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I giochi e gli uomini. La maschera
e la vertigine di Roger Caillois
Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A. |
2. DALLA PEDAGOGIA ALLA MATEMATICA Il mondo dei giochi è così svariato e complesso che esistono innumerevoli modi di affrontarne lo studio. Psicologia, sociologia, aneddotica, pedagogia e matematica si dividono un campo la cui unità finisce col non essere più percettibile. Non solo opere quali Homo ludens di Huizinga, Jeu de lEnfant di Jean Chateau e Theory of Games and Economie Behavior di Neumann e Morgenstern non si rivolgono agli stessi lettori, ma sembra che non trattino neppure lo stesso soggetto. Alla fine, ci si domanda in quale misura ci si avvalga delle facilità o delle accidentali contingenze del vocabolario continuando a immaginare che ricerche diverse, e quasi fra loro incompatibili, riguardino in fondo una stessa attività specifica. Si arriva a dubitare che il gioco possa essere definito in base a dei caratteri comuni e che, di conseguenza, possa essere legittimamente oggetto di uno studio dequipe. Se, nellesperienza corrente, il campo del gioco conserva nonostante tutto la sua autonomia, esso lha manifestamente persa per quanto riguarda la ricerca dotta. Non si tratta soltanto di approcci diversi, dovuti alla diversa natura delle varie discipline. I dati che ogni volta vengono studiati sotto il nome di giochi sono così eterogenei che si è portati a presumere che la parola gioco sia forse un semplice inganno che, con la sua ingannevole generalità, alimenta illusioni tenaci circa la supposta affinità di comportamenti disparati. Non è privo dinteresse indicare quali modi di procedere, a volte quali fatti del tutto casuali, hanno portato a un cosi paradossale frazionamento. Infatti, la curiosa divisione si profila fin dallinizio. Chi gioca alla cavallina, al domino o allaquilone, sa di giocare in tutti e tre i casi: ma solo gli psicologi dellinfanzia sinteressano alla cavallina (o alle biglie, o a barres XLIII), solo i sociologi allaquilone, e solo i matematici al domino (o alla roulette o al poker). Trovo normale che questi ultimi non sinteressino a giochi come la mosca cieca o il rincorrersi, che non si prestano ad alcuna equazione; capisco meno che Jean Chateau trascuri del tutto il domino e laquilone; mi chiedo invano perché mai storici e sociologi rifuggano di fatto dallo studio dei giochi dazzardo. Per essere più esatto, se non vedo bene, in questultimo caso, la ragione di un simile ostracismo, ho in compenso alcuni sospetti sui motivi che lhanno causato. Come vedremo, essi dipendono in gran parte dai pregiudizi -biologici o pedagogici- degli studiosi che sinteressano ai giochi. Lo studio dei giochi -se si esclude laneddotica, che del resto si occupa dei giocattoli più che dei giochi-si avvale dunque dei lavori di discipline indipendenti, segnatamente della psicologia e della matematica, di cui è opportuno considerare volta per volta i contributi essenziali. Analisi psicopedagogiche Schiller è certamente uno dei primi, se non il primo, ad aver sottolineato limportanza straordinaria del gioco per la storia della cultura. Nella quindicesima delle sue Lettere sulleducazione estetica delluomo, egli scrive: Una volta per tutte e per concludere, luomo gioca solo quando è uomo nel pieno senso della parola ed è un uomo completo solo quando gioca. Meglio ancora, nello stesso testo, egli già immagina che si possa trarre dai giochi una sorta di diagnosi che caratterizzi le diverse culture. Egli ritiene che mettendo a confronto i concorsi ippici di Londra, i combattimenti di tori