Materiali
per Operatori del Benessere Immateriale
|
I giochi e gli uomini. La maschera
e la vertigine di Roger Caillois
Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A. |
Inoltre, è impossibile tenerli tutti in conciliato equilibrio. Per lo più, si escludono a vicenda. Là dove gli uni sono tenuti in grande onore, gli altri sono necessariamente denigrati. A seconda dei casi, si obbedisce al giurista o si dà retta al forsennato; ci si affida al calcolo o all'ispirazione; si apprezza la violenza o la diplomazia; si dà la preferenza al merito o all'esperienza, alla saggezza o a un qualche incontrollabile (dunque indiscutibile) sapere che si presume venga dagli Dei. Una suddivisione implicita, inesatta, incompleta, si effettua così in ogni cultura fra i valori cui è riconosciuta un'efficacia sociale e gli altri. Questi ultimi si sviluppano allora in campi secondari che vengono loro abbandonati e all'interno dei quali quello del gioco occupa un posto importante. E' quindi possibile domandarsi se la diversità delle culture, i tratti particolari che danno a ciascuna di esse la propria fisionomia originale, non siano senza rapporto con la natura di alcuni fra i giochi che vi si vedono fiorire e che altrove non godono della stessa popolarità . Inutile dire che la pretesa di definire una cultura a partire esclusivamente dai suoi giochi sarebbe un'operazione temeraria e probabilmente deviante. Ogni cultura, infatti, conosce e pratica simultaneamente un gran numero di giochi di specie diverse. Soprattutto, non è possibile determinare, senza un'analisi preliminare, quali si accordano con i valori istituzionali, li suffragano, li rafforzano, e quali, invece, li negano, se ne fanno beffe e rappresentano così, nella società presa in considerazione, delle compensazioni o delle valvole di sicurezza. Per fare un esempio, è chiaro che i giochi olimpici, nella Grecia antica, rappresentano l'ideale della polis, e contribuiscono a realizzarlo, mentre, in molti Stati moderni, le lotterie nazionali o i totalizzatori sulle corse dei cavalli vanno contro l'ideale proclamato: ciò nondimeno, essi svolgono un ruolo altrettanto significativo, forse indispensabile, precisamente nella misura in cui offrono una contropartita di natura aleatoria alle ricompense che in linea di massima solo il lavoro e il merito personale dovrebbero procurare. A ogni modo, dal momento che il gioco occupa un campo proprio il cui contenuto è variabile e a volte perfino intercambiabile con quello della vita corrente, era importante determinare prima di tutto, e il più esattamente possibile, i caratteri specifici di questa occupazione che passa per essere l'occupazione tipica del fanciullo, ma che non cessa, sotto altre forme, di attrarre l'adulto. Questa è stata la mia prima preoccupazione. Al tempo stesso, ho dovuto constatare che, nel momento in cui l'adulto si abbandona a questo preteso svago, esso non l'assorbe meno di un'attività professionale. Spesso, lo interessa di più. A volte, esige da lui un maggiore dispendio di energia, di abilità , di intelligenza o di applicazione. Questa libertà , questa intensità , il fatto che il comportamento che ne viene esaltato si sviluppa in un mondo separato, ideale, al riparo da ogni conseguenza fatale, spiegano, secondo me, la fertilità culturale dei giochi e fanno comprendere come la scelta di cui testimoniano riveli da parte sua il volto, lo stile e i valori di ogni società . Persuaso, quindi, che fra i giochi, le usanze e le istituzioni debbano necessariamente esistere stretti rapporti di compensazione o di connivenza, non mi pare estraneo a ogni congettura plausibile il ricercare se il destino stesso delle culture, la loro possibilità di riuscita o il loro rischio di stagnazione, non siano ugualmente da ascrivere alla preferenza che esse accordano a questa o quella delle categorie elementari nelle quali ho creduto di poter suddividere i giochi e che non hanno tutte una pari fecondità . In altre parole, non mi accingo solamente a una sociologia dei giochi. Penso di gettare le basi di una sociologia a partire dai giochi. PARTE SECONDA 6. TEORIA ALLARGATA DEI GIOCHI Gli atteggiamenti fondamentali che presiedono ai giochi " competizione, caso, imitazione, vertigine " non si riscontrano sempre isolatamente. Si è potuto constatare, a diverse riprese, che essi potevano mettere insieme le loro seduzioni. Molti giochi si basano perfino sulla loro capacità di associazione. Non bisogna tuttavia pensare che princìpi così nettamente caratterizzati si accordino indistintamente. Limitandoci ad associarli due alla volta, i quattro atteggiamenti fondamentali permettono in teoria sei abbinamenti ugualmente possibili, e soltanto sei. Ognuno di essi si trova abbinato successivamente con uno degli altri tre:
Naturalmente, si potrebbero prevedere delle combinazioni ternarie, ma è evidente che esse costituirebbero quasi sempre delle semplici giustapposizioni occasionali che non avrebbero alcuna influenza sul carattere dei giochi nei quali le si riscontra: così, una corsa di cavalli, tipico agon per i fantini, è contemporaneamente uno spettacolo che, come tale, rientra nel campo della mimicry e un pretesto per azzardare delle scommesse attraverso le quali la competizione si fa veicolo di alea. I tre campi, tuttavia, restano relativamente autonomi. Il principio della corsa non viene modificato per il fatto che si scommette sui cavalli. Non c'è quindi una vera connessione, ma semplice concomitanza, la quale del resto non è affatto dovuta al caso e si spiega con la natura stessa dei princìpi dei giochi. Questi non possono aggregarsi, neppure a due a due, con uguale facilità . Il loro contenuto dà ai sei abbinamenti teoricamente possibili un livello di probabilità e di efficacia alquanto diverso. In alcuni casi, la natura di questi contenuti o rende la loro unione inconcepibile in partenza, o la bandisce dall'universo del gioco. Alcuni altri accostamenti, che non sono impediti dalla natura delle cose, restano puramente accidentali. Non corrispondono a delle affinità imperative. Succede, infine, che fra le fondamentali tendenze che contrappongono fra loro le varie specie di giochi si manifestino delle solidarietà costituzionali. Improvvisamente, si palesa una complicità decisiva. Per questo, dei sei abbinamenti prevedibili, due appaiono, a un esame approfondito, contro natura, altri due semplicemente validi, e solo gli ultimi due riflettono delle complicità essenziali. E' opportuno valutare in modo più approfondito come si articoli una simile sintassi. Abbinamenti contro natura In primo luogo, è chiaro che la vertigine non può trovarsi associata alla rivalità regolata senza immediatamente snaturarla. La paralisi che l'ilinx provoca, come del resto il cieco furore che mette in moto in altri casi, costituiscono la negazione rigorosa di uno sforzo controllato. Essi distruggono le condizioni stesse che definiscono l'agon: il ricorso efficace all'abilità , alla forza, al calcolo; la padronanza di sè; il rispetto della regola; il desiderio di misurarsi ad armi pari; l'accettazione preliminare del verdetto di un arbitro; l'obbligo, riconosciuto in anticipo, di circoscrivere la contesa entro i limiti convenuti, ecc. Di tutto questo, niente più sussiste. Regola e vertigine sono decisamente incompatibili. Caso e imitazione non sembrano neanch'essi suscettibili della benchè minima complicità . Infatti, ogni astuzia, ogni contraffazione, rende vana la consultazione della sorte. Cercare di ingannare il caso non ha senso. Il giocatore chiede un responso che lo assicuri del favore incondizionato del destino. Nel momento in cui lo sollecita, non può recitare la parte di un personaggio estraneo, nè credere nè far credere di essere un altro. Del resto, nessuna imitazione, per definizione, può trarre in inganno la fatalità . L'alea presuppone un abbandono pieno e totale ai capricci della fortuna, abdicazione contraddittoria rispetto al travestimento o al sotterfugio. Altrimenti, si entra nel campo della magia: si tratta di forzare il destino. Come poco fa il principio dell'agon veniva distrutto dalla vertigine, così quello dell'alea è ora vanificato dalla mimicry e, per essere esatti, non c'è più gioco. Abbinamenti casuali In compenso, l'alea si associa senza danno alla vertigine, e la competizione alla mimicry. Nei giochi d'azzardo, è infatti noto che una particolare ebbrezza coglie sia il giocatore favorito dalla sorte, sia quello perseguitato dalla sfortuna. Essi non sentono più la stanchezza e sono a malapena consci di ciò che si svolge intorno a loro. Sono come stregati dalla pallina che sta per fermarsi su un numero o dalla carta che devono voltare. Perdono ogni controllo e a volte rischiano più di quanto non posseggano. Il folklore dei Casinò è ricco di aneddoti significativi a questo proposito. Ma ciò che importa è osservare che l'ilinx, che distruggeva l'agon, non rende, affatto impossibile l'alea. Paralizza il giocatore, lo affascina, gli fa perdere la testa, ma non lo porta minimamente a violare le regole del gioco. Si può perfino affermare che lo assoggetta maggiormente alle decisioni della sorte e lo induce ad abbandonarvisi ancor più passivamente. L'alea presuppone un'abdicazione della volontà , ed è comprensibile che questo fatto provochi o sviluppi uno stato di trance, di possessione o di ipnosi. E' in questo che si manifesta un'autentica fusione delle due tendenze. Una connivenza analoga esiste fra l'agon e la mimicry. Ho già avuto modo di sottolinearlo: ogni competizione è in se stessa uno spettacolo. Si svolge secondo regole identiche, nella stessa attesa di una conclusione. Richiama la presenza di un pubblico che si accalca alle biglietterie dello stadio o del velodromo, esattamente come fa a quelle del teatro e del cinema. Gli antagonisti vengono applauditi a ogni successo che riportano. Il loro combattimento ha le sue peripezie che corrispondono alle diverse fasi e ai diversi episodi di un dramma. E' infine il caso di ricordare a che punto il campione e il divo siano personaggi intercambiabili. Anche qui, c'è un connubio di due tendenze, perchè la mimicry non solo non nuoce al principio dell'agon, ma lo rafforza per la necessità in cui si trova ogni concorrente di non deludere un pubblico che lo acclama e al tempo stesso lo controlla. Si sente alla ribalta, è obbligato a recitare nel miglior modo possibile, vale a dire da una parte con la massima correttezza e, dall'altra, sforzandosi in ogni modo di riportare la vittoria. Abbinamenti fondamentali Restano da considerare i casi in cui si riscontra una connivenza profonda fra i princìpi dei giochi. Niente di più straordinario, a questo proposito, dell'esatta simmetria che si manifesta fra la natura dell'agon e quella dell'alea: esse sono parallele e complementari. Richiedono, l'una e l'altra, un'assoluta equità , un'uguaglianza delle probabilità matematiche tale, almeno, da avvicinarsi il più possibile a un impeccabile rigore. Ovunque, regole di mirabile precisione, criteri meticolosi, calcoli sapienti. Detto questo, la modalità di designazione del vincitore è rigorosamente opposta nelle due specie di giochi: in una, l'abbiamo già visto, il giocatore conta esclusivamente su se stesso, nell'altra, su tutto tranne che su di sè. Una messa in funzione di tutte le risorse personali fa contrasto con il deliberato rifiuto di impiegarle. Ma, fra i due poli estremi rappresentati a esempio dagli scacchi e dai dadi, dal calcio e dalla lotteria, si apre un ricco ventaglio di giochi che combinano in proporzione variabile i due atteggiamenti: i giochi di carte che non sono puramente d'azzardo, il domino, il golf e tanti altri in cui, per il giocatore, il piacere nasce dal fatto di dover trarre il miglior partito possibile da una situazione che egli non ha creato o da vicende che può dominare solo in parte. Il caso, la fortuna, rappresentano la resistenza opposta dalla natura, dal mondo esterno o dalla volontà degli dei alla forza, all'abilità o all'intelligenza del giocatore. Il gioco appare come l'immagine stessa della vita, ma come un'immagine fittizia, ideale, regolata, separata, limitata. E non può essere diversamente, perchè si tratta delle caratteristiche immutabili del gioco. Agon e alea, in questo universo, occupano l'ambito della regola. Senza regola, non ci può essere nè competizione nè gioco d'azzardo. All'altro polo, mimicry e ilinx presuppongono