arduo, se la porta stretta che dà adito alla civiltà e alla storia (a un progresso, a un avvenire), coincide con la sostituzione, come fondamenti della vita collettiva, delle norme dell’alea e dell’agon alle malie della mimicry e dell’ilinx, è indubbiamente opportuno cercar di capire col favore di quale fausto, misterioso e altamente incerto evento alcune società siano riuscite a spezzare il cerchio infernale stretto intorno a loro dall’alleanza simulacro-vertigine.

C’è più di una strada, certamente, che mette l’uomo al riparo dai pericoli dell’ipnosi e della malia. Abbiamo visto, a Sparta, lo stregone diventare legislatore e pedagogo, la banda mascherata degli uomini-lupo trasformarsi in polizia politica e la frenesia diventare, un bel giorno, istituzione. Qui, si vede spuntare un’altra soluzione, più feconda, più propizia allo sviluppo dell’armonia, della libertà e della creatività, orientata comunque verso l’equilibrio, il distacco, l’ironia, e non verso la ricerca di un dominio implacabile e, forse, a sua volta rovinosamente vertiginoso. A evoluzione conclusa, non è escluso che ci si accorga improvvisamente che in certi casi, che furono verosimilmente dei casi privilegiati, la prima incrinatura destinata, dopo mille vicissitudini, a far vacillare la coalizione onnipotente del simulacro e della vertigine, altro non fu che quella curiosa innovazione, quasi impercettibile, apparentemente assurda, indubbiamente sacrilega: l’introduzione, nel gruppo delle maschere divine, di personaggi di rango uguale e di pari autorità ma destinati a parodiare le loro mimiche ammaliatrici, a temperare con il riso ciò che, privo di questo antidoto, finiva fatalmente nella trance e nell’ipnosi.

SUPPLEMENTO

1. IMPORTANZA DEI GIOCHI D’AZZARDO

Anche in una civiltà di tipo industriale, fondata sul valore del lavoro, il gusto dei giochi d’azzardo rimane fortissimo, dato che essi propongono il modo esattamente opposto di guadagnare del denaro, o, secondo la formulazione di Th. Ribot, “il fascino di guadagnare tutto in una volta, senza fatica, in un attimo”. Di qui, la seduzione permanente delle lotterie, dei Casinò, dei totalizzatori sulle corse dei cavalli o sulle partite di calcio. Alla tenacia e alla fatica che fruttano’ poco (ma quel poco è sicuro), quella seduzione sostituisce il miraggio di un colpo di fortuna istantaneo, la possibilità improvvisa della ricchezza, del lusso, dell’ozio. Per la massa che fatica in modo ingrato senza aumentare di molto un benessere dei più relativi, la possibilità di vincere un terno al lotto appare come l’unico modo di uscire per sempre da una condizione frustrante o miserabile. Il gioco si fa beffe del lavoro e rappresenta uno stimolo concorrente die, quanto meno in certi casi, assume sufficiente importanza da determinare in parte lo stile di vita di un’intera società.

Queste considerazioni, se portano ad attribuire talvolta ai giochi d’azzardo una certa funzione economica o sociale, non provano tuttavia la loro fecondità culturale. Li si sospetta, piuttosto, di sviluppare la pigrizia, il fatalismo, la superstizione. Si ammette che lo studio delle loro leggi abbia contribuito a dare origine al calcolo delle probabilità, alla topologia, alla teoria dei giochi di strategia. Ma, ciò nonostante, non li si ritiene capaci di fornire il modello di una rappresentazione del mondo o di sistematizzare, sia pure alla cieca, una sorta di embrionale sapere enciclopedico. Tuttavia il fatalismo, il determinismo rigoroso, nella misura in cui negano il libero arbitrio e la responsabilità, si rappresentano l’intero universo come una gigantesca lotteria generalizzata, incessante e ineluttabile, in cui ogni vincita -inevitabile-non comporta che la possibilità, voglio dire la necessità, di partecipare all’estrazione seguente e così via, all’infinito.72 Inoltre, presso popolazioni relativamente oziose, per le quali il lavoro è comunque lungi dall’assorbire l’energia disponibile e dal costituire la base dell’esistenza quotidiana, è piuttosto frequente che i giochi d’azzardo assumano un’importanza culturale impensata che influenza anche l’arte, l’etica, l’economia e perfino la scienza.

Mi chiedo perfino se un simile fenomeno non sia caratteristico delle società intermedie che non sono più rette dalle forze abbinate della maschera e della possessione, o, se si preferisce, della pantomima e dell’estasi, e non sono ancora arrivate a una vita collettiva fondata su delle istituzioni che si basano sulla concorrenza regolata e la competizione organizzata. Succede, in particolare, che alcune popolazioni siano improvvisamente strappate al dominio del simulacro e della trance dal contatto o dal predominio di altri popoli che, da tempo, grazie a una lenta e difficile evoluzione, si sono liberati dall’ipoteca infernale. Le popolazioni che essi piegano alle nuove leggi non sono minimamente preparate ad adottarle. Il salto è troppo brusco. In questo caso, non sarà l’agon, ma l’alea, a imporre il suo stile alla società in mutamento. Abbandonarsi alla decisione della sorte è congeniale all’indolenza e all’impazienza di questi esseri i cui valori fondamentali non hanno più diritto di cittadinanza. Anzi, tramite la superstizione e le magie che assicurano la fortuna e il favore delle Potenze, questa norma indiscutibile e semplice li ricollega alle loro tradizioni e li restituisce in qualche modo al loro mondo originario.