a Madrid, gli spettacoli della Parigi di un tempo, le regate di Venezia, i combattimenti di animali a Vienna e la vita spensierata del Corso, a Roma, non debba essere difficile determinare le sfumature del gusto presso questi diversi popoli.83 Ma, tutto teso a estrapolare dal gioco lessenza dellarte, passa oltre e si accontenta di intuire la sociologia dei giochi che la sua frase lascia prefigurare. Non importa. La questione è comunque posta e il gioco preso sul serio. Schiller insiste sulla gioiosa esuberanza del giocatore e sulla libertà costantemente lasciata alla sua scelta. Il gioco e larte nascono da un sovrappiù di energia vitale di cui luomo o il bambino non hanno bisogno per la soddisfazione dei loro bisogni immediati e che utilizzano allora per limitazione gratuita e divertente di comportamenti reali. I salti scomposti della gioia diventano danza. Di qui Spencer: Il gioco è una drammatizzazione dellattività degli adulti. E Wundt, a torto più deciso e perentorio: Il gioco è figlio del lavoro. Non cè tipo di gioco che non trovi il suo modello in una qualche occupazione seria, modello che gli è parimenti anteriore (Etbik, 1886, p. 145). La formula ebbe successo. Attratti da essa, etnografi e storici si sforzarono, con alterne fortune, di dimostrare che nei giochi dei bambini sopravvivevano antiche pratiche religiose o magiche cadute in disuso. Lidea della gratuità, della libertà del gioco, venne ripresa da Karl Groos nella sua opera Die Spiele der Tiere (Jena, 1896). Lautore distingue essenzialmente, nel gioco, la gioia dessere e restare causa determinante. Lo spiega con il potere dinterrompere in qualunque momento, e liberamente, lattività iniziata. Lo definisce infine come uniniziativa pura, senza passato né avvenire, sottratta alla pressione e alle costrizioni del mondo. Il gioco è una creazione di cui il giocatore resta padrone. Avulso dallinesorabile realtà, esso appare come un universo fine a se stesso e che esiste solo nella misura in cui è volontariamente accettato. K. Groos, tuttavia, pur pensando già alluomo, studiò prima gli animali; quando, diversi anni dopo, passò allo studio dei giochi umani (Die Spiele der Menschen, Jena, 1899), mantenne una certa propensione a insistere sui loro aspetti istintivi e spontanei e a trascurare le combinazioni puramente intellettuali in cui i giochi, in molti casi, consistono. Per di più, anchegli concepì i giochi dellanimale giovane come una sorta di allegro allenamento alla vita adulta. Per un singolare paradosso, Groos giunse a vedere nel gioco la ragion dessere della gioventù: Gli animali non giocano perché sono giovani, sono giovani perché devono giocare.84 Pertanto, egli si sforzò di dimostrare come lattività ludica assicurasse ai giovani animali una maggiore padronanza nellinseguire le prede o nello sfuggire ai nemici e come li allenasse a lottare fra di loro in previsione del momento in cui la rivalità per il possesso della femmina li avrebbe messi realmente uno contro laltro. Ne ricavò uningegnosa classificazione dei giochi, molto conforme alla sua tesi, ma che ebbe purtroppo come prima conseguenza quella di indirizzare verso una suddivisione parallela lo studio dei giochi u-mani che intraprese in seguito. Groos, dunque, distingue lattività ludica in: a) dellapparato sensoriale (sperimentazione del tatto, della temperatura, del gusto, dellodorato, delludito, dei colori, delle forme, dei movimenti, ecc.); b) dellapparato motorio (landare a tentoni, distruzione e analisi, costruzione e sintesi, giochi di pazienza, lancio semplice, lancio effettuato colpendo o spingendo, impulso a far rotolare, girare