allo stesso modo un mondo privo di ogni regola in cui il giocatore improvvisa costantemente, affidandosi a una vivida fantasia o a un'ispirazione sovrana, qualità , ambedue, che non riconoscono alcun codice. Poco fa, nell'agon, il giocatore faceva affidamento sulla propria volontà , mentre vi rinunciava nell'alea. Ora, la mimicry presuppone, da parte di chi vi si abbandona, la consapevolezza della finzione e dell'imitazione, mentre caratteristica specifica della vertigine e dell'estasi è quella di sopprimere ogni coscienza. In altre parole, nella finzione scenica, si riscontra una sorta di sdoppiamento della coscienza dell'attore tra la propria personalità e la parte che recita; nella vertigine, invece, c'è smarrimento e panico, se non oscuramento totale della coscienza. Ma il fatto che l'imitazione, di per sè, sia generatrice di vertigine e sdoppiamento, fonte di panico, provoca una situazione fatale. Fingere di essere un altro aliena ed esalta. Portare una maschera inebria e fa sentir liberi. Così che, in questo ambito rischioso in cui ogni lucidità è sconvolta, il connubio maschera-estasi è fra tutti il più temibile. Esso provoca tali eccessi, arriva a tali parossismi che nella coscienza allucinata dell'ossesso il mondo reale viene provvisoriamente abolito. Le associazioni di alea e di agon sono un libero gioco della volontà che prende avvio dalla soddisfazione che si prova nel superare una difficoltà arbitrariamente concepita e volontariamente accettata. Il connubio mimicry-ilinx apre invece la porta a uno scatenamento irreversibile, totale, che, nelle sue forme più schiette, appare come il contrario del gioco, vale a dire come una metamorfosi indicibile delle condizioni della vita: l'epilessia così provocata, dal momento che è priva di punti di riferimento concepibili, sembra prevalere di gran lunga in autorità , importanza e intensità sul mondo reale, così come il mondo reale prevale sulle attività formali e giuridiche, protette in anticipo, costituite dai giochi sottoposti alle regole complementari dell'agon e dell'alea e che sono, essi sì, interamente contrassegnati. L'unione imitazione-vertigine è così dirompente, così fatale, da appartenere naturalmente alla sfera del sacro e da fornire, forse, una delle spinte principali di quella mescolanza di terrore e di seduzione che lo definisce. La forza di un simile sortilegio mi appare invincibile, al punto che non mi meraviglia affatto che all'uomo ci siano voluti dei millenni per liberarsi dal miraggio. Vi ha guadagnato l'accesso a quella che comunemente viene chiamata civiltà . Credo che l'avvento di quest'ultima sia la conseguenza di una scommessa press'a poco analoga dappertutto per quanto tentata in condizioni dappertutto diverse. In questa seconda parte, cercherò di ipotizzare le grandi linee di questa rivoluzione. Alla fine, e affrontando il problema da un'angolazione imprevista, cercherò di determinare come si è prodotto il divorzio, l'incrinatura che ha segretamente messo in crisi l'accordo della vertigine e dell'imitazione, accordo che quasi tutto faceva credere di una duratura stabilità . Tuttavia, prima di intraprendere l'esame della sostituzione capitale che mette il mondo del merito e del caso al posto di quello della maschera e dell'estasi, mi resta da accennare brevemente, in queste pagine preliminari, a un'altra simmetria. Abbiamo visto che l'alea si combina in modo specifico con l'agon, la mimicry con l'ilinx. Ma contemporaneamente, all'interno di questo accordo, si può osservare che uno dei componenti rappresenta ogni volta un fattore attivo e fecondo, l'altro un elemento passivo e rovinoso. La competizione e l'imitazione possono creare, e in effetti creano, forme di cultura alle quali è spesso riconosciuto un valore sia educativo che estetico. Ne derivano istituzioni stabili, prestigiose, frequenti, quasi inevitabili. Infatti, la competizione regolata altro non è che lo sport mentre l'imitazione concepita come gioco è il teatro. La ricerca della fortuna, invece, e il desiderio di vertigine, salvo rare eccezioni, non portano ad alcunchè, non creano alcun elemento capace di svilupparsi e raggiungere una qualche stabilità . Capita più spesso che diano luogo a passioni paralizzanti, devianti o rovinose. Il motivo profondo di una simile ineguaglianza non sembra difficile da individuare. Nella prima coalizione, quella che informa il mondo della regola, l'alea e l'agon esprimono degli atteggiamenti diametralmente opposti nei confronti della volontà . L'agon, desiderio di vittoria e impegno per ottenerla, implica che il campione conta sulle proprie risorse personali. Vuole trionfare, dimostrare la sua superiorità . Niente di più positivo e fecondo di una simile ambizione. L'alea, invece, appare come accettazione preliminare, incondizionata, del verdetto della sorte. Questo atteggiamento rinunciatario significa che il giocatore si affida a un tratto di dadi, che si limiterà a buttarli e leggerne il responso. La regola vuole che egli si astenga dall'agire, allo scopo di non falsare o forzare la decisione della sorte. Certo, si tratta di due modi simmetrici di assicurare un perfetto equilibrio, un'assoluta equità fra i concorrenti. Ma uno è lotta della volontà contro gli ostacoli esterni, l'altro abdicazione del volere davanti a un presunto segnale. L'emulazione è pertanto esercizio continuo e allenamento efficace per le facoltà e le virtù umane, mentre il fatalismo è fondamentale pigrizia. Il primo atteggiamento impone di sviluppare ogni eventuale superiorità personale; l'altro, di attendere muti e immobili una consacrazione o una condanna del tutto esterne. Date queste premesse, non è stupefacente che la scienza e la tecnica presenzino e premino l'agon, mentre la magia e la superstizione, lo studio dei prodigi e delle coincidenze accompagnino immancabilmente la natura problematica dell'alea.35 Nell'universo caotico della mimesi e della vertigine è possibile riscontrare un identico bipolarismo. La mimicry consiste nel rappresentare deliberatamente un personaggio, il che diventa facilmente opera d'arte, di calcolo sottile, di finezza. L'attore deve lavorare a mettere insieme la sua parte, creare l'illusione drammatica. E' costretto a essere costantemente vigile e obbligato a una continua presenza di spirito: esattamente come colui che disputa un incontro sportivo. Invece, nell'ilinx, simile in questo all'alea, c'è abdicazione della volontà e, in più, abdicazione della coscienza. Il paziente lascia andare la propria coscienza alla deriva e s'inebria al sentirla diretta, dominata, posseduta da forze estranee. Per arrivarvi, ha solo bisogno di abbandonarsi, il che non esige nè sviluppa alcun particolare talento. Allo stesso modo in cui, nei giochi d'azzardo, il pericolo consiste nel non poter limitare la posta, qui è nel non poter porre fine allo smarrimento consentito. Da questi giochi negativi, sembrerebbe almeno dover uscire una crescente capacità di resistenza a una data malia. Ma è vero proprio il contrario. Perchè questa capacità non ha senso che in rapporto alla tentazione ossessiva, di modo che è costantemente rimessa in questione e come votata per natura alla sconfitta. Non la si educa. La si esibisce fino a che non soccomba. I giochi di imitazione portano all'arte dello spettacolo; espressione e illustrazione di una cultura. La ricerca della trance e del panico assoggetta nell'uomo discernimento e volontà . Ne fa il prigioniero di estasi ambigue ed esaltanti in cui si crede un dio, di rapimenti che lo' dispensano dall'essere uomo e lo annientano. Cosi, all'interno delle due grandi coalizioni, una sola categoria di giochi è realmente creativa: la mimicry, nel connubio maschera-vertigine; l'agon, in quello della rivalità regolata-fortuna. Le altre si rivelano ben presto devastatrici in quanto manifestano una forza di eccitamento smisurata, disumana, fatale, una sorta di spaventosa e funesta attrazione, di cui bisogna neutralizzare la seduzione. Nelle società in cui regnano il simulacro e l'ipnosi, la soluzione viene a volte trovata nel momento in cui lo spettacolo prevale sulla trance, vale a dire quando la maschera dello stregone diventa maschera di teatro. Nelle società fondate sull'unione del merito e della fortuna, esiste allo stesso modo uno sforzo incessante, ma discontinuo quanto a rapidità e felicità di risultati, volto ad ampliare la parte della giustizia a detrimento di quella del caso. Questo sforzo è chiamato progresso. E' ora il momento di prendere in esame la duplice relazione (simulacro e vertigine da una parte, fortuna e merito dall'altra), nel corso delle presunte peripezie dell'avventura umana, quale l'etnografia e la storia la delineano oggi. 7. SIMULACRO E VERTIGINE La stabilità dei giochi è notevole. Gli imperi
e le istituzioni passano, i giochi restano, con le stesse regole,
a volte perfino con gli stessi accessori. Il fatto è, in primo
luogo, che non sono importanti e posseggono la permanenza dell'insignificante.
C'è, in questo, un primo mistero. Perchè, per beneficiare
di questa sorta di continuità insieme fluida e tenace,
essi devono avere molti punti in comune con le foglie degli alberi
che vivono una sola stagione e tuttavia si perpetuano sempre identiche
a se stesse; devono essere simili al pelame degli animali, al disegno
delle ali delle farfalle, alla curva delle spirali delle conchiglie
che si trasmettono, imperturbabili ed eterni, di generazione in generazione.
I giochi non godono di questa identità ereditaria. Sono
innumerevoli e mutevoli. Assumono mille forme inegualmente suddivise,
come le specie vegetali; ma, infinitamente più acclimata-bili,
essi emigrano e si adattano con una. rapidità e una facilità
ugualmente sconcertanti. Ce ne sono poc A. INTERDIPENDENZA DEI GIOCHI E DELLE CULTURE Stabilità e universalità si completano a vicenda. E appaiono tanto più significative per il fatto che i giochi sono largamente dipendenti dalle culture in cui vengono praticati. Essi ne sottolineano i gusti, ne prolungano le usanze, ne riflettono le credenze. Nell'antichità , il "gioco del mondo" è un labirinto all'interno del quale si spinge una pietra " cioè l'anima " verso l'uscita. Con l'avvento del Cristianesimo, il tracciato si allunga e si semplifica. Riproduce la pianta di una basilica: si tratta di far arrivare l'anima (di spingere il ciottolo) fino al Cielo, al Paradiso, alla Corona o alla Gloria, che coincide con l'altare maggiore della chiesa, schematicamente rappresentata sul terreno da un seguito di rettangoli. In India, si giocava agli scacchi con quattro re. Il gioco passò nell'Occidente medievale. Sotto la duplice influenza del "culto della Vergine e dell'amor cortese, uno dei re fu trasformato in Regina o in Donna, che diventò il pezzo più importante, mentre il Re si trovò confinato, nella partita, a un ruolo ideale, ma quasi passivo. L'importante, tuttavia, è che queste vicissitudini non hanno intaccato la continuità essenziale del "gioco del mondo" o del gioco degli scacchi. Si può andare oltre e rilevare d'altra parte un'autentica solidarietà fra ogni società e i giochi che vi si trovano praticati di preferenza. Esiste, infatti, un'affinità che non può che aumentare fra le regole dei giochi e le qualità e i difetti più comuni dei membri della collettività . Questi giochi preferiti e maggiormente diffusi manifestano, da una parte, le tendenze, i gusti, le abitudini mentali più comuni e, contemporaneamente, educano e allenano i giocatori in quelle stesse virtù o quegli stessi difetti, li confermano insidiosamente nelle loro abitudini o nelle loro preferenze. Di modo che un gioco che è in auge presso un popolo può, contemporaneamente, servire a definire alcune delle sue caratteristiche morali o intellettuali, fornire una prova dell'esattezza della descrizione e contribuire a renderla più vera accentuando quelle caratteristiche in coloro che a quel gioco si dedicano. Non è affatto assurdo tentare la diagnosi di una civiltà
partendo dai giochi che segnatamente vi fioriscono. Se i giochi, infatti,
sono fattori e immagini di cultura, ne consegue che, in certa misura,
una civiltà , e all'interno di una civiltà
un'epoca, può essere caratterizzata dai suoi giochi. Essi ne
rivelano necessariamente la fisionomia generale e apportano indicazioni
preziose sulle preferenze, le debolezze e le virtù di una data
società in un determinato momento della sua evoluzione.