In queste condizioni, i giochi d’azzardo vengono quindi ad assumere improvvisamente un’importanza inattesa. Laddove il clima vi sia favorevole e il bisogno di nutrirsi, vestirsi e ripararsi non obblighi come altrove i meno privilegiati a un’attività regolare, il gioco d’azzardo tende a sostituire il lavoro. Una massa fluttuante non ha esigenze troppo imperiose. Vive alla giornata. È sottoposta alla tutela di un’amministrazione cui non è chiamata a partecipare. Invece di sottostare alla disciplina di un lavoro faticoso, monotono e inviso, si dà al gioco. Quest’ultimo finisce con l’informare le credenze e il sapere, le abitudini e le ambizioni di questa gente indolente e passionale che non ha più la cura di governarsi e a cui risulta ancora estremamente difficile integrarsi a quella società così diversa dalla quale viene emarginata e lasciata vegetare a un eterno stadio infantile.

Citerò brevemente alcuni esempi di questa singolare prosperità dei giochi d’azzardo quando appunto diventano abitudine, regola e seconda natura. Essi informano lo stile di vita di un’intera popolazione perché nessuno sembra resistere al contagio. Inizierò con un caso in cui non c’è mescolanza di popolazioni e in cui la cultura presa in esame resta interamente impregnata dei valori originari. Si tratta di un gioco di dadi molto diffuso a sud del Camerun e a nord del Gabon. Si gioca con dei dadi ricavati con l’aiuto di un coltello dal seme eccezionalmente duro, dalla consistenza ossea, di un albero che fornisce un olio più pregiato dell’olio di palma (Baillonella Toxisperma Pierre, sinon. Mimusops Djave). I dadi hanno solo due facce. Su una di queste, è intagliato un simbolo la cui virtù è destinata a vincere quella degli emblemi concorrenti.

Questi disegni sono innumerevoli e svariati e costituiscono una sorta di enciclopedia per immagini. Alcuni rappresentano dei personaggi, sia irrigiditi in atteggiamento ieratico, sia colti in pieno dramma, sia dediti alle molteplici occupazioni della vita quotidiana: un bambino insegna a parlare a un pappagallo, una donna acchiappa un uccello per il suo pranzo, un uomo è attaccato da un pitone, un altro carica il fucile, tre donne lavorano la terra, ecc. Su altri dadi sono scolpiti ideogrammi che raffigurano diverse piante, gli organi genitali della donna, il cielo notturno con la luna e le stelle. Gli animali -mammiferi, uccelli, rettili, pesci e insetti- sono abbondantemente rappresentati. Un’ultima serie di intagli allude agli oggetti desiderati dal giocatore: asce, fucili, specchi, tamburi, orologi o maschere rituali.

Questi dadi istoriati sono al tempo stesso anche degli amuleti che hanno il potere di aiutare il loro proprietario a realizzare i suoi piccoli desideri. Generalmente, non vengono tenuti in casa, ma lasciati nella boscaglia in un sacchetto appeso a un albero. All’occorrenza, costituiscono elementi di messaggio e veicoli di un linguaggio convenuto.

Quanto al gioco in sé, esso è dei più semplici. Il principio su cui si regge è analogo a quello di testa o croce. Ogni giocatore rischia una posta uguale: la sorte decide tramite sette frammenti di zucca che vengono gettati con i dadi. Se i frammenti di zucca meno numerosi sono caduti dalla parte “testa”, la posta spetta ai giocatori i cui dadi sono pure caduti dalla parte “testa” (e inversamente). Questo gioco è stato oggetto di tale infatuazione che le autorità si sono viste costrette a vietarlo. Era all’origine di gravissimi disordini: i mariti davano in pegno le mogli, i capi si giocavano i gradi, le risse erano di ordinaria amministrazione e a seguito di partite troppo vivacemente disputate scoppiavano vere e proprie guerre di clan.73

Si tratta di un gioco rudimentale, senza combinazioni né riporti. Tuttavia, ci si rende facilmente conto a che punto le sue ripercussioni siano importanti nella cultura e la vita collettiva dei paesi in cui è in auge. Fatte le debite proporzioni, la ricchezza simbolica ed enciclopedica di questi intagli è paragonabile a quella dei capitelli romani. Quanto meno, assolve a una funzione analoga. Inoltre, dall’esigenza di scolpire in modo diverso le due facce di ogni dado è nata un’arte dell’intaglio che può passare per la principale espressione delle tribù locali nel campo dell’arte plastica. E non è privo di significato il fatto che ai dadi sia collegata una virtù magica che li pone in stretta connessione con le credenze e i timori dei loro possessori. Ed è soprattutto opportuno sottolineare i danni provocati dalla passione del gioco, danni che a volte sembrano aver assunto proporzioni di autentico disastro.

Tali caratteristiche non sono affatto episodiche; le ritroviamo nei giochi d’azzardo sensibilmente più complessi che, nelle società miste, esercitano un’attrazione analoga e comportano conseguenze altrettanto rovinose.