o scivolare, lanciare verso un bersaglio, acchiappare oggetti in movimento); c) dellintelligenza, del sentimento e della volontà (giochi di riconoscimento, di memoria, di fantasia, di attenzione, di ragione, giochi a sorpresa, giochi del brivido, ecc.). E passa in seguito a quelle tendenze che chiama di secondo grado, quelle cioè che rientrano nel campo dellistinto di lotta, dellistinto sessuale e dellistinto dimitazione. Questa lunga disamina mostra perfettamente come tutte le sensazioni o emozioni che luomo può provare, tutti i gesti che può compiere, tutte le operazioni mentali che è in grado di effettuare, diano origine a dei giochi, ma non proietta alcuna luce su questi, non informa né sulla loro natura né sulla loro struttura. Groos non si preoccupa di raggrupparli in base alle loro intrinseche affinità e non pare accorgersi del fatto che essi coinvolgono per lo più diversi sensi o diverse funzioni al tempo stesso. In fondo, egli si accontenta di suddividerli in base allindice delle materie dei trattati di psicologia in voga allepoca, o piuttosto si limita a dimostrare come i sensi e le facoltà delluomo comportino ugualmente un tipo dazione disinteressata, senza utilità immediata, la quale, perciò, appartiene allambito del gioco e serve unicamente a preparare lindividuo ai suoi compiti futuri. I giochi dazzardo si trovano ancora una volta eliminati, senza che neppure lautore si renda conto di averli scartati. Da una parte, non li ha incontrati presso gli animali e, dallaltra, non esiste alcun compito serio di cui essi costituiscano la preparazione. Dopo la lettura delle opere di Karl Groos, si potrebbe continuare a ignorare, o quasi, il fatto che un gioco comporti frequentemente, e forse necessariamente, delle regole, e anzi delle regole di un genere molto particolare: arbitrarie, categoriche, valide entro limiti di tempo e di spazio determinati in anticipo. Ricordiamo che è stato merito di J. Huizinga laver insistito su questultimo aspetto e averne sottolineato leccezionale fertilità per lo sviluppo della cultura. Prima di lui, Jean Piaget, in due conferenze del 1930 allIstituto Jean-Jacques Rousseau a Ginevra, aveva molto insistito sulla contrapposizione, per il bambino, dei giochi di fantasia e dei giochi regolati. Ricordiamo daltronde limportanza che egli molto giustamente attribuisce al rispetto della regola del gioco da parte del bambino per la formazione morale di questultimo. Ma, di nuovo, né Piaget né Huizinga prendono minimamente in considerazione i giochi dazzardo che sono parimenti esclusi dalle pur considerevoli ricerche di Jean Chateau.85 Certo, Piaget e Chateau si occupano solo dei giochi infantili,86 e anzi solo dei giochi di certi bambini delloccidente europeo nella prima metà del XX secolo ed essenzialmente dei giochi che questi bambini fanno a scuola, durante la ricreazione. Vediamo dunque come una sorta di fatalità continui a lasciare in ombra i giochi dazzardo che certamente non vengono incoraggiati dagli educatori. Tuttavia, anche se si lascian da parte i dadi, la trottola, il domino e le carte, che J. Chateau non prende in considerazione in quanto giochi di adulti, giochi che i bambini sarebbero indotti a giocare dalle famiglie, restano le bilie che non sono sempre e soltanto giochi di abilità. Le bilie, infatti, hanno la particolarità di essere al tempo stesso strumento e posta. I giocatori le vincono o le perdono. Esse diventano così una vera e propria moneta; si scambiano con dei dolciumi, dei temperini, delle fionde,87 dei fischietti, degli articoli scolastici o in cambio di un aiuto per i compiti, di un favore da fare, di ogni