Forse, per un'intelligenza sconfinata, per il demone immaginato da
Maxwell, il destino di Sparta era leggibile nel rigore militare dei
giochi ginnici, quello di Atene nelle aporie dei sofisti, la caduta
di Roma nei combattimenti dei gladiatori, e la decadenza di Bisanzio
nelle dispute dell'ippodromo. I giochi danno delle abitudini, creano
dei riflessi. Fanno che ci si aspetti un certo tipo di reazioni e
inducono, di conseguenza, a considerare le reazioni opposte come brutali
o subdole, provocatorie o sleali. Per fare un esempio: non è casuale che lo sport anglo-sassone per antonomasia sia il golf, vale a dire un gioco in cui ciascuno, in ogni momento, ha la libertà di barare a proprio piacimento, ma in cui il gioco stesso perde in senso stretto ogni interesse proprio a partire dal momento in cui si bara. Dopo di ciò, si può non essere sorpresi da una certa correlazione, in quegli stessi paesi, con il comportamento del contribuente nei confronti del fisco, del cittadino nei confronti dello Stato. Un esempio non meno istruttivo è dato dal gioco di carte argentino del trucco in cui tutto è astuzia, furberia e perfino, in qualche modo, imbroglio, ma imbroglio codificato, regolamentato, obbligatorio. In questo gioco, che ha preso dal poker e dalla manilleXL l'essenziale, per ogni giocatore, è far conoscere al partner le carte e le combinazioni di carte che ha in mano, senza che gli avversari ne siano informati. Per le carte, il giocatore dispone di vari giochi fisionomici:XLI una serie di mimiche facciali, smorfie, ammiccamenti appropriati, sempre gli stessi, corrispondono ciascuno a una diversa carta vincente. Questi segnali, che fanno parte della regola del gioco, devono informare l'alleato senza far capire niente all'avversario. Il buon giocatore, fulmineo e insieme cauto, sa approfittare della minima disattenzione del partito avverso: una mimica impercettibile, ed ecco il partner avvertito. Quanto alle combinazioni di carte, esse portano nomi quali ad esempio fiore: l'abilità consiste allora nell'evocare questi nomi nella mente del partner senza pronunciarli realmente, suggerendoli molto alla lontana in modo che solo questi comprenda il messaggio. Anche in questo caso, delle componenti così singolari in un gioco estremamente diffuso e per così dire nazionale non possono non suscitare, coltivare o esprimere determinate abitudini mentali che contribuiscono a trasferire nella vita normale, se non addirittura nella cosa pubblica, il loro carattere originale: il ricorso all'allusione sottile, un senso profondo della solidarietà fra compagni, una tendenza all'imbroglio, metà seria metà scherzosa, ufficialmente ammessa e bene accetta, ma a buon rendere, infine una facondia in cui è difficile individuare la parola-chiave e che porta con sè una corrispondente capacità di scoprirla. Insieme alla musica, alla calligrafia e alla pittura, i Cinesi mettono il gioco di pedine e il gioco di scacchi al livello delle quattro pratiche cui deve dedicarsi un letterato. Essi ritengono che questi giochi abituino lo spirito a provar piacere dalle molteplici rispondenze, combinazioni e sorprese che sorgono a ogni istante da situazioni continuamente nuove. L'aggressività se ne trova placata, mentre lo spirito comincia a conoscere la serenità , l'armonia, la gioia di contemplare i diversi possibili. C'è in tutto questo, senza alcun dubbio, un elemento distintivo di civiltà . Tuttavia, è chiaro che diagnosi di questo tipo devono essere espresse con una certa cautela. Conviene piuttosto procedere a una verifica più severa, a partire da altri dati, degli aspetti che sembrano più evidenti. In genere, del resto, la moltitudine e la varietà dei giochi simultaneamente in auge all'interno di una stessa cultura tolgono loro in anticipo ogni significato. Infine, succede che il gioco offra una compensazione senza importanza, uno sbocco piacevole e fittizio alle tendenze delittuose che la legge o l'opinione pubblica riprova e condanna. Contrariamente alle marionette mosse per mezzo di fili, spesso poetiche e fiabesche, i burattini a mano incarnano di solito (Hirn l'aveva già osservato)36 personaggi cinici e grevi, tendenti al grottesco e all'immoralità , se non addirittura al sacrilegio. Ne abbiamo un esempio nella storia tradizionale di Punch e Judy: Punch uccide la moglie e il figlio, rifiuta l'elemosina a un mendicante e gliele suona di santa ragione, commette quindi una sorta di delitti, uccide la morte e il diavolo e, per finire, impicca alla forca che gli era destinata il carnefice che arriva per l'esecuzione. Avremmo certamente torto nel voler riconoscere in questo crescendo sistematico un'immagine dell'ideale del pubblico britannico, che plaude a tante sciagurate prodezze. Non le approva affatto, ma quello slancio chiassoso e inoffensivo lo distende: applaudire il pupazzo scandaloso e trionfante lo compensa, con poca fatica, di mille costrizioni e tabù che la morale gli impone nella realtà . Espressione o valvola di sfogo dei valori collettivi, i giochi appaiono necessariamente legati allo stile e alla vocazione delle varie culture. La relazione è stretta o remota, il rapporto preciso o diffuso, ma inevitabile. La strada sembra quindi aperta per concepire un disegno più ampio e in apparenza più audace, ma forse meno aleatorio della semplice ricerca di correlazioni episodiche. Si può presumere che i princìpi che presiedono ai giochi e permettono di classificarli debbano far sentire la loro influenza al di fuori dell'ambito per definizione separato, regolato, fittizio, che è assegnato a questi e grazie al quale restano giochi. Il gusto della competizione, la ricerca della fortuna, il piacere dell'imitazione, l'attrazione della vertigine appaiono, certo, come le motivazioni determinanti dei giochi, ma la loro azione permea immancabilmente la vita intera delle società . Poichè i giochi sono universali ma non si gioca dappertutto agli stessi giochi nelle stesse proporzioni, e si gioca più al baseball in un posto e più agli scacchi in un altro, è forse il caso di chiedersi se i princìpi dei giochi (agott, alea, mimicry, ilinx) non siano per caso anch'essi, e al di fuori dei giochi, alquanto irregolarmente distribuiti fra le diverse società , e se delle differenze rilevate nel dosaggio di cause così generali non comportino dei contrasti apprezzabili nella vita collettiva, se non addirittura istituzionale, dei popoli. Non pretendo affatto d'insinuare che la vita collettiva dei popoli e le loro diverse istituzioni siano una sorta di giochi retti anch'essi dall'agon, l'alea, la mimicry e l'ilinx. Sostengo, al contrario, che l'ambito del gioco non costituisce in fondo che una specie di isola limitata, consacrata artificialmente a competizioni calcolate, a rischi ridotti, a finzioni senza conseguenze e a estasi addomesticate. Ma ho contemporaneamente il sospetto che i princìpi dei giochi, molle determinanti, tenaci e diffuse dell'attività umana, tanto tenaci e tanto diffuse da apparire costanti e universali, debbano segnare profondamente i diversi tipi di società . Sospetto perfino che possano servire a loro volta a classificarli, se appena le norme sociali arrivano a favorire quasi esclusivamente uno di essi a spese degli altri. C'è bisogno di aggiungerlo? Non si tratta di scoprire che in ogni società esistono degli ambiziosi, dei fatalisti, dei simulatori e dei frenetici e che ogni società offre loro probabilità disuguali di successo o di soddisfazione: questo lo si sa fin troppo. Si tratta invece di determinare lo spazio, l'importanza che le diverse società attribuiscono alla competizione, al caso, al simulacro o all'ebbrezza. Si scorgono allora gli estremi di un progetto che tende nientedimeno che a definire i meccanismi ultimi delle società , i loro postulati impliciti più diffusi e indistinti. Queste motivazioni fondamentali sono necessariamente di una natura e di una portata così ampie che denunciarne l'influenza non può aggiungere quasi niente alla descrizione dettagliata delle società prese in esame. Può al massimo proporre, per designare queste ultime, una nuova scelta di etichette e denominazioni generiche. Tuttavia, se si riconosce che la nomenclatura così adottata corrisponde a delle opposizioni capitali, essa tende per questo stesso fatto a istituire, nella classificazione delle società , una dicotomia altrettanto radicale di quella che, a esempio, separa le crittogame dalle fanerogame nel mondo delle piante, i vertebrati dagli invertebrati in quello degli animali. Fra le società che si è soliti chiamare primitive e quelle che si presentano con un'apparenza di Stati complessi ed evoluti, ci sono dei contrasti evidenti che non si esauriscono soltanto nello sviluppo, in queste ultime, della scienza, della tecnica e dell'industria, nel ruolo dell'amministrazione, della giurisprudenza o dell'archivistica, nella teoria, nell'applicazione e uso delle matematiche, nelle molteplici conseguenze della vita urbana e della costituzione di vasti imperi e in tante altre differenze i cui effetti non sono meno pesanti nè meno inestricabili. Tutto porta a credere che fra questi due tipi di vita collettiva esista un antagonismo di altro ordine, questo sì fondamentale, che è forse alla radice di tutti gli altri, che li riassume, li alimenta e li spiega. Per quanto mi riguarda, definirò questo antagonismo nel modo seguente: le società primitive, che chiamerò piuttosto società da tobu-bohu, siano esse australiane, americane, africane, sono delle società in cui regnano in ugual misura la maschera e la possessione, vale a dire la mimicry e l'ilinx; al contrario, gli Incas, gli Assiri, i Cinesi o i Romani offrono l'esempio di società ordinate, società di uffici, di carriere, di codici e tabulati, di privilegi controllati e gerarchizzati, in cui l'agon e l'alea, vale a dire, in questo caso, il merito personale e la nascita, appaiono come gli elementi fondamentali e del resto complementari del gioco sociale. Sono, in opposizione alle precedenti, società burocratiche, società basate sulla contabilità . Tutto avviene come se, nelle prime, imitazione e vertigine, o se si preferisce pantomima ed estasi, assicurassero l'intensità e, di conseguenza, la coesione della vita collettiva, mentre in quelle del secondo tipo, il contratto sociale consisterebbe in un compromesso, in un computo implicito fra l'eredità , vale a dire una sorta di caso, e la capacità , che presuppone confronto e competizione. B. LA MASCHERA E LA TRANCE Uno dei misteri principali dell'etnografia risiede palesemente nell'impiego che viene generalmente fatto delle maschere nelle società primitive. A questi strumenti di metamorfosi viene ovunque attribuita un'importanza estrema e sacrale. Essi fanno la loro apparizione nel corso della festa, interregno di rapinoso fervore e instabilità , in cui tutto ciò che al mondo c'è di stabile e ordinato viene provvisoriamente abolito per riuscirne nuovamente vivificato. Le maschere, sempre fabbricate in segreto e, dopo l'uso, distrutte o nascoste, trasformano gli officianti in Dei, in Spiriti, in Animali-Antenati e in ogni sorta di forze soprannaturali terrificanti e fecondatrici. In occasione di una gran baraonda e di uno sfrenato tumulto, che si alimentano di se stessi e traggono la loro ragion d'essere dalla loro stessa smoderatezza, l'azione delle maschere è quella che si ritiene debba rinvigorire, ringiovanire, risuscitare al tempo stesso