Un esempio estremamente significativo è dato dal successo della “Sciarada cinese” (Rifa Chiffà) a Cuba. Questa lotteria, “cancro incurabile dell’economia popolare”, secondo l’espressione di Lydia Cabrerà, si gioca mediante una figura di cinese suddivisa in trentasei settori, cui sono assegnati un ugual numero di simboli, esseri umani, animali o allegorie varie: il cavallo, la farfalla, il marinaio, la monaca, la tartaruga, la lumaca, il morto, il battello a vapore, la pietra preziosa (che si può interpretare come una bella donna), il gamberetto (che è anche il sesso maschile), la capra (che è anche una brutta faccenda e l’organo sessuale femminile), la scimmia, il ragno, la pipa, ecc.74 Chi tiene il banco dispone di una serie corrispondente di figurine in cartone o in legno. Ne tira, o ne fa tirare, una a sorte, l’avvolge in un pezzetto di stoffa e l’espone agli sguardi dei giocatori. L’operazione si chiama “impiccare la bestia”. Dopo di ciò, il banchiere procede alla vendita dei biglietti che recano ciascuno il carattere cinese che designa tale o talaltra figura. Intanto, degli agenti vanno in giro per le strade a raccogliere le scommesse. All’ora stabilita, si scopre la figura avvolta nella stoffa e ai vincitori spetta una cifra che è trenta volte la posta. Il banchiere concede il dieci per cento dei suoi benefici agli agenti.

Il gioco si presenta dunque come una variante più immaginosa della roulette. Ma, mentre alla roulette tutte le combinazioni sono possibili, fra i diversi numeri, i simboli della Rifa Chiffà sono invece accostati in base a certe misteriose affinità. Ogni figura possiede infatti (o non possiede) uno o più compagni e servi. Il cavallo, a esempio, ha come compagno la pietra preziosa e, come servo, il pavone; il pesce grande ha l’elefante per compagno e il ragno come servo. La farfalla non ha compagni, ma ha la tartaruga come servo. Il gamberetto ha invece il cervo per compagno ma non ha alcun servo. Il cervo ha tre compagni: il gamberetto, la capra e il ragno, ma non ha servi, e così via. Naturalmente, si consiglia di giocare contemporaneamente il simbolo, il relativo compagno e il relativo servo.

Inoltre, i trentasei emblemi della lotteria sono raggruppati in sette serie (quadrillas) disuguali: i commercianti, i dandy, gli ubriaconi, i preti, i mendicanti, i cavalieri e le donne. Anche qui, i princìpi che sono alla base della suddivisione appaiono assolutamente oscuri: la serie dei preti, ad esempio, comprende il pesce grande, la tartaruga, la pipa, l’anguilla, il gallo, la monaca e il gatto; quella degli ubriaconi comprende il morto, la lumaca, il pavone e il pesce piccolo. L’universo del gioco è retto da questa strana classificazione. All’inizio di ogni partita, dopo aver “impiccato la bestia”, il banchiere propone un indovinello (cbarada) vòlto a guidare (o a confondere) i partecipanti. Si tratta di una frase espressa in chiave sibillina del tipo della seguente: “Un uomo a cavallo procede molto lentamente. Non è stupido, ma ubriaco e, con il suo compagno, vince molti soldi.”75 Il giocatore ne arguisce allora che deve giocare la serie degli ubriaconi o quella dei cavalieri. Può anche puntare sull’animale che è predominante nell’una o nell’altra. Ma sarà senz’altro un’altra parola, meno chiaramente indicata, a dare la chiave della sciarada.

Un’altra volta, il banchiere dichiara: “Voglio favorirvi. L’Elefante uccide il Maiale. La Tigre gliel’ha suggerito. Il Cervo va a venderlo e il Cervo si porta via il pacchetto.” Un giocatore incallito spiega che basta rifletterci un po’ su: “Il Rospo è uno stregone. Il Cervo è l’assistente dello stregone e porta il pacco malefico. Questo pacco contiene l’incantesimo stregonesco che un nemico ha fatto contro qualcuno. In questo caso, la stregoneria della Tigre contro l’Elefante. Il Cervo esce con il pacco. Va a depositarlo dove gli ha detto lo stregone. Non è chiaro? Bel colpo! Si vince con il 31, il Cervo, perché il Cervo esce di corsa. “

Il gioco è di origine cinese.76 In Cina, invece della sciarada, il banchiere faceva un’allusione enigmatica ai testi tradizionali. Dopo l’estrazione, un letterato, adducendo a sostegno le debite citazioni, aveva il compito di ratificare l’esatta soluzione. A Cuba, per la corretta interpretazione della sciarada è invece necessaria la conoscenza dell’insieme delle credenze dei Neri. Il banchiere ad esempio annuncia: “Un uccello si tuffa in picchiata e se ne va.” L’allusione è trasparente: i morti volano; l’anima di un morto è paragonabile a un uccello perché può insinuarsi dove vuole sotto forma di civetta; esistono anime in pena, insoddisfatte, astiose. “Piomba sulla preda e se ne va”: vale a dire causa la morte improvvisa di qualcuno che non se l’aspettava. È quindi opportuno giocare l’8, il morto.