sorta di prestazioni soggette a tariffa. Le bilie hanno pure un valore diverso a seconda che siano dacciaio o di creta, di ardesia o di vetro. Ora, avviene comunemente che i bambini le rischino facendo a pari e dispari, una sorta di morra che, a livello infantile, è occasione di autentici spostamenti di capitale. Lautore cita almeno uno di questi giochi,88 il che non gli impedisce di eliminare quasi del tutto lazzardo, vale a dire il rischio, lalea, la scommessa, come molla determinante del gioco nel bambino, allo scopo di insistere meglio sul carattere essenzialmente attivo del piacere che questi prova nel giocare. Una posizione che non avrebbe conseguenze negative se Jean Chateau non avesse tentato, alla fine della sua opera, una classificazione dei giochi che si trova così soggetta a una grave lacuna. Ignorando deliberatamente i giochi dazzardo, essa elimina un problema importante, quello cioè di sapere se il bambino sia sensibile o no allattrazione della fortuna, o se pratichi poco i giochi dazzardo a scuola, semplicemente perché di fatto simili giochi non vi vengono ammessi. Quanto a me, non ho dubbi: il bambino è molto precocemente sensibile alla fortuna.89 Resta da definire a partire da che età, e come, egli concili il verdetto della sorte, in sé non equo, con quello che è invece il suo vivissimo e rigorosissimo senso della giustizia. Lambizione di Jean Chateau è insieme genetica e pedagogica: egli sinteressa dapprima al momento del manifestarsi e dellespandersi di ogni tipo di giochi. Contemporaneamente, cerca di determinare lapporto positivo delle diverse specie di giochi e simpegna a dimostrare in quale misura essi contribuiscono a formare la personalità del futuro adulto. Da questo punto di vista, Chateau non ha difficoltà a dimostrare, in opposizione a Karl Groos, come il gioco sia una prova, piuttosto che un esercizio. Il bambino non si allena per un compito ben definito; acquisisce, grazie al gioco, una più ampia capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. Niente, nella vita, ricorda il gioco di vola lasino, ma può essere molto utile possedere dei riflessi al tempo stesso rapidi e controllati. In generale, il gioco appare dunque come educazione, senza finalità determinata in anticipo, del corpo, del carattere o dellintelligenza. Da questo punto di vista, più il gioco è lontano dalla realtà più è grande il suo valore educativo. Perché non rivela formule magiche: sviluppa delle attitudini. I giochi puramente dazzardo, però, non sviluppano nel giocatore, che resta essenzialmente passivo, alcun talento fisico o intellettuale. E spesso si paventano le loro conseguenze per la moralità, perché distolgono dal lavoro e dallo sforzo facendo balenare la speranza di un guadagno immediato e ingente. Questa può essere una ragione per bandirli dalla scuola (ma non da una classificazione). Mi domando del resto se non sia il caso di spingere il ragionamento
alle sue estreme conseguenze. Il gioco non è esercizio, non
è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà
che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare,
che è per di più libero, intenso, divertente, creativo
e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella
di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco
stesso. Se ne deduce che le attitudini che esso sviluppa sono le stesse
che servono anche per lo studio e le attività serie delladulto.
Se queste capacità sono sopite o manchevoli, il bambino non
sa né studiare né giocare, perché, in questo
caso, non sa né adattarsi a una situazione nuova, né
fissare la propria attenzione, né piegarsi a una disciplina.