e la natura e la società . L'irruzione di questi fantasmi è l'irrompere delle potenze che l'uomo teme e sulle quali sente di non aver presa. Egli incarna allora, temporaneamente, quelle presenze terrificanti, le mima, s'identifica con esse e, ben presto alienato, in preda al delirio, si crede realmente il dio di cui inizialmente si è sforzato di assumere l'apparenza per mezzo di un travestimento sapiente o puerile. La situazione è capovolta: è lui, adesso, che fa paura, è lui la potenza terribile e disumana. Gli è bastato mettersi sul volto la maschera che egli stesso ha preparato, indossare le vesti che ha confezionato a supposta somiglianza dell'essere riverito e temuto, riprodurne l'inconcepibile (a mente umana) voce con l'aiuto di quell'arcano strumento, il rombo, di cui solo dopo l'iniziazione ha appreso l'esistenza, l'aspetto, l'uso e la funzione. E lo sente inoffensivo, familiare, assolutamente umano, solo da quando l'ha fra le sue mani e se ne serve a sua volta per incutere terrore. E' la vittoria della finzione: la simulazione porta a una possessione che, quanto a essa, non è simulata. Dopo il delirio e la frenesia che provoca, il soggetto riemerge alla coscienza in uno stato di ebetudine e svuotamento che gli lascia solo un ricordo confuso, attonito, di ciò che è avvenuto in lui, senza di lui. Il gruppo è complice di questa sorta di epilessia, di queste convulsioni sacre. Al momento della festa, la danza, il rituale, la mimica non sono che un preambolo, un'entrata in materia. Il preludio dà avviò a un'eccitazione fatalmente destinata a salire. La vertigine si sostituisce allora all'imitazione. Come preconizza la Cabala, a giocare al fantasma, lo si diventa. Pena la morte, i bambini e le donne non devono assistere alla confezione delle maschere, dei travestimenti rituali e dei vari oggetti che vengono poi utilizzati per terrorizzarli. Ma come potrebbero non sapere che si tratta di illusione, travestimento, fantasmagoria, dietro i quali si nascondono i loro stessi familiari? E tuttavia si prestano alla finzione, perchè la regola sociale consiste nel prestarvisi. Inoltre, vi si prestano sinceramente, perchè immaginano, come del resto gli stessi officianti, che questi ultimi siano realmente trasformati, posseduti, in preda alle potenze che albergano in loro. Per potersi abbandonare a degli spiriti che esistono solo nella loro fede e per subirne improvvisamente la violenta possessione, gli interpreti devono chiamarli, suscitarli, spingersi essi stessi fino alla perdita definitiva della coscienza che permette l'insolita intrusione. A questo scopo, usano innumerevoli artifici nessuno dei quali sembra loro sospetto: digiuno, droghe, ipnosi, musica monotona o stridente, frastuono, parossismi acustici e gestuali, ubriacature, clamori e sussulti. La festa, il dilapidare i beni accumulati durante un lungo intermezzo, la sregolatezza divenuta regola, ogni norma capovolta dalla presenza contagiosa delle maschere, fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante dell'esistenza pubblica. Essa appare come il fondamento ultimo di una società per il resto poco consistente. Rafforza una coesione fragile che, squallida e di modesta portata, sussisterebbe con una qualche difficoltà se non ci fosse questa esplosione periodica che avvicina, riunisce e fa comunicare fra loro individui assorbiti, per il resto del tempo, dalle preoccupazioni domestiche e da cure quasi esclusivamente private. Queste preoccupazioni quotidiane non hanno alcuna ripercussione immediata su una società basata su princìpi rudimentali di associazione, in cui la divisione del lavoro è quasi sconosciuta e in cui, di conseguenza, ogni famiglia è abituata a provvedere al proprio sostentamento con quasi totale autonomia. Le maschere sono il vero collante sociale. Se l'irruzione di questi spettri, la trance, la frenesia che diffondono intorno, l'ebbrezza di aver paura o di far paura trovano nella festa il momento della loro piena espressione, non sono per questo assenti dalla vita comune. Le istituzioni politiche o religiose poggiano frequentemente sul prestigio creato da una cosi sconvolgente fantasmagoria. Gli iniziati sono sottoposti a severe privazioni, patiscono penose sofferenze, si sottopongono a prove crudelissime per raggiungere la dimensione onirica, l'allucinazione, lo spasimo nel quale avranno la rivelazione del loro nume tutelare. Ne ricevono una consacrazione indelebile. Possono ormai contare su di una protezione che essi stimano, e che tutt'intorno si stima, infallibile, soprannaturale, e che comporta, per il sacrilego, una paralisi insanabile. Senza dubbio, nei particolari, le credenze variano all'infinito, innumerevoli, inimmaginabili. Tuttavia, quasi tutte, a diversi livelli, presentano la stessa straordinaria complicità del simulacro e della vertigine, l'uno rimandante all'altra. Indubbiamente, dietro la diversità dei miti e dei rituali, delle leggende e delle liturgie, gioca una identica molla; una connivenza monotona, appena vi si presti attenzione, affiora inesorabilmente. Una sorprendente dimostrazione ne è fornita da quell'insieme di fatti che vanno sotto il nome di sciamanismo. E' risaputo che si designa così un fenomeno complesso, ma ben articolato e facilmente identificabile, le cui manifestazioni più significative sono state osservate in Siberia, più generalmente intorno alla calotta artica. Lo si ritrova pure lungo i fiumi del Pacifico, particolarmente nel Nord-Ovest americano, presso gli Araucani, e in Indonesia.37 Indipendentemente dalle differenze locali, esso consiste sempre in una crisi violenta, una perdita provvisoria di coscienza durante la quale lo sciamano diventa ricettacolo di uno o più spiriti. Egli compie allora un magico viaggio ultramondano che mima e racconta. A seconda dei casi, l'estasi è ottenuta per mezzo di narcotici o di un fungo allucinogeno (l'agaric),38 oppure con il canto e il moto convulso, con il tamburo, il bagno di vapore, i fumi dell'incenso o della canapa o ancora con l'ipnosi, fissando le fiamme del focolare fino alla perdita della coscienza. Lo sciamano, del resto, viene essenzialmente scelto in base alle sue predisposizioni psicopatiche. Il candidato, designato sia per eredità , sia per temperamento, sia per un qualche prodigio rivelatore, conduce una vita solitaria e selvaggia. Presso i Tungusi, lo sciamano doveva nutrirsi di animali che catturava con i denti. La rivelazione che lo consacra sciamano si verifica a seguito di una sorta di crisi epilettica che, per così dire, lo autorizza a subirne altre e ne garantisce il carattere soprannaturale. Queste crisi si presentano come dimostrazioni provocate, durante le quali si scatena, quasi su comando, quella che si è giustamente chiamata un'"isteria professionale". Riservata alle sedute, vi si manifesta di rigore. Nel corso dell'iniziazione, gli Spiriti fanno a pezzi il corpo dello sciamano, quindi lo ricostituiscono introducendovi nuove ossa e nuove viscere. Il personaggio è così pronto per il suo viaggio nell'aldilà . Mentre la sua spoglia giace inanimata, egli percorre il mondo celeste e quello sotterraneo. Incontra demoni e dei. Acquisisce, dalla loro frequentazione, i suoi poteri e la sua magica chiaroveggenza. Nel corso delle sedute, rinnova i suoi viaggi. Per quanto riguarda l'ilinx, lo stato di trance in cui cade lo sciamano arriva spesso fino all'autentica catalessi. Quanto alla mimicry, essa si manifesta nella pantomima cui si abbandona l'ossesso imitando il grido e il comportamento degli animali soprannaturali che s'incarnano in lui: striscia per terra come il serpente, ruggisce e corre a quattro zampe come la tigre, imita il tuffo dell'anatra o agita le braccia come fa l'uccello con le ali. L'abbigliamento sottolinea la trasformazione: lo sciamano utilizza raramente delle maschere animali, ma le penne e la testa d'aquila o di gufo che si mette addosso gli permettono il magico volo che lo rapisce su nel firmamento. Allora, nonostante un costume che arriva a pesare fino a quindici chili per via degli ornamenti in ferro che vi sono cuciti sopra, egli salta nell'aria per significare che vola molto in alto. Grida che vede gran parte della terra. Racconta e mima le avventure che gli capitano nell'altro mondo. Fa i gesti della lotta che deve sostenere contro gli spiriti cattivi. Sotto terra, nel regno delle Tenebre, ha cosi freddo che trema e rabbrividisce. Chiede un mantello allo Spirito di sua madre: un astante gliene getta uno. Altri spettatori traggono scintille battendo una contro l'altra delle silici: esse producono, sono i lampi che guidano il magico viandante nell'oscurità delle contrade infernali. Questa cooperazione dell'officiante e del pubblico è costante, nello sciamanismo. Ma non è un elemento peculiare di questo fenomeno. La ritroviamo anche nel Vudù e in quasi tutte le sedute estatiche. Essa è del resto quasi necessaria. Perchè bisogna proteggere gli spettatori dalle eventuali violenze dell'ossesso, proteggere lui stesso dagli effetti della sua mancanza di destrezza, dalla sua incoscienza e dal suo sacro furore, aiutarlo, infine, a far bene la sua parte. Presso i Veda di Ceylon, esiste un tipo di sciamanismo molto significativo a questo proposito. Lo sciamano, sempre sul punto di perdere coscienza, prova nausea e vertigine. Il suolo sembra sfuggirgli di sotto i piedi. L'officiante continua in uno stato di ricettività estremamente esasperata. "Questo lo porta," osservano C.G. e Brenda Seligmann, "a seguire quasi automaticamente e certo senza alcuna precisa deliberazione, le parti tradizionali della danza, nel loro ordine consacrato. Per di più, l'assistente, che segue ogni mossa del danzatore ed è pronto a sorreggerlo se cade, può contribuire in modo determinante, attraverso una suggestione conscia e inconscia, all'esecuzione corretta di figure molto complesse."39 Tutto è rappresentazione, mimesi. E tutto è anche vertigine, estasi, trance, convulsioni e, per l'officiante, perdita di coscienza e amnesia finale, perchè è opportuno che egli ignori quello che gli è successo o quello che ha urlato durante l'accesso. In Siberia, l'intenzione, lo scopo di una seduta di sciamanismo è generalmente la guarigione di un malato. Lo sciamano parte alla ricerca dell'anima dell'infermo, smarrita, sottratta o tenuta prigioniera da qualche demone. E racconta, mima le peripezie della riconquista del principio vitale rapito al legittimo possessore. Infine, glielo riporta trionfalmente. Un'altra tecnica consiste nell'estrarre il male dal corpo del paziente mediante suzione. Lo sciamano si avvicina e, in stato di trance, applica le sue labbra nel punto che gli spiriti hanno designato come la sede dell'infezione. Quindi, estrae l'umore maligno esibendo improvvisamente un ciottolo, un verme, un insetto, una piuma, un pezzetto di filo bianco o nero che mostra tutt'intorno agli astanti, e che poi maledice, allontana a suon di calci o sotterra in un buco. Succede che il pubblico si renda perfettamente conto che lo sciamano provvede, prima della cura, a nascondersi in bocca l'oggetto che poi esibirà , fingendo di averlo tratto dall'organismo del malato. Ma lo accetta, sostenendo che quegli oggetti servono unicamente a mo' di trappola, come mezzo per cogliere, per fissare il veleno. E' possibile che lo sciamano condivida questa credenza. Ad ogni modo, credulità e simulazione appaiono, in questo e altri casi, curiosamente