Il “cane che morde tutto” è la lingua che inveisce e calunnia; la “luce che tutto rischiara” è l’11, cioè il gallo che canta al levar del sole: il “re che può tutto”, il 2, la farfalla che è anche il denaro; il “clown che si dipinge in segreto” è l’8, il morto che viene coperto da un drappo bianco. Questa volta, la spiegazione è valida solo per i profani. In realtà, si tratta invece dell’iniziato (ñampe o ñañigo muertó); il prete, nel corso di una cerimonia segreta, gli traccia infatti dei segni rituali con un gesso bianco sul volto, sulle mani, il petto, le braccia e le gambe.77

Anche una complessa chiave interpretativa dei sogni aiuta a presagire il numero buono. Le combinazioni sono infinite. I dati dell’esperienza sono suddivisi fra i numeri fatidici. Questi vanno fino a 100, grazie a un libro depositato alla banca della Sciarada e che si può consultare per telefono. Questo repertorio delle corrispondenze ortodosse dà origine a un linguaggio simbolico considerato “molto utile a conoscersi per penetrare i misteri della vita”. A ogni modo, l’immagine finisce molto spesso col sostituire il numero. Presso lo zio di sua moglie, Alejo Carpentier vede un ragazzino nero che sta facendo un’addizione: 2 + 9 + 4 + 8 + 3 + 5 = 31. Il ragazzo non chiama i numeri col loro nome, ma dice: “Farfalla più elefante, più gatto, più morto, più marinaio, più monaca fanno cervo.” Allo stesso modo, per significare che 12 diviso 2 è uguale a 6, dice: “Puttana diviso per farfalla fa tartaruga.” Gli emblemi e le concordanze del gioco vengono proiettati sull’insieme del sapere.

La Sciarada cinese è molto diffusa, benché vietata dall’articolo 355 del Codice penale di Cuba. Fin dal 1879, molte proteste si sono levate contro i suoi effetti perniciosi. Sono soprattutto gli operai che vi rischiano i pochi soldi di cui dispongono e, come dice un autore, vi perdono anche il necessario per sostentare la famiglia. Ovviamente, non giocano forte, ma giocano in continuazione, perché si “impicca la bestia” fino a quattro o sei volte al giorno. Si tratta di un gioco in cui l’imbroglio è relativamente facile: dal momento che il banchiere conosce la lista delle scommesse, niente gli impedisce, con un minimo di abilità, di cambiare, al momento di scoprirlo, il simbolo sul quale le puntate si sono pericolosamente concentrate sostituendolo con un altro quasi del tutto trascurato.78

A ogni modo, onesti o disonesti, i banchieri hanno fama di arricchirsi rapidamente. Nel secolo scorso, si dice che guadagnassero fino a quarantamila pesos al giorno; uno di loro ritornò nel paese natale con un gruzzolo di duecentomila pesos d’oro. Oggi, si ritiene che esistano all’Avana cinque grosse organizzazioni di Sciarada e dodici piccole. Il giro d’affari è di più di centomila dollari al giorno.79

Nella vicina Portorico, il Planning Board ha valutato, nel 1957, le somme investite nei vari giochi di cento milioni di dollari all’anno, vale a dire la metà del bilancio dell’isola; di questi, settantacinque milioni di dollari provenivano dai giochi legalizzati (lotteria nazionale, combattimenti di galli, corse di cavalli, roulette, ecc.). Il Rapporto dichiara esplicitamente: “Quando il gioco raggiunge tali proporzioni, esso costituisce indubbiamente un grave problema sociale... Distrugge il risparmio privato, paralizza gli affari e spinge la popolazione a fare assegnamento sui guadagni aleatori invece che sul lavoro produttivo. “

Colpito da queste conclusioni, il governatore Luiz Muñoz Marin ha deciso di rafforzare la legislazione sui giochi allo scopo di ricondurli ,. nel giro di una decina d’anni, a proporzioni meno disastrose per l’economia nazionale.

In Brasile, lo Jogo do Bicho, o gioco degli animali, presenta le stesse caratteristiche della Sciarada cinese a Cuba: lotteria semi-clandestina a base di simboli e combinazioni multiple, vastissima organizzazione, scommesse quotidiane che rastrellano una parte considerevole delle scarse risorse finanziarie di cui dispongono gli strati inferiori della popolazione. Il gioco brasiliano ha inoltre il vantaggio di mettere perfettamente in luce la relazione che intercorre fra alea e superstizione. D’altra parte, esso comporta conseguenze di ordine economico di tale portata che credo sia opportuno riportare in questa sede la descrizione che ne ho data in altra occasione e con altra finalità.

Nella sua forma attuale, il gioco risale intorno al 1880. Se ne attribuisce l’origine all’abitudine del barone de Drummond di affiggere ogni settimana all’ingresso del giardino zoologico l’effigie di un qualche animale. E ogni volta, il pubblico era invitato a indovinare quale sarebbe stato l’animale prescelto. Ebbe così origine un totalizzatore che sopravvisse alla sua prima motivazione e associò durevolmente le figure degli animali affissi alla serie dei numeri. Il gioco fu ben presto riassorbito nel totalizzatore sui numeri vincenti della lotteria federale, analoga alla quiniela dei paesi vicini. I primi cento numeri furono suddivisi in gruppi di quattro e attribuiti a venticinque animali disposti press’a poco in ordine alfabetico, partendo dall’aquila (numeri dallo 01 allo 04) fino alla vacca (numeri dal 97 allo 00). Pertanto, il gioco non subì altre apprezzabili modifiche.