A questo proposito, le osservazioni di A. Brauner sono tra le più
convincenti.90 Il gioco non è assolutamente un rifugio per
ritardati o handicappati: li sgomenta quanto il lavoro. Questi bambini
o questi adoles Non cè alcun dubbio che il piacere di rispettare volontariamente una regola convenuta sia in questo caso essenziale. Infatti, J. Chateau riconosce così pienamente, dopo Jean Piaget, limportanza di questo dato, che suddivide inizialmente i giochi in regolati e non regolati. Per questa seconda classificazione, egli compendia le analisi di Groos senza aggiungervi gran che di inedito. Per i giochi regolati, invece, si rivela una guida molto più istruttiva. La distinzione che egli stabilisce fra i giochi figurativi (imitazione e illusione), i giochi obiettivi (costruzione e lavoro) e i giochi astratti (dalla regolamentazione arbitraria, di abilità e, soprattutto, di competizione) corrisponde indubbiamente a una realtà. Si può anche convenire con lui che i giochi figurativi portano allarte, i giochi obiettivi anticipano il lavoro e i giochi di competizione prefigurano lo sport. Chateau completa la classificazione con una categoria che accomuna i giochi di competizione in cui è richiesta una certa cooperazione con quelle danze e cerimonie simulate in cui i movimenti dei partecipanti devono essere armonizzati e accordati fra loro. Tale gruppo non appare minimamente omogeneo e contraddice proprio il principio precedentemente stabilito che contrappone i giochi dillusione ai giochi regolati. Giocare alla Iavanderina, o alla droghiera, o al soldato è sempre unimprovvisazione. Immaginare dessere unammalata, una fornaia, un aviatore o un cow-boy, comporta uninvenzione continua. Giocare a bandiera o a guardia e ladri, per non parlare del football, della dama o degli scacchi, presuppone al contrario il rispetto di regole precise che consentono di individuare il vincitore. Raggruppare sotto una stessa voce giochi di rappresentazione e giochi di competizione perché sia gli uni che gli altri richiedono una cooperazione fra i giocatori dello stesso campo, si spiega in fondo solo con la preoccupazione dellautore di distinguere vari livelli ludici, delle specie di classi detà: a volte si tratta infatti di una complicazione dei giochi di rivalità semplice, fondati sulla competizione; a volte di una complicazione simmetrica dei giochi figurativi, fondati sul simulacro. Queste complicazioni hanno tutte e due come conseguenza lintervento dello spirito dequipe che obbliga i giocatori a cooperare, ad accordare i loro movimenti e ad attenersi a un ruolo preciso allinterno di un contesto generale. Non per questo laffinità profonda è meno manifestamente verticale. J. Chateau, ogni volta, va dal semplice al complesso, perché si sforza essenzialmente di stabilire delle stratificazioni che si accordino con letà dei bambini. Ma queste stratificazioni per età non fanno che complicare parallelamente delle strutture che restano indipendenti. Giochi figurativi e giochi di competizione corrispondono abbastanza esattamente a quelli che, nella mia classificazione, ho rispettivamente raggruppato sotto i termini di mimicry e di agon. Ho già detto perché non si trova menzione dei giochi dazzardo nella tabella di Chateau. Vi si può comunque scoprire qualche traccia dei giochi di vertigine sotto la voce jeux demportement, con le seguenti esemplificazioni: precipitarsi giù da una discesa, gridare a squarciagola, girare come una trottola, correre (a perdifiato).91 Certo, in questi comportamenti esistono effettivamente dei giochi di vertigine in nuce, ma i giochi di vertigine, per meritare realmente il nome di giochi, devono presentarsi sotto aspetti più precisi, meglio determinati, più adattati al loro fine specifico, che è quello di provocare un turbamento leggero, temporaneo e, di conseguenza piacevole, della percezione e dellequilibrio, come avviene, ad esempio, nel toboga, nellaltalena o anche nel màis dor haitiano. Anche Chateau fa unallusione allaltalena (p. 298), ma per interpretarla come un esercizio di volontà nei confronti della paura. Certo, la vertigine presuppone la paura, o meglio un senso panico, ma questultimo attrae, affascina: è un piacere. Non si tratta tanto di trionfare sulla paura, quanto di provare voluttuosamente una paura, un