congiunte. Alcuni sciamani eschimesi si fanno legare con delle corde allo scopo di "viaggiare" solo con lo spirito, altrimenti anche i loro corpi sarebbero, a sentir loro, rapiti in cielo e sparirebbero irreversibilmente. Lo credono realmente, o si tratta di un'astuta messa in scena per darlo a credere? Comunque sia, al termine del loro magico volo si liberano istantaneamente di tutti i lacci e senza alcun aiuto, altrettanto misteriosamente dei fratelli Davenport nel loro armadio.40 Il fatto è attestato da un etnografo serio e competente del livello di Franz Boas.41 Nello stesso ordine di idee, Bogoras ha registrato sul suo fonografo le "voci separate" degli sciamani del Nord-Est della Siberia che tacciono bruscamente, mentre si odono delle voci disumane che sembrano provenire da tutti gli angoli della tenda o salire dalle viscere della terra, o giungere da molto lontano. Contemporaneamente, si verificano fenomeni di levitazione e piogge di pietre o pezzetti di legno.42 Queste manifestazioni di ventriloquio e di illusionismo non sono rare in un ambito in cui si manifesta in pari tempo una tendenza marcata alla metapsichica e al fachirismo: dominio sul fuoco (braci ardenti tenute in bocca, ferri roventi afferrati con le mani); salita, a piedi nudi, di una scala di lame affilate; coltellate cagionanti ferite che non sanguinano o si rimarginano all'istante. Molto spesso, siamo vicini alla pura e semplice prestidigitazione.43 Non importa: l'essenziale non è dosare le parti, senz'altro estremamente variabili, della finzione premeditata e del trasporto autentico, ma accertare la stretta e come inevitabile connivenza della vertigine e della mimica, del simulacro e dell'estasi. Connivenza che, del resto, non è affatto prerogativa dello sciamanismo. La si ritrova, a esempio, nei fenomeni di possessione, originari dell'Africa e diffusi in Brasile e nelle Antille, noti con il nome di Vudù. Anche in questo caso, le tecniche per raggiungere l'estasi utilizzano i ritmi del tamburo e un dimenarsi contagioso. Sussulti e scatti indicano la dipartita dell'anima. Mutamenti di espressione e di voce, sudorazione, perdita dell'equilibrio, spasimi, deliquio e rigidità cadaverica precedono un'amnesia autentica o fittizia. Tuttavia, quale che sia la violenza dell'attacco, esso si svolge dal principio alla fine, simile in questo alla crisi dello sciamano, in base a una liturgia precisa e conforme a una mitologia preliminare. La seduta appare come una rappresentazione drammatica, gli ossessi sono in costume. Indossano gli attributi degli dei che li posseggono e imitano i loro comportamenti caratteristici. Colui nel quale si incarna il dio agreste Zaka inalbera un cappello di paglia, una bisaccia e una pipa; un altro, posseduto dal dio marino Aguè che lo "cavalca", brandisce un remo; un altro ancora, "visitato" dal dio-serpente Damballah, striscia tortuosamente per terra come un rettile. E' una regola generale, meglio confermata del resto da esperienze accertate presso altri popoli. Uno dei migliori documenti su questo aspetto del problema restano i commentari e le fotografie di Tremearne44 sul culto Bori, dell'Africa musulmana, diffuso dalla Tripolitania alla Nigeria, metà nero metà islamico, e su quasi tutti i punti vicino al Vudù, se non per la mitologia, almeno per la pratica. Lo spirito Malam al Hadgi è un saggio pellegrino. L'ossesso nel quale s'incarna finge d'essere vecchio e tremante. Muove le dita come se sgranasse con la mano destra i grani di un rosario. Legge un libro immaginario che tiene nella mano sinistra. E' curvo, arcigno, tossicchiarne. Vestito di bianco, presenzia ai matrimoni. Posseduto invece da Makada, l'officiante è nudo, coperto solo da una pelle di scimmia, cosparso di ogni sorta di immondezza e compiaciutissimo di esserlo. Saltella a pie zoppo e mima l'accoppiamento. Per liberarlo dal dio, gli si mette in bocca una cipolla o un pomodoro. Nana Ayesha Karama è causa delle malattie agli occhi e del vaiolo. Colei che la rappresenta indossa degli indumenti bianchi e rossi e porta due fazzoletti annodati insieme sulla testa. Batte le mani, corre di qua e di là , siede per terra, si gratta, si tiene la testa fra le mani, piange se non le si dà dello zucchero, balla una specie di girotondo, starnutisce 45 e scompare. In Africa, come del resto nelle Antille, il pubblico assiste il protagonista, lo incoraggia, gli porge gli accessori tradizionali della divinità che personifica, mentre l'attore crea la sua parte in base alla conoscenza che ha del carattere e della vita del suo personaggio, i ricordi che conserva delle sedute cui ha già assistito. Il suo delirio non gli permette alcuna fantasia, alcuna iniziativa: si comporta come ci si aspetta che si comporti, come sa che deve fare. Alfred Mètraux, analizzando, per il Vudù, lo svilupparsi e la natura dell'accesso, ha chiaramente dimostrato come esso comporti all'origine una volontà cosciente di subirlo da parte del soggetto, una tecnica appropriata per suscitarlo e una stilizzazione liturgica nello svolgimento. La parte svolta dalla suggestione, e perfino dalla simulazione, è indubbia; ma, per lo più, esse appaiono in qualche modo cagionate dall'impazienza del futuro posseduto e come un mezzo, per lui, di affrettare la possessione. Aumentano l'attitudine, l'inclinazione a subirla. La chiamano. La perdita di coscienza, l'esaltazione e lo smarrimento che esse provocano favoriscono la vera trance, vale a dire l'irruzione del dio. La somiglianza con la mimicry infantile è cosi evidente che l'autore non esita a concludere: "Osservando certi processi, si è tentati di paragonarli a un bambino che s'immagina di essere un Indiano, per esempio, o un animale, e che aiuta la sua fantasia utilizzando qualche indumento o qualche oggetto."46 La differenza sta nel fatto che qui la mimicry non è gioco: essa porta alla vertigine, fa parte dell'universo religioso e adempie a una funzione sociale. Ed eccoci riportati al problema generale posto dal fatto di portare una maschera. Fatto che generalmente si accompagna a esperienze di possessione, di comunione con gli antenati, gli spiriti e gli dei. Il portare una maschera provoca nel soggetto un'esaltazione passeggera e gli fa credere di subire una qualche trasformazione decisiva. In ogni caso, favorisce il libero scatenarsi degli istinti, l'invasione di forze temute e invincibili. Certo, all'inizio, il soggetto sa bene di che cosa si tratta, ma cede ben presto all'ebbrezza che lo travolge. Con la coscienza soggiogata, si abbandona totalmente allo smarrimento suscitato in lui dalla sua stessa mimesi. "L'individuo non si riconosce più," scrive Georges Buraud, "un grido disumano esce dalla sua gola, il grido della bestia o del dio, voce sovrumana, pura emanazione della forza di lotta, della passione genesiaca, degli illimitati poteri magici da cui si crede, da cui è, in quell'istante, abitato."47 E continua, evocando l'attesa trepidante delle maschere nel breve crepuscolo africano, l'ipnotico ritmo del tamtam, poi la corsa impetuosa dei fantasmi, i loro balzi giganteschi quando, issati su dei trampoli, accorrono emergendo dall'alta vegetazione in un terrificante frastuono di insoliti suoni: fischi, rantoli e ronzii di rombi. Non c'è solo una vertigine originata da una partecipazione cieca, sfrenata e gratuita, alle energie cosmiche, una folgorante epifania di divinità bestiali che fanno poi ritorno alle loro tenebre. C'è anche l'ebbrezza elementare di diffondere il terrore e l'angoscia. E, soprattutto, queste apparizioni dell'aldilà agiscono come primo ingranaggio di governo: la maschera è istituzionale. Presso i Dogon, a esempio, è stata accertata un'autentica cultura della maschera, cultura che ha permeato tutta la vita pubblica del gruppo. Ed è proprio nelle società in cui gli uomini praticano l'iniziazione e si servono di maschere particolari che li contraddistinguono che è opportuno, d'altra parte, cercare, a questo livello elementare dell'esistenza collettiva, le origini ancora fluide del potere politico. La maschera è lo strumento delle confraternite segrete. Serve a ispirare terrore ai profani e a nascondere in pari tempo l'identità degli affiliati. L'iniziazione, i riti di passaggio dall'infanzia alla pubertà , consistono solitamente nel rivelare ai novizi la natura puramente umana delle Maschere. Sotto questo profilo, l'iniziazione è insegnamento ateo, agnostico, di negazione. Svela una frode e ne rende complici gli iniziati. Fino a quel momento, gli adolescenti erano terrorizzati dalle apparizioni delle Maschere. Una di queste li insegue a colpi di frusta. Istigati dall'iniziatore, i giovani l'afferrano, la immobilizzano, la disarmano, le strappano il costume, le tolgono la maschera: riconoscono un anziano della tribù. Ormai, essi appartengono all'altro campo.48 Sono loro a far paura. Dipinti di bianco e a loro volta mascherati, terrorizzano i non-iniziati incarnando gli spiriti dei morti, brutalizzano e depredano quelli che agguantano o che giudicano in colpa. Spesso, restano costituiti in confraternite semiclandestine o subiscono una seconda iniziazione che ve li affilia. Come la prima, anche questa iniziazione è accompagnata da sevizie, da prove molto dolorose, a volte da una catalessi reale o simulata, da un simulacro di morte e resurrezione. E, come la prima, rivela che i pretesi spiriti altro non sono che uomini mascherati e che le loro voci cavernose sono tali perchè escono da rombi particolarmente potenti. Come la prima, infine, anche questa seconda iniziazione dà il privilegio di esercitare ogni sorta di angherie e soprusi sulla massa dei profani. Ogni società segreta possiede un feticcio particolare che la contraddistingue e una maschera protettrice. Ogni membro di una confraternita inferiore crede che la maschera protettrice della società superiore sia un essere soprannaturale, mentre conosce molto bene la natura di quella che protegge la sua.49 Presso i Betchuana, c'è un gruppo di questo tipo che si chiama mopato o mistero, dal nome della capanna di iniziazione. Esso raggruppa un certo numero di giovani turbolenti, emancipati dalle normali credenze e dai tabù comunemente praticati: le azioni comminatorie e brutali degli affiliati mirano a rafforzare il terrore superstizioso delle loro vittime. A questo modo, il connubio vertiginoso della mimesi e della trance degenera a volte in una mescolanza perfettamente consapevole d'intimidazione e d'inganno. Ed è proprio da questo connubio che deriva un genere particolare di potere politico.50 Ovviamente, questi gruppi vanno incontro a destini diversi. Può capitare che si specializzino nella celebrazione di un rito magico, danza sacra o mistero, ma li si vede anche investiti della repressione degli adulteri, dei piccoli furti, della magia nera e degli avvelenamenti. Nella Sierra Leone, si conosce l'esistenza di una società di guerrieri,51 composta di sezioni locali, che emette le sentenze e le fa eseguire. Organizza spedizioni punitive contro i villaggi ribelli, interviene per mantenere la pace e impedisce le vendette. Presso i Bambara, il komo, "che tutto sa e tutto punisce", sorta di prefigurazione africana del Ku-klux-klan, fa regnare un terrore incessante. Le confraternite di uomini mascherati mantengono così la disciplina sociale, di modo che si può affermare senza esagerazione che simulacro e vertigine, o quanto meno i loro derivati immediati, la mimica terrificante e il panico superstizioso, appaiono di nuovo, non già come elementi casuali della cultura primitiva, ma veramente come motivazioni fondamentali che possono meglio servire a spiegarne il meccanismo. Come comprendere altrimenti che la maschera e il panico siano, come abbiamo visto, costantemente presenti, e compresenti, inestricabilmente appaiati e occupanti un posto di rilievo o nelle feste, momenti parossistici di quelle società , o nelle loro pratiche magico-religiose o nelle forme ancora vaghe del loro apparato politico, quando addirittura non svolgano una funzione di primo piano in tutti e tre questi settori contemporaneamente ? E' sufficiente, tutto questo, per sostenere che il passaggio alla civiltà propriamente detta implichi l'eliminazione progressiva di questo primato dell'ilinx e della mimicry congiunte e la sua sostituzione con la preminenza, nei rapporti sociali, della coppia agon-alea, competizione e caso? Comunque, causa o conseguenza che sia, ogni volta che una grande cultura riesce a emergere dal caos originale, si riscontra una sensibile regressione delle forze di simulacro e vertigine. Esse vengono allora svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti, se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate nell'ambito limitato e regolato dei giochi e della fantasia, in cui esse apportano all'uomo le stesse eterne gratificazioni, ma regolamentate, represse, e vòlte ormai solo a distrarlo dalla sua noia o riposarlo dalla sua fatica, senza più follia nè delirio. 