Le combinazioni sono infinite: si gioca l’unità, la decina, il centinaio o il migliaio, vale a dire sull’ultima, o sulle ultime due, tre o quattro cifre del numero vincente quel giorno alla lotteria. (Da quando la lotteria federale non è più quotidiana ma settimanale, gli altri giorni si gioca a una finta lotteria, assolutamente teorica, senza biglietti né premi, che serve solo a sceverare i giocatori del Bicho.) Si può inoltre giocare contemporaneamente diversi animali, vale a dire diversi gruppi di quattro numeri, e giocare ogni combinazione invertita, vale a dire scommettendo non solo sul numero stesso, ma su qualunque altro numero composto dalle stesse cifre. Ad esempio, giocare 327 invertito significa che si vince anche con il 372, 273, 237, 723 e 732. Si può facilmente immaginare come il calcolo delle vincite, sempre rigorosamente proporzionate ai rischi, non sia affare da poco. In tal modo, si è diffusa nel popolo una conoscenza approfondita delle leggi dell’aritmetica: gente che sa appena leggere e scrivere risolve con una sicurezza e una rapidità sconcertanti problemi che non mancherebbero di richiedere un’attenzione costante a un matematico poco allenato a quel tipo di operazioni.

Lo Jogo do Bicho, d’altronde, non favorisce solo la pratica della matematica corrente. Favorisce ancor di più la superstizione. Esso è infatti legato • a un sistema di oniromanzia che possiede i suoi codici, i suoi classici e i suoi interpreti qualificati. Sono i sogni che istruiscono il giocatore circa l’animale da scegliere. Tuttavia, non è detto che si debba giocare proprio l’animale che si è sognato. È consigliabile sfogliare prima un manuale adatto, una sorta di chiave dei sogni specializzata, intitolata in genere Interpretacao dos sonhos para o Jogo do Bicho. Quivi si imparano le correlazioni corrette: chi sogna una vacca volante deve giocare l’Aquila, non la Vacca; chi sogna un gatto che precipita da un tetto, deve giocare la Farfalla (perché un gatto vero non cade da un tetto); chi sogna un bastone giocherà il Cobra (che si drizza come un bastone); chi vede in sogno un cane arrabbiato giocherà il Leone (che è altrettanto animoso e indomito) ecc. A volte, il rapporto resta oscuro: chi sogna un morto, gioca l’Elefante. Succede anche che la relazione sia collegata al folklore satirico: chi ha sognato un Portoghese deve giocare l’Asino. I più scrupolosi non si accontentano di una correlazione meccanica: consultano indovini e chiromanti che, mettendo i loro poteri medianici e il Joro sapere al servizio del caso particolare che viene loro sottoposto, sono in grado di trarne oracoli infallibili.

È pure frequente il caso che si faccia a meno degli animali: il sogno fornisce direttamente il numero desiderato. Un uomo sogna un amico e gioca il suo numero di telefono; oppure, assiste a un incidente stradale: giocherà il numero della macchina capottata, quello del poliziotto che è intervenuto o una combinazione dei due numeri. Rime e ritmi non sono meno importanti dei segni del caso. A questo proposito, c’è una storiella molto significativa: un prete, dando l’assoluzione a un morente, pronuncia le parole rituali: “Gesù, Giuseppe, Maria.” Il moribondo si rizza a sedere ed esclama: “Struzzo, Caimano, Aquila”, animali del bicho la cui scansione in portoghese (Avestruz, Jacaré, Aguia) fa vagamente il verso all’altra. Si potrebbero moltiplicare gli esempi all’infinito. In linea generale, ogni specie di divinazione viene costantemente impiegata. Una domestica rovescia un vaso e l’acqua si spande a terra: essa interpreta la forma della pozza in base alla somiglianza con uno degli animali del gioco. L’abilità nell’indovinare i collegamenti validi è ritenuta un dono prezioso. Più di un Brasiliano può citare, fra i suoi conoscenti, qualche caso in cui un domestico, resosi indispensabile ai padroni per la sua abilità nel destreggiarsi in mezzo a tutte le combinazioni del bicho o grazie alla sua perizia nei presagi, ha finito col dettar legge in tutta la casa.80

Teoricamente, il gioco degli animali è vietato in tutti gli Stati del Brasile. Di fatto, vi è più o meno tollerato a seconda dell’umore o dell’interesse del governatore dello Stato e, all’interno di uno stesso Stato, a seconda dell’estro o della particolare politica dei dirigenti locali, e specialmente del capo della polizia. Comunque sia, perseguitato con mollezza o subdolamente protetto, esso conserva il sapore del frutto proibito e la sua organizzazione resta clandestina anche quando tutta questa discrezione non è minimamente giustificata dall’atteggiamento delle autorità competenti. Per di più, la coscienza popolare, che non cessa d’esserne ossessionata, sembra ciò nondimeno considerarlo come un peccato, peccato veniale, certo, analogo per esempio al fumo; comunque, pur abbandonandovisi, persiste oscuramente a considerarlo un’attività riprovevole. I politici, che spesso l’organizzano, lo strumentalizzano o ne traggono dei benefici, non mancano di vituperarlo nei loro discorsi ufficiali. L’esercito, che è spesso moralizzatore e risente molto dell’influenza di Augusto Comte e del positivismo, vede il bicho di cattivo occhio. Nel corso delle macumbas, sorta di pratiche spiritiche molto apprezzate dalla popolazione nera, come negli ambienti medianici non meno diffusi e potenti, si allontanano coloro che chiedono ai medium o ai tavolini parlanti pronostici per il bicho. Da un capo all’altro dell’universo spirituale brasiliano, la condanna è generale.