brivido, uno stupore che fanno perdere momentaneamente il controllo di sé. I giochi di vertigine, insomma, non sono trattati molto meglio, dagli psicologi, dei giochi dazzardo. Neppure Huizinga, che concentra la sua riflessione sui giochi degli adulti, accorda loro la benché minima attenzione. Indubbiamente li disprezza perché non sembra possibile attribuir loro alcun valore pedagogico o culturale. Dallinvenzione e dal rispetto delle regole, dalla competizione leale, Huizinga fa derivare la civiltà intera, o poco ci manca, e J. Chateau lessenziale delle virtù necessarie alluomo per costruire la propria personalità. La fecondità etica della lotta limitata e regolata, la fecondità culturale dei giochi di illusione non vengono messe in dubbio da alcuno. Al contrario, la ricerca della vertigine e della fortuna non gode di altrettanta buona fama. Giochi di questo tipo appaiono sterili, se non addirittura funesti, contaminati da una qualche oscura e contagiosa maledizione. Nellopinione corrente, passano per corruttori. La cultura, per generale riconoscimento, consiste ben più nel difendersi dalla loro seduzione che nellapprofittare dei loro discutibili apporti. Analisi matematiche Giochi di vertigine e giochi dazzardo sono messi in disparte e implicitamente negletti dai sociologi e dagli educatori. Lo studio della vertigine è abbandonato ai medici, il calcolo delle probabilità fortunate ai matematici. Queste ricerche di nuovo tipo sono certo indispensabili, ma ambedue sviano lattenzione dalla natura del gioco. Lo studio del funzionamento dei canali semicircolari spiega imperfettamente la moda, il successo dellaltalena, del toboga, dello sci e delle montagne russe, senza contare esercizi di altro tipo, ma che presuppongono lo stesso gioco con gli stessi poteri di panico, come il turbinare dei dervisci del Medio Oriente o la discesa a spirale dei voladores messicani. Daltra parte, lo sviluppo del calcolo delle probabilità non sostituisce assolutamente una sociologia delle lotterie, dei Casinò o degli ippodromi. Né gli studi matematici informano circa la psicologia del giocatore, dal momento che sono tenuti a esaminare tutte le possibili risposte a una data situazione. A volte, il calcolo serve a determinare il margine di sicurezza del banchiere, a volte a indicare al giocatore il modo migliore di giocare, a volte a precisargli in anticipo i rischi cui va man mano incontro. Ricordiamo che un problema di questo genere è appunto allorigine del calcolo delle probabilità. Il Cavaliere de Mère aveva calcolato che al gioco dei dadi, in una serie di ventiquattro colpi, con sole ventun combinazioni possibili, il doppio sei aveva più probabilità di uscire che di non uscire. Lesperienza, però, gli dimostrava il contrario. Egli si rivolse allora a Pascal. Di qui, la lunga corrispondenza di questultimo con Fermat che doveva aprire nuove strade alla matematica e che, in via secondaria, permise a Mère di dimostrare che in effetti era scientificamente vantaggioso scommettere contro luscita del doppio sei in una serie di ventiquattro colpi. Parallelamente ai lavori sui giochi dazzardo, i matematici hanno da tempo intrapreso delle ricerche di tipo assolutamente diverso. Essi si sono dedicati a calcoli di enumerazione, in cui il caso non interviene affatto ma che possono diventare oggetto di una teoria completa e generalizzabile. Si tratta, segnatamente, dei molteplici rompicapi noti con il nome di giochi matematici. Più di una volta, il loro studio ha messo gli scienziati sulla strada di importanti scoperte. Tale è a esempio il problema (non risolto) dei quattro colori,XLIV quello dei ponti di Koenigsberg, quello delle tre case e delle tre fonti (insolubile su di un piano, ma risolvibile su una superficie chiusa come quella di un anello), quello della passeggiata delle quindici damigelle. Alcuni giochi tradizionali, come a esempio quadrato del quìndici e baguenaude, si basano del resto su difficoltà e combinazioni della stessa specie, la cui teoria rientra nel campo della topologia, quale è stata formulata da Janirewski alla fine del XIX secolo. Recentemente, alcuni matematici, mettendo insieme il calcolo delle probabilità e la topologia, hanno fondato una nuova scienza, le cui applicazioni sembrano essere delle più diverse: la teoria