8. COMPETIZIONE E CASO Il portare una maschera permette, nelle società da tohu-bohu, di incarnare (e di sentire incarnati) le forze e gli spiriti, le energie e gli dei. Questo fatto caratterizza un tipo originale di cultura, fondato, come abbiamo visto, sulla potente alleanza della pantomima e dell'estasi. Diffuso sull'intera superficie del pianeta, esso appare come una finta soluzione, ineluttabile e affascinante, prima del lento, faticoso e paziente progredire decisivo. L'uscita da questo inganno altro non è che la nascita stessa della civiltà . Non c'è dubbio: una rivoluzione di questa portata non si compie in un giorno. Inoltre, poichè essa è ogni volta necessariamente situata nei secoli intermedi che aprono a una cultura l'accesso della storia, solo le ultime fasi ne risultano accessibili. I più antichi documenti che ne testimoniano non possono assolutamente menzionare le prime scelte che, oscure, forse casuali, senza portata immediata, sono ciò nonostante quelle che hanno spinto alcuni popoli verso un'avventura decisiva. Tuttavia, la differenza fra il loro stato iniziale, che sismo costretti a immaginare in base al modo di vita generale dell'uomo primitivo, e il punto d'arrivo, che possiamo ricostruire dai loro monumenti, non è l'unico argomento atto a convincere che il loro progresso fu reso possibile solo da una lunga lotta contro le seduzioni associate del simulacro e della vertigine. Dell'antica virulenza di questo connubio non mancano certo le tracce. E della lotta stessa contro la loro fascinazione sussistono a volte indizi rivelatori. Gli inebrianti vapori della canapa erano utilizzati dagli- Sciti e dai Persiani per provocare l'estasi: così, non è privo di significato che lo Yasht 19-20 affermi che Ahura Mazda è "senza trance nè canapa". Allo stesso modo, troviamo ripetutamente confermata, in India, la credenza nel volo magico, ma l'importante è che ci sia un passaggio del Mahabharata (V. 160, 55 segg.) che afferma: "Anche noi possiamo volare in cielo e manifestarci sotto diversi aspetti, ma attraverso l'illusione." L'autentica ascesi mistica si trova così nettamente distinta dalle varie passeggiate celesti e dalle pretese metamorfosi degli stregoni. E' noto tutto ciò che l'ascesi e, soprattutto, le formule e le metafore dello Yoga devono alle tecniche e alla mitologia degli sciamani: l'analogia è così stretta, così conseguente, che ha spesso fatto credere a una filiazione diretta. Resta tuttavia il fatto che lo Yoga è, come ognuno sottolinea, una interiorizzazione, una trasposizione sul piano spirituale dei poteri dell'estasi. Ma non si tratta più della conquista illusoria degli spazi del mondo; si tratta bensì di liberarsi dall'illusione costituita dal mondo. C'è, essenzialmente, una totale inversione di tendenza. Lo scopo, ormai, non è più quello di esasperare il panico della coscienza per divenire preda compiacente di ogni convulsione nervosa; è, al contrario, un esercizio metodico, una scuola di padronanza di sè. Nel Tibet, in Cina, le esperienze degli sciamani hanno lasciato innumerevoli tracce. I lama camandano all'atmosfera, ascendono al cielo, eseguono danze magiche, vestiti di "sette paramenti d'osso", impiegano un linguaggio inintelligibile, fitto di onomatopee. Taoisti e alchimisti quali Liu-An e Li Sciao Kun volano nell'aere. Altri raggiungono le porte del cielo, scostano le comete o s'inerpicano sull'arcobaleno. Ma questa scabrosa eredità non può impedire lo sviluppo della riflessione critica. Wang Ch'ung denuncia il carattere menzognero delle parole che i morti emettono per bocca di quei vivi che fanno cadere in trance o di quegli stregoni che li evocano "pizzicando le loro nere corde". Fin dall'antichità , il Kwoh Yù racconta che il re Sciao (515-488 a.C.) interroga il suo ministro in questi termini: "Le scritture della dinastia Tcheu affermano che Tchung-Li è stato inviato come messaggero nelle regioni inaccessibili del Cielo e della Terra. Come è stata possibile una simile impresa? Esistono delle possibilità , per gli uomini, di sabre in Cielo?" Il ministro gli spiega allora il significato spirituale del fenomeno. Il giusto, colui che sa concentrarsi, riesce ad arrivare a un tipo superiore di conoscenza. Egli accede alle alte sfere e scende quindi alle sfere inferiori per discernervi "la condotta da osservare, le cose da adempiere". In veste di funzionario, dice il testo, egli è incaricato allora di badare all'ordine di precedenza degli dei, ai sacrifici, agli accessori, ai costumi religiosi più adeguati a seconda delle stagioni.52 Lo sciamano, questo posseduto, quest'uomo d'estasi e di vertigine trasformato in funzionario, in mandarino, in maestro di cerimonie, preoccupato del protocollo e della corretta distribuzione di onori e privilegi... quale dimostrazione quasi eccessiva e caricaturale della rivoluzione avvenuta! A. TRANSIZIONE Se esistono soltanto alcuni riferimenti isolati per indicare come in India, in Persia e in Cina, le tecniche della vertigine si siano evolute in direzione del controllo e del metodo, documenti più numerosi ed espliciti consentono altrove di seguire più da vicino le varie tappe di questa radicale metamorfosi. Così, nel mondo indo-europeo, il contrasto fra i due sistemi resta a lungo evidente nell'opposizione delle due forme di sovranità che gli studi di G. Dumèzil hanno messo in luce. Da un lato, il Legista, dio sovrano che presiede al rispetto del contratto, giusto, ponderato, scrupoloso, conservatore, garante severo e automatico della norma, del diritto, della regola, la cui azione è legata alle forme necessariamente leali e convenzionali dell'agon, sia nella lizza, in combattimento singolo ad armi pari, che in tribunale, attraverso l'applicazione imparziale della legge; dall'altro, il Frenetico, anch'egli dio sovrano, ma ispirato e tremendo, imprevedibile e paralizzante, rapito in estasi, mago potente, maestro di prodigi e metamorfosi, spesso capo e garante di una schiera di maschere scatenate. L'antagonismo fra questi due aspetti del potere, quello amministrativo e quello folgorante, sembra essersi prolungato nel tempo con alterne vicende. Nel mondo germanico, a esempio, il dio vertiginoso e frenetico resta a lungo il preferito. Odino, il cui nome per Adam de Brème è l'equivalente di furor, per la parte essenziale della sua mitologia è un perfetto sciamano. Ha un cavallo con otto zampe, un'autentica cavalcatura da sciamano, che è stato visto fino in Siberia. Si trasforma in ogni sorta di animale, si porta istantaneamente in ogni luogo, è informato di tutto da due corvi soprannaturali, Hugin e Munin. Resta nove giorni e nove notti sospeso a un albero per ottenerne la conoscenza di un linguaggio arcano, da iniziati: le rune. Fonda la negromanzia, interroga la testa mummificata di Mimir. Per di più, pratica (e comunque glielo rimproverano) la seidhr, che è un'autentica seduta sciamanica, con musica ipnotica, costume rituale (mantello blu, berretto di agnellino nero, pelli di gatti bianchi, bastone, cuscino di piume di gallina), viaggi nell'ultramondano, coro, trance, estasi e profezia. Allo stesso modo, i berserkers, che si trasformano in belve feroci, si ricollegano direttamente alle società tobu-bohu.53 Al contrario, nella Grecia antica, se il punto di partenza è lo stesso, la rapidità e la inequivocabilità dell'evoluzione, ampiamente accertabili grazie alla relativa abbondanza dei documenti, sottolineano un successo di tale ampiezza e repentinità da essere qualificato come un miracolo. Occorre tuttavia ricordare che questa parola acquista un significato accettabile solo se si tiene presente che i risultati ottenuti, vale a dire le cerimonie e i templi, il gusto dell'ordine, dell'armonia, della misura, l'idea della logica e della scienza, emergono da un profondo leggendario abitato da confraternite magiche di danzatori e di fabbri, Ciclopi e Cureti, Cabiri, Dattili o Coribanti, bande turbolente di maschere terrificanti, metà dei e metà bestie, nelle quali, come a esempio nei Centauri, si è da tempo riconosciuto l'equivalente delle società iniziatiche africane. Gli efebi spartani si dedicavano alla licantropia, esattamente come gli uomini-pantera e gli uomini-tigre dell'Africa equatoriale. 