La situazione costantemente precaria del gioco degli animali, la riprovazione diffusa di cui continua a essere oggetto da parte di coloro che pur ne sono appassionati fautori, il fatto, soprattutto, che non possa essere riconosciuto ufficialmente, portano a una conseguenza che non manca generalmente di sorprendere i suoi stessi cultori: la scrupolosa onestà di coloro che raccolgono le scommesse. Nessuno di loro, si assicura, ha mai imbrogliato di un centesimo la sua clientela. Fatta eccezione per i giocatori ricchi che fanno la loro puntata per telefono, gli altri, appostati sull’angolo di una strada, fanno scivolare in mano all’agente un foglio di carta piegato contenente l’ammontare, a volte considerevole, della puntata, l’indicazione della combinazione che desiderano giocare e un nome fittizio, scelto per l’occasione. L’agente passa il foglio a un compare, questo lo trasmette a un terzo affinché, in caso d’allarme, la polizia non trovi niente di compromettente frugando l’uomo sorpreso in flagrante. La sera stessa, o l’indomani, ogni vincitore si reca al luogo convenuto e dichiara il nome di cui si è servito consegnando la posta. Subito l’agente, trasformatosi in pagatore, gli consegna con discrezione la busta che corrisponde al nome e che contiene con scrupolosa esattezza la somma dovuta al fortunato scommettitore.

Il giocatore non avrebbe alcuna possibilità di ricorso contro il bichero disonesto, se eventualmente ce ne fosse uno. Ma non ce n’è. Ci si meraviglia di questo fatto e si deve constatare con una certa ammirazione come esista maggiore onestà in questo gioco un po’ losco, in cui somme piuttosto allettanti passano continuamente di mano in mano a dei poveri diavoli, che in altri campi, in cui i Brasiliani lamentano, generalmente uria certa rilassatezza di costumi. Pure, la ragione è abbastanza chiara. Senza questa fiducia, un simile traffico non potrebbe assolutamente continuare a esistere. Basta che la reciproca fiducia sia intaccata, e tutto crolla. Laddove non siano ammissibili controlli o reclami, la buona fede non è un lusso ma una necessità.

In base alle valutazioni più modeste, dal 60 al 70% della popolazione del Brasile gioca al bicho e ognuno vi destina, al giorno, circa la centesima parte delle proprie entrate mensili, di modo che alla fine del mese, nel caso non avesse mai vinto, vi avrebbe sperperato non meno del trenta per cento del salario. E non si tratta, qui, che del giocatore medio. Per il giocatore incallito, la proporzione è largamente superata. Nei casi estremi, il giocatore consacra al gioco la quasi totalità delle sue entrate e per il resto vive da parassita o ricorre alla pura e semplice mendicità.

Non bisogna dunque meravigliarsi se, nonostante il veto legale che pesa su di esso, il gioco degli animali rappresenti un valore o una risorsa che i pubblici poteri sono portati a prendere in considerazione. Una volta, alcuni prigionieri politici rivendicarono il diritto di giocare al bicho dalla prigione in cui erano rinchiusi, e l’ottennero. Il Dipartimento di Previdenza sociale dello Stato di Sao Paulo, creato senza budget, nel 1931, funzionò per molto tempo con i soli sussidi che gli venivano devoluti dai capi locali del bicho. Queste sovvenzioni bastavano a mantenere un numeroso personale e a far fronte alle; incessanti richieste dei bisognosi. L’organizzazione del gioco è estremamente gerarchizzata: coloro che vi sono a capo realizzano guadagni enormi e, generalmente, non si fanno troppo pregare per sovvenzionare, senza distinzione di partito, quegli uomini politici da cui sperano di ottenere, in cambio, un atteggiamento “morbido” nei confronti della loro attività.

Per quanto importanti appaiano le conseguenze morali, culturali e addirittura politiche del gioco degli animali, è opportuno sottolineare soprattutto il suo significato economico. Praticamente, esso congela, facendola circolare troppo in fretta, una parte considerevole del denaro contante disponibile che viene così a mancare per lo sviluppo economico del paese o per il miglioramento del livello di vita dei suoi abitanti. Il denaro devoluto al gioco non serve ad acquistare un mobile o qualcosa di più da mangiare, impieghi, questi, che avrebbero come conseguenza quella di accelerare lo sviluppo dell’agricoltura, del commercio o dell’industria del paese. È denaro sacrificato in pura perdita, ritirato dalla circolazione generale per essere immesso in un circolo rapido e continuo a circuito chiuso, perché molto raramente i guadagni vengono sottratti a quel circolo infernale. Sono immediatamente rimessi in gioco, tranne, all’occorrenza, la parte prelevata per le spese di un’innocente bisboccia. Sono solo i profitti dei banchieri e degli organizzatori del bicho che rischiano dunque di rientrare nel circuito dell’economia generale. E, forse, non proprio nel modo più produttivo per questa. Comunque, un afflusso continuo di denaro fresco mantiene o aumenta il totale delle somme arrischiate e riduce in proporzione le possibilità di risparmio o d’investimento.81

Vediamo dunque che, in determinate condizioni, i giochi d’azzardo presentano l’importanza culturale che in genere è appannaggio particolare dei giochi di competizione. Anche nelle società in cui il merito sembra regnare in modo assoluto, le seduzioni della fortuna, come abbiamo visto, non sono per questo lettera morta. Per quanto oggetto di innumerevoli sospetti, queste attrattive mantengono tuttavia un ruolo importante, sia pure più spettacolare che realmente decisivo. Sul piano dei giochi, ad ogni modo, l’alea in concorrenza con l’agon, e spesso a esso abbinata, governa grosse manifestazioni, fa da elemento equilibratore al Tour de France contrapponendogli la Loterie nationale, costruisce Casinò come lo sport costruisce stadi, dà origine ad associazioni e club, a massonerie di iniziati e di fans, dispone di una stampa specializzata, provoca investimenti non meno importanti.

O meglio, una strana simmetria sembra affiorare: mentre lo sport è spesso oggetto di sovvenzioni governative, i giochi d’azzardo, nella misura in cui sono controllati dallo Stato, contribuiscono ad alimentare le sue casse. A volte, ne costituiscono addirittura la principale risorsa. L’alea, dunque, per quanto severamente disapprovata, umiliata, condannata, ritrova così diritto di cittadinanza nelle società più razionali e burocratiche, le più lontane dal fascino congiunto del simulacro e della vertigine. Non è difficile capirne la ragione.

Vertigine e simulacro sono, per loro natura, assolutamente nemici di ogni sorta di codificazione, ordine, organizzazione. L’alea, invece, come del resto l’agon, esige il calcolo e la regola. Ma la loro solidarietà di base non impedisce minimamente la loro concorrenza. I princìpi che essi rappresentano sono troppo esattamente opposti perché non tendano a escludersi reciprocamente. Il lavoro, l’impegno, sono ovviamente incompatibili con l’attesa passiva della sorte, così come il favore, cieco, della fortuna è incompatibile con le legittime rivendicazioni avanzate dallo sforzo e dal merito. L’abbandono del simulacro e della vertigine, della maschera e dell’estasi non ha mai significato semplicemente l’uscita da un universo incantatorio e l’accesso al mondo razionale della giustizia distributiva. Molti altri problemi restano aperti.

In un simile contesto, l’agon e l’alea rappresentano senz’altro i princìpi contraddittori e complementari del nuovo tipo di società. Tuttavia, essi sono ben lontani dall’assolvere una funzione parallela, riconosciuta indispensabile e positiva in ambedue i casi. Solo l’agon, infatti, principio della giusta concorrenza e dell’emulazione feconda, è ritenuto un valore. L’edificio sociale, nel suo insieme, poggia su di esso. Il progresso consiste nello svilupparlo e nel migliorarne le condizioni, vale a dire, in fondo, nell’eliminare sempre di più l’alea. L’alea, infatti, appare come la resistenza opposta dalla natura alla perfetta equità delle istituzioni umane auspicabili.

Ma c’è di più: la fortuna non è solo la forma manifesta dell’ingiustizia, del favore cieco e immeritato, è anche derisione del lavoro, della fatica dura e paziente, del risparmio, delle privazioni in vista del futuro; insomma, di tutte le virtù necessarie in un mondo consacrato alla produzione, all’accrescimento dei beni. Così che lo sforzo del legislatore tenderà ovviamente a restringerne la sfera d’influenza. Dei diversi princìpi del gioco, la concorrenza regolata è il solo che possa essere trasposto tel quel nell’ambito dell’azione e mostrarvisi di una qualche efficacia, se non addirittura insostituibile. Gli altri sono temuti: li si tiene sotto controllo, tutt’al più li si tollera se si mantengono entro i limiti consentiti; li si giudica invece passioni funeste, vizi, alienazioni se si diffondono nella vita normale, se cessano di assoggettarsi all’isolamento e alle regole che li neutralizzano.

Da questo punto di vista, l’alea non fa eccezione. Fin tanto che non rappresenta che la passività delle condizioni naturali, bisogna ben ammetterla, sia pure a malincuore. Se nessuno ignora che la nascita è una lotteria, è soprattutto per deprecarne le scandalose conseguenze. Tranne casi rarissimi, come l’estrazione a sorte dei magistrati nella Grecia antica o, ai nostri giorni, quella dei giurati in Corte d’Assise, non si accorda al caso la benché minima funzione istituzionale. Per le faccende serie, sembra davvero inammissibile affidarsi alla sua decisione. L’opinione generale ammette come un’evidenza assolutamente incontestabile che il lavoro, il merito, la competenza, e non il capriccio di un tratto di dadi, costituiscano le basi della giustizia necessaria e del felice sviluppo della vita collettiva. Di conseguenza, il lavoro tende a essere considerato come l’unica fonte onorevole di reddito. L’eredità stessa, conseguenza dell’alea fondamentale della nascita, è discussa, a volte abolita, per lo più sottoposta a fortissime trattenute di cui usufruisce l’intera società. Quanto al denaro vinto al gioco o alla lotteria, in linea di principio esso non deve costituire che un supplemento o un lusso che si aggiunga al salario o allo stipendio regolarmente percepito dal giocatore in retribuzione della sua attività professionale. Trarre interamente o principalmente la propria sussistenza dalla fortuna, dal caso, è visto quasi da tutti come qualcosa di sospetto e immorale, se non addirittura disonorevole e, ad ogni modo, asociale.