54 Diano o no la caccia agli Iloti, è certo che questi giovani conducono una vita solitaria e ferina. Non devono essere visti nè sorpresi. Non si tratta in alcun modo di una sorta di preparazione militare: un addestramento di questo tipo non si accorda affatto con il modo di combattere degli opliti. Il giovane vive da lupo e attacca come un lupo: solitario, all'improvviso, con un balzo da bestia selvaggia. Saccheggia e uccide impunemente, fin tanto che le sue vittime non riescono a ghermirlo. La prova comporta i rischi e i vantaggi di una iniziazione. Il neofita acquisisce il potere e il diritto di comportarsi da lupo; è divorato da un lupo e rinasce lupo; rischia d'essere fatto a pezzi dai lupi e si pone come colui che fa a pezzi gli uomini. Sul monte Liceo, in Arcadia, dove Giove è a capo di una banda di licantropi, colui che mangia la carne di un fanciullo, mescolata con altre carni, si trasforma in lupo, oppure l'iniziato attraversa a nuoto uno stagno e si ritrova lupo per nove anni nel luogo deserto cui approda. Licurgo d'Arcadia, il cui nome significa "Colui che fa il lupo", insegue il giovane Dioniso minacciandolo con un arnese misterioso, emettendo spaventosi ruggiti e facendo udire il suono di un "tamburo sotterraneo, tuono profondamente angoscioso", come dice Strabone. Non è difficile riconoscervi il suono agghiacciante del rombo, strumento universale delle Maschere. Non mancano ragioni per ricollegare il Licurgo spartano al Licurgo d'Arcadia; fra il VI e il IV secolo, l'apparizione soprannaturale che provocava il panico diventa il legislatore per eccellenza: lo stregone che presiedeva all'iniziazione, si ritrova pedagogo. Allo stesso modo, gli uomini-lupo di Sparta non sono più belve possedute dal dio, esseri che vivono in modo feroce e disumano all'epoca della loro pubertà : costituiscono ormai una sorta di polizia politica, incaricata di spedizioni punitive allo scopo di mantenere nel timore e nell'obbedienza i popoli sottomessi. L'antica crisi d'estasi è freddamente utilizzata a fini repressivi e intimidatori. Metamorfosi e trance non sono più che ricordi. La ϰÏÏ Ï€Ïεία resta indubbiamente segreta: ciò nonostante è uno dei normali ingranaggi di una repubblica militare le cui rigide istituzioni mettono sapientemente insieme democrazia e dispotismo. La minoranza dei conquistatori, che ha già adottato per sè leggi di altro tipo, continua a usare le antiche ricette nei confronti delle masse asservite. L'evoluzione è sorprendente e significativa. E non si riferisce soltanto a un caso particolare. Nello stesso periodo, un po' dovunque in Grecia, i culti orgiastici ricorrono ancora alla danza, al ritmo, all'ebbrezza per provocare nei loro adepti l'estasi, l'insensibilità e la possessione da parte del dio. Ma quelle vertigini, quei simulacri, sono ormai vinti. Non costituiscono assolutamente più i valori principali della polis. Perpetuano un mondo remoto. Ci si limita a rievocare discese agli Inferi e spedizioni celesti effettuate in ispirito, mentre il corpo del viaggiatore resta immobile sul suo giaciglio. L'anima di Aristeo di Proconneso fu "rapita" dal dio e accompagnò Apollo sotto forma di un corvo. Ermotimo di Clazomene poteva abbandonare il proprio corpo per interi anni, nel corso dei quali andava errando per acquisire la conoscenza del futuro. Il digiuno e l'estasi avevano procurato a Epimenide di Creta, nella divina caverna del monte Ida, un certo numero di poteri magici. Abaris, guaritore e profeta, vagava nell'aere cavalcando una freccia d'oro. Ma le più tenaci e le più diffuse fra queste leggende manifestano già un orientamento opposto al loro significato originario. Orfeo non riconduce fra i vivi la sposa morta che era sceso a cercare agli Inferi: si comincia a sapere che la morte non perdona e che non c'è magia che possa averne ragione. In Platone, il viaggio estatico di Erilo Panfilio non è più un'odissea da sciamano, ricca di drammatiche peripezie, ma l'allegoria cui ricorre un filosofo per esporre le leggi del Cosmo e del Destino. Il tramonto della maschera, da una parte come veicolo della metamorfosi che conduce all'estasi, dall'altra come strumento di potere politico appare, anch'esso, lento, discontinuo, difficile. La maschera era il segno per eccellenza della superiorità . Nelle società primitive, tutto consiste nell'essere mascherato e far paura o nel non esserlo e aver paura. In un'organizzazione più complessa, la questione è quella di dover temere gli uni e poter spaventare gli altri, in base al grado di iniziazione. Passare a un grado superiore, significa essere edotti sul mistero di una maschera più arcana; sapere, cioè, che la terrificante apparizione soprannaturale non è tale ma è solo un uomo mascherato, così come ci si maschera per terrorizzare a nostra volta i profani o gli iniziati di grado inferiore. Esiste certamente un problema della decadenza della maschera. Come e perchè gli uomini sono giunti a rinunciarvi? La questione non sembra aver preoccupato eccessivamente gli etnografi. Tuttavia, essa è di estrema importanza. Arrischio l'ipotesi seguente. Essa non esclude affatto, anzi presuppone l'esistenza di processi multipli, diversi, incompatibili, corrispondenti a ogni cultura e a ogni situazione particolare. Ma ne propone la scaturigine comune. Il sistema dell'iniziazione e della maschera funziona solo se vi è coincidenza precisa e costante fra la rivelazione del segreto della maschera e il diritto di valersene a propria volta per accedere alla trance divinizzante e terrorizzare' i novizi. Conoscenza e impiego sono così strettamente collegati. Solo colui che conosce la vera natura della maschera e del mascherato può assumere la parvenza terrorizzante. Soprattutto non è possibile subirne l'ascendente, o per lo meno subirlo allo stesso grado, con la stessa emozione di sacro terrore, se si è consapevoli che si tratta di un semplice travestimento. Ora, non è praticamente possibile ignorare questo fatto, e a ogni modo ignorarlo a lungo. Di qui, un'incrinatura, una crepa permanente nel sistema, che dev'essere difeso dalla curiosità dei profani attraverso tutta una serie di interdetti e punizioni, queste ultime delle più realistiche. Ad esempio: la morte, unica espiazione efficace nei confronti di un segreto violato. Ne consegue che nonostante la prova, tutta interiore, fornita dall'estasi e dalla possessione, il meccanismo resta alquanto fragile. Bisogna continuamente proteggerlo dalle scoperte casuali, dalle domande indiscrete, dalle ipotesi o dalle spiegazioni sacrileghe. E' quindi inevitabile che, poco a poco, il fatto di fabbricare e indossare una maschera o un travestimento in genere, anche se non perde il suo carattere sacrale, non è più protetto da interdetti inesorabili e capitali. Attraverso una serie di trasformazioni insensibili, maschere e travestimenti diventano ornamenti liturgici, accessori del cerimoniale, della danza o del teatro. L'ultimo tentativo di dominio politico basato sulla maschera è forse quello di Hakim al-Moqannà, il Profeta Velato del Khorassan, il quale, nell'VIII secolo, per diversi anni, dal 160 al 163 dell'Egira, mise in difficoltà gli eserciti del Califfo. Egli portava sul volto un velo di color verde; secondo alcuni, invece, si era fatto fare una maschera d'oro che non toglieva mai. Sosteneva di essere un dio e affermava di coprirsi il volto perchè nessun mortale avrebbe potuto mirarlo senza diventare cieco. Ma proprio queste sue pretese furono aspramente contestate dagli avversari. Gli storiografi " d'accordo, erano tutti storici dei Califfi " scrivono che egli agiva a quel modo perchè era calvo, guercio e di una bruttezza ripugnante. I suoi discepoli gli intimarono allora di dimostrare che diceva la verità e pretesero di vedere il suo volto. Egli lo mostrò. Alcuni furono effettivamente ustionati, altri furono persuasi. Ora, la storia ufficiale spiega il miracolo, scopre (o inventa) lo stratagemma. Ecco il racconto dell'episodio, quale si trova in uno dei documenti più antichi, la Descrizione topografica e storica di Bukhara scritta da Abu-Bak Mohammad ibn Dja'far Narshakhì, terminata nel 332:56 "Cinquantamila soldati di Maqanná si radunarono alla porta del castello, si prosternarono e chiesero di vederlo. Non ricevettero risposta. Insistettero, implorarono dicendo che non si sarebbero mossi di là finchè non avessero visto il volto del loro Dio. Moqanná aveva un servo chiamato Hadjeb. Gli disse: "Va' e di' alle mie creature: Mosè mi ha chiesto di lasciargli vedere il mio volto; ma io non ho accettato di mostrarmi a lui, perchè egli non avrebbe potuto sopportare la mia vista " e se qualcuno mi vede, morrà all'istante.' Ma i soldati continuarono ad implorare. Allora Moqanná disse loro: "Venite il tal giorno e vi farò vedere il mio volto." "Ora, alle donne che erano con lui al castello (erano cento, per lo più figlie di contadini di Soghd, di Kesh e di Nakshab, che lui teneva presso di sè al castello, e là non c'erano che quelle cento donne e il servo personale Hadjeb), egli ordinò di prendere uno specchio ciascuna e di salire sul tetto del castello. [Insegnò loro] a reggere lo specchio in modo da essere le une di fronte alle altre così che anche gli specchi si fronteggiassero " e questo nel momento in cui i raggi del sole dardeggiavano [più intensamente] ... Gli uomini erano tutti riuniti. Quando il sole si riflettè sugli specchi, tutti i dintorni del luogo, per effetto di quel riflesso, furono sommersi di luce. Egli disse allora al suo servo: "Di' alle mie creature: ecco che il vostro Dio si mostra a voi. Contemplatelo! Contemplatelo!' Gli uomini, vedendo quell'esplosione di luce, furono terrorizzati e si prosternarono." Come Empedocle, Hakim, vinto, volle sparire senza lasciar traccia di sè per far credere che era salito in cielo. Avvelenò le sue cento mogli, decapitò il servo e si gettò nudo in un fosso pieno di calce viva (o in una caldaia di mercurio, o in una vasca di vetriolo, o in una fornace in cui si faceva fondere del rame o del catrame o dello zucchero). Anche a questo proposito, gli storiografi rivelano il trucco. Benchè sempre efficace (i seguaci di Hakim credettero alla sua divinità , non alla sua morte e il Khorassan non ritrovò la pace prima di un lungo periodo), il regno della maschera appare ormai quello dell'imbroglio e del virtuosismo da giocoliere. E' un regno già in declino. Il regno della mimicry e dell'ilinx, in quanto tendenze culturali riconosciute, venerate, imperanti, è infatti condannato non appena lo spirito approda alla concezione del Cosmo, di un universo, cioè, ordinato e stabile, senza miracoli nè metamorfosi. Tale universo appare come l'ambito della regola, della necessità , della misura, in una parola: del numero. In Grecia, la rivoluzione si può cogliere anche sotto alcuni aspetti molto precisi. Così, i primi pitagorici usavano ancora dei numeri concreti. Li concepivano come aventi forma e figura. Alcuni numeri erano triangolari, altri quadrati, altri ancora oblunghi; erano cioè rappresentabili con dei triangoli, dei quadrati, dei rettangoli. Assomigliavano senz'altro di più alle figure costituite dai punti impressi su ogni faccia dei dadi o del domino che non alle cifre, segni senz'altro significato che in se stessi. E costituivano inoltre delle sequenze regolate dai rapporti fra i tre accordi musicali essenziali. Erano infine dotati di virtù diverse, corrispondenti al matrimonio (il 3), alla giustizia (il 4), all'occasione (il 7) o a qualche altro concetto o supporto che la tradizione o l'arbitrio attribuiva loro. Tuttavia, da questa numerazione in parte qualitativa, ma che attira l'attenzione sulle notevoli proprietà di certe progressioni privilegiate, derivò piuttosto rapidamente la serie astratta che esclude l'aritmosofia, esige il calcolo puro e può così servire da strumento alla scienza.57 Il numero e la misura, lo spirito di rigore che emanano, se sono incompatibili con i turbamenti e i parossismi dell'estasi e del travestimento, consentono in cambio il subentrare dell'agon e dell'alea come regole del gioco sociale. Nel momento stesso in cui la Grecia si allontana dalle società magiche, da tohu-bohu, sostituisce la frenesia delle antiche feste con la serenità delle processioni, fissa un cerimoniale (a Delfo) perfino al delirio profetico, dà valore di istituzione alla competizione regolata e all'estrazione a sorte. In altre parole, attraverso l'istituzione dei grandi giochi (olimpici, istmici, pitici e nemei) e, spesso, attraverso il modo con cui sono scelti i magistrati delle città , L'agon e, insieme ad esso, l'alea, assumono nella vita pubblica il posto privilegiato occupato dalla coppia mimicry-ilinx nelle società tohu-bohu. I giochi dello stadio inaugurano e offrono l'esempio di una rivalità circoscritta, regolata e specializzata. Privata di ogni sentimento di odio e rancore personale, questa nuova specie di emulazione dà inizio a una nuova scuola di lealtà e generosità . E diffonde al tempo stesso l'abitudine e il rispetto nei confronti dell'arbitrato. Il suo ruolo civilizzatore è stato spesso sottolineato. In