Questo principio è portato all’estremo dall’ideale comunista dell’amministrazione delle società. Si può discutere se, nella ripartizione delle entrate dello Stato, si debba accordare a ciascuno secondo i suoi meriti o secondo i suoi bisogni, ma è certo che non si può concedergli nulla secondo la sua nascita o la sua fortuna. Il fatto è che non bisogna farsi beffe né dell’uguaglianza né dello sforzo. Il lavoro fornito è la misura della giustizia. Ne consegue che un regime d’ispirazione socialista o comunista tende naturalmente a basarsi interamente sull’agon: a questo modo, esso aderisce ai suoi princìpi di equità astratta e, al tempo stesso, reputa di stimolare, attraverso la migliore utilizzazione possibile delle capacità e delle competenze, in modo razionale, dunque efficace, quella produzione accelerata dei beni in cui vede la sua vocazione principale, se non esclusiva. Il problema consiste allora nel sapere se l’eliminazione completa della speranza di un colpo di fortuna straordinario, pazzesco, anomalo e miracoloso, sia economicamente produttiva o se lo Stato non si privi, reprimendo questo istinto, di una fonte generosa ed insostituibile di reddito convertibile in energia.

In Brasile, dove il gioco domina incontrastato, il risparmio è debolissimo. È il paese della speculazione e del colpo di fortuna. Nell’URSS, i giochi d’azzardo sono proibiti e perseguiti a norma di legge, mentre il risparmio è caldamente incoraggiato allo scopo di consentire lo sviluppo del mercato interno. Si tratta infatti di spingere gli operai a economizzare abbastanza da poter acquistare automobili, frigoriferi, televisori e tutto ciò che incrementa lo sviluppo dell’industria. La lotteria è ritenuta immorale sotto qualunque forma, ed è tanto più significativo constatare che lo Stato, che la proibisce a livello privato, l’ha invece inserita nel meccanismo stesso del risparmio.

Esistono nella Russia sovietica circa cinquantamila Casse di Risparmio in cui il totale dei depositi tocca i cinquanta miliardi di rubli. Questi depositi fruttano il tre per cento quando non vengono ritirati dal conto per almeno sei mesi, e il due per cento in caso contrario. Ma, se il titolare del libretto di risparmio lo desidera, può rinunciare all’interesse previsto e partecipare a un’estrazione a sorte in cui, due volte all’anno, dei premi, varianti a seconda dell’ammontare delle somme depositate, apportano una ricompensa tutt’altro che equa a venticinque immeritevoli vincitori ogni mille partecipanti a questa strana e modesta reviviscenza dell’alea all’interno di un’economia concepita per escluderla. Per di più, i prestiti di Stato, che ogni salariato era stato per molto tempo praticamente costretto a sottoscrivere, comportavano dei premi la cui totalità rappresentava il due per cento del capitale disponibile così ricuperato. Per il prestito lanciato nel 1954, questi premi consistevano in vincite che andavano dai quattrocento ai cinquantamila rubli suddivisi in centomila serie di cinquanta obbligazioni ciascuna. Fra queste serie, quarantadue erano estratte a sorte e tutte le obbligazioni che le componevano vincevano un premio minimo di quattrocento rubli. Si procedeva in seguito all’estrazione dei premi più importanti, di cui ventiquattro di diecimila rubli, cinque di venticinquemila e due di cinquantamila,82 rispettivamente equivalenti, al cambio ufficiale, del resto sopravvalutato, a dei premi di uno, due e mezzo e cinque milioni di franchi.

Tale è indubbiamente la profonda seduzione dell’alea che anche i sistemi economici che, per natura, maggiormente l’aborriscono, devono ciò nondimeno concederle un posto, sia pure ristretto, camuffato e come vergognoso. L’arbitrio della sorte resta, infatti, il contrappeso necessario della competizione regolata. Questa stabilisce, senza discussione possibile, il trionfo decisivo di ogni superiorità misurabile. La prospettiva di un beneficio immeritato riconforta il vinto e gli lascia un’estrema speranza. È stato sconfitto in un combattimento leale. Non può invocare alcuna ingiustizia a sostegno del suo fallimento: le condizioni di partenza erano le stesse per tutti e non può prendersela che con la propria imperizia. Non avrebbe più niente da aspettarsi, se non gli restasse, a equilibrare la sua umiliazione, la compensazione, del resto infinitamente improbabile, di un sorriso gratuito delle capricciose potenze del destino, inaccessibili, cieche, implacabili, ma che, per fortuna, ignorano la giustizia.