realtà , i giochi solenni fanno la loro comparsa in quasi tutte le civiltà . I giochi di pelota degli Aztechi erano delle grandi feste rituali cui assistevano il sovrano e la corte. In Cina, le gare di tiro con l'arco abilitavano e qualificavano i nobili, non tanto in base ai risultati, quanto in base al modo più o meno corretto di scoccare la freccia o di confortare l'avversario sfortunato. Nell'Occidente cristiano, i tornei assolvono la stessa funzione: insegnano che l'ideale non è la vittoria ottenuta su chiunque e con qualunque mezzo, ma l'abilità , la prodezza riportata a parità di probabilità di successo su un concorrente che si stima e all'occasione si aiuta, usando solo i mezzi consentiti in quanto convenuti in anticipo, in un'area circoscritta ed entro un limite di tempo stabilito. Lo sviluppo della vita amministrativa, da parte sua, favorisce anch'esso la diffusione dell'agon. Il reclutamento dei funzionari viene effettuato sempre di più attraverso esami e concorsi. Si tratta di riunire gli elementi più idonei e competenti allo scopo di introdurli in qualche gerarchia o mandarinato, cursus honorum o tchin, in cui l'avanzamento è subordinato ad alcune norme fisse e controllato, per quanto possibile, da giurisdizioni autonome. La burocrazia è così fattore di una sorta di concorrenza che pone l'agon alla base di ogni carriera amministrativa, militare, universitaria o giudiziaria. Lo fa penetrare nelle istituzioni, dapprima timidamente e limitatamente ad alcune funzioni minori. Le altre restano a lungo alla mercè dell'arbitrio del principe o dei privilegi di nascita o di censo, benchè, teoricamente, l'accesso ne sia regolato mediante concorso. Ma, grazie alla natura delle prove o alla composizione delle giurie, i gradi più alti dell'esercito, i posti più importanti della diplomazia o dell'amministrazione restano spesso monopolio di una casta mal definita, ma il cui spirito di corpo si mantiene estremamente esclusivo e la solidarietà vigile. Tuttavia, i progressi della democrazia sono appunto quelli della giusta concorrenza, della uguaglianza dei diritti, e quindi del relativo livellamento delle condizioni che permette di tradurre nei fatti, in modo sostanziale, un'uguaglianza giuridica rimasta a volte più astratta che operante. Nella Grecia antica, i primi teorici della democrazia hanno del resto risolto la difficoltà , bizzarramente in apparenza, ma in un modo che appare impeccabile non appena si faccia lo sforzo di inquadrare il problema in tutta la sua novità . Essi ritenevano infatti l'estrazione a sorte dei magistrati una procedura assolutamente egualitaria. Guardavano alle elezioni come a una sorta di sotterfugio o di ripiego di ispirazione aristocratica. Questa è, segnatamente, la posizione di Aristotele e le sue tesi sono del resto conformi alla pratica comunemente ammessa. Ad Atene, quasi tutti i magistrati sono estratti a sorte, a eccezione dei generali e dei funzionari delle finanze, vale a dire dei tecnici. I membri del Consiglio sono estratti a sorte, previo esame di ammissione, fra i candidati presentati dai demi. In compenso, i delegati della Lega beota vengono eletti. La ragione è chiara: quando l'estensione del territorio interessato o la moltitudine dei partecipanti renda necessario un regime rappresentativo, si preferiscono le elezioni. Il verdetto della sorte, espresso dalla "fava bianca", è comunque ritenuto il sistema egualitario per eccellenza. Vi si vede al tempo stesso una precauzione, all'occorrenza difficilmente sostituibile, contro gli intrighi e le manovre degli oligarchi o delle "congiure". Alle sue origini, la democrazia oscilla così, in modo molto significativo, fra l'agon e l'alea: due forme opposte della giustizia. Questo inatteso concorso mette in luce il rapporto profondo che esiste fra i due principi. Dimostra che essi propongono soluzioni opposte, ma complementari, a un unico problema: quello dell'uguaglianza di tutti, uguaglianza di partenza, sia davanti alla sorte, se si rinuncia a fare il benchè minimo uso delle proprie capacità naturali e si sceglie un atteggiamento rigorosamente passivo; sia nei confronti delle condizioni della gara, se invece viene chiesto di impegnare al massimo le proprie capacità per fornire una prova incontestabile della propria superiorità . In realtà , lo spirito di competizione è prevalso. La regola politica corretta consiste nell'assicurare a ogni candidato identiche possibilità legali di sollecitare i voti degli elettori. In un senso più generale, una certa concezione della democrazia, che non è la meno diffusa nè, forse, la meno fondata, tende a considerare l'intera lotta dei partiti come una sorta di rivalità sportiva, che dovrebbe presentare la maggior parte delle caratteristiche proprie alle competizioni dello stadio o del ring: posta limitata, rispetto dell'avversario e delle decisioni arbitrali, lealtà , collaborazione sincera dei contendenti una volta reso il verdetto. Allargando ulteriormente il quadro della descrizione, ci si accorge che la totalità della vita collettiva, e non soltanto il suo aspetto istituzionale, a partire dal momento in cui la mimicry e l'ilinx ne sono bandite, poggia su un equilibrio precario e infinitamente variabile fra l'agon e l'alea, vale a dire fra il merito e il caso. B. IL MERITO E IL CASO I Greci, che non hanno ancora delle parole per designare la persona e la coscienza,58 fondamenti dell'ordine nuovo, continuano in compenso a disporre di un insieme di concetti precisi per designare la fortuna (tuke), la parte attribuita a ciascuno dal destino (moirà ), il momento favorevole (kairos), vale a dire l'occasione che, iscritta nell'ordine immutabile e irreversibile delle cose, e proprio perchè ne fa parte, non si ripete. La nascita costituisce allora, in un certo senso, il biglietto di una lotteria universale, inevitabile, che assegna a ciascuno un insieme di doni e di privilegi. Di questi, alcuni sono innati, altri sociali. Una concezione simile è a volte ancora più esplicita; a ogni modo, è più diffusa di quanto non si pensi. Presso gli Indiani dell'America centrale, benchè convertiti al cristianesimo da diversi secoli, è comunemente ammesso che ciascuno nasca con una suerte personale. Questa determina il carattere di ogni individuo, le sue doti, le sue debolezze, il rango sociale, la professione; in una parola: la sua fortuna, vale a dire la sua predestinazione al successo o al fallimento, la sui idoneità ad approfittare dell'occasione. In questo case non c'è ambizione che tenga, non c'è concorrenza possibile: ciascuno nasce e diventa ciò che la sorte ha prescritto.59 L'agon " il desiderio di trionfare " fa normalmente da contrappeso a un simile eccesso di fatalismo. Da un certo punto di vista, l'infinita diversità dei regimi politici dipende dalla preferenza che essi attribuiscono a uno o all'altro di due ordini di superiorità che agiscono in senso opposto. Devono scegliere fra l'eredità , che è caso, lotteria, e il merito, che è competizione. Alcuni si sforzano di perpetuare il più possibile le ineguaglianze di partenza mediante un sistema di caste o di classi chiuse, di mansioni riservate, di cariche ereditarie. Altri s'impegnano invece ad accelerare il ricambio delle èlites, vale a dire a ridurre la portata dell'alea originale per aumentare in proporzione lo spazio riservato a un sistema di rivalità sempre più rigidamente codificato. Nè l'uno nè l'altro di questi regimi estremi può essere assoluto: per quanto schiaccianti siano i privilegi relativi al nome, al censo o a qualche altro vantaggio di nascita, sussiste pur sempre un'opportunità , sia pure infinitesimale, per l'audacia personale, l'ambizione, il merito. Viceversa, nelle società più egualitarie, in cui l'eredità stessa non è ammessa sotto alcuna forma, non si può pensare che il destino della nascita vi abbia così poco peso che la posizione del padre non influisca in qualche modo sulla carriera del figlio e non la favorisca automaticamente. Sarà ben difficile eliminare il vantaggio costituito dal semplice fatto che un certo giovane sarà cresciuto in un determinato ambiente, che di questo ambiente farà parte, che vi conterà in partenza relazioni e appoggi, ne conoscerà le usanze e i pregiudizi e avrà potuto ricevere da suo padre utili consigli e una preziosa iniziazione. Infatti, sia pure in misura diversa, in tutte le società , non appena abbiano maturato un certo grado di sviluppo, si contrappongono l'opulenza e la miseria, l'oscurità e la gloria, il potere e la schiavitù. L'uguaglianza dei cittadini, per quanto proclamata, resta un'uguaglianza giuridica. La nascita continua a far pesare su tutti, come una fatale ipoteca, la legge del caso, che rivela la continuità della natura e l'impotenza della società . Succede allora che le legislazioni si sforzino di equilibrarne gli effetti. Le leggi, le costituzioni cercano cioè di stabilire fra le capacità o le competenze una legittima concorrenza destinata a frustrare i privilegi di classe e a investire di autorità assoluta superiorità indiscusse, dimostrate davanti a giurie qualificate e ratificate a mò di primati sportivi. Ma è fin troppo chiaro che i concorrenti, alla partenza, non si trovano piazzati allo stesso modo. La ricchezza, l'educazione, l'istruzione, la situazione familiare " circostanze esterne e spesso decisive " annullano in pratica l'uguaglianza iscritta nella legislazione. A volte, sono necessarie molte generazioni per ricuperare il ritardo del povero nei confronti del privilegiato. Le regole promesse per l'agon leale vengono visibilmente irrise. Il figlio, sia pure eccezionalmente dotato, di un operaio agricolo in una provincia povera e lontana non si trova d'emblèe in competizione con il figlio mediocremente intelligente di un alto funzionario della capitale. L'origine dei giovani che accedono agli studi universitari è oggetto di statistiche che hanno fama d'essere il miglior modo di misurare la fluidità sociale. Ed è sorprendente constatare a che punto questa rimanga debole perfino nei paesi socialisti, nonostante innegabili progressi. Naturalmente vi sono gli esami, i concorsi, le borse di studio, tutte concessioni fatte in omaggio alle capacità o alle competenze. Ma, appunto, si tratta di "concessioni", se non addirittura di palliativi che restano per lo più di una penosa insufficienza: espedienti, esperimenti e alibi, piuttosto che norme e regole generali. Bisogna guardare la realtà in faccia, compresa la situazione di quelle società che pretendono d'essere le sole giuste. Ci si accorge allora che, nell'insieme, c'è concorrenza effettiva solo fra gente dello stesso livello, della stessa origine, dello stesso ambiente. Il regime non conta molto: un figlio di dignitario è sempre favorito, qualunque sia il meccanismo che permette l'accesso alle cariche. In una società democratica (o socialista, o comunista) il problema resta serio: come equilibrarvi efficacemente il caso della nascita? Certo, i princìpi di una società egualitaria non sanciscono affatto i diritti e i vantaggi che la nascita comporta, ma questi possono benissimo rivelarvisi in realtà altrettanto pesanti che nei regimi a caste chiuse. Anche se si ammettono molteplici e rigorosi meccanismi di compensazione, destinati a ricollocare ciascuno a un unico livello ideale e a non favorire che il merito autentico e la superiorità dimostrata, anche in questo caso, la fortuna ha il suo peso.
|