dei giochi strategici.92 Questa volta, si tratta di giochi nei quali i giocatori sono degli avversari chiamati a difendersi, in cui, cioè, hanno volta per volta una scelta ragionata da fare e delle decisioni adeguate da prendere. Questo tipo di giochi è adatto a servire da modello ai problemi che comunemente si pongono nel campo economico, commerciale, politico o militare. Si manifestò, cioè, lambizione di poter procurare una soluzione indiscutibile, scientifica, al di là di ogni possibile controversia, a delle difficoltà concrete ma valutabili, almeno approssimativamente. Si cominciò con le situazioni più semplici: testa o croce, gioco di carta-pietra-forbici XLVIII (la carta vince la pietra avvolgendola, la pietra batte le forbici rompendole, le forbici vincono la carta tagliandola), poker semplificato al massimo, duelli di aerei, ecc. Si fecero entrare nel calcolo alcuni elementi psicologici come lastuzia e il bluff. Si chiamava astuzia la perspicacia di un giocatore nel prevedere il comportamento dei suoi avversari, e bluff la risposta a questa astuzia, vale a dire ora larte di nascondere a (un) avversario (le nostre) informazioni, ora labile accorgimento di indurlo in errore circa (le nostre) intenzioni, ora, infine, la scaltrezza di fargli sottovalutare (la nostra) abilità.93 Tuttavia, sussiste un dubbio circa la portata pratica, e perfino la fondatezza di simili speculazioni che esulano dalla matematica pura. Esse si basano su due postulati indispensabili alla deduzione rigorosa e che, in ogni caso, non sincontrano mai nelluniverso continuo e infinito della realtà: il primo, la possibilità di uninformazione totale, che abbracci, cioè, ed esaurisca tutti i dati utili; il secondo, la concorrenza di avversari le cui iniziative siano sempre prese in cognizione di causa, in prospettiva di un risultato preciso, e che si suppone scelgano sempre la soluzione migliore. Ora, nella realtà, da una parte i dati utili non sono mai computabili a priori; dallaltra, non è possibile eliminare, nellavversario, la componente dellerrore, del capriccio, dellestro insensato, di una qualunque decisione arbitraria e imponderabile, di una qualche strampalata superstizione e perfino di una deliberata volontà di perdere, che non cè motivo assoluto di escludere dallassurdo universo umano. Matematicamente, queste anomalie non generano alcuna nuova difficoltà: riportano a un caso precedente, già risolto. Ma umanamente, per il giocatore concreto, non avviene lo stesso, perché tutto linteresse del gioco risiede proprio in questo inestricabile concorso di possibili. Teoricamente, in un duello alla pistola, in cui i due avversari avanzano uno incontro allaltro, se si conosce la portata e la precisione delle armi, la distanza, la visibilità, labilità rispettiva dei tiratori, il loro sangue freddo, il grado di eccitabilità nervosa, e purché questi diversi elementi si suppongano quantificabili, si può calcolare il momento più propizio, per ciascuno di loro, per premere il grilletto. E comunque si tratta di una speculazione aleatoria, in cui i dati sono inoltre limitati per convenzione. Ma, nella pratica, è chiaro che il calcolo risulterebbe impossibile, poiché richiederebbe lanalisi completa di una situazione inesauribile. Uno degli avversari può essere miope o astigmatico. Può essere distratto o nevrastenico, può pungerlo una vespa, può inciampare in una radice. E può perfino aver voglia di morire. Lanalisi non può vertere che su un problema-tipo, ridotto allosso, e tutto il ragionamento cade quando il problema si presenta in tutta la sua comple ssità originale. In certi negozi americani, allepoca dei saldi, si svendono gli articoli il primo giorno con uno sconto del 20% sul prezzo contrassegnato, il secondo giorno con uno sconto del 30%, il terzo giorno del 50%. Più il cliente aspetta e più lacquisto diventa vantaggioso. Ma la sua possibilità di scelta diminuisce proporzionalmente, e larticolo su cui ha messo locchio rischia di sfuggirgli. Normalmente, se si riescono a limitare i dati da prendere in considerazione, si può calcolare in quale giorno sia meglio acquistare il tale o talaltro articolo, a seconda che lo si ritenga più o meno ricercato. È tuttavia verosimile che ogni cliente faccia il suo acquisto in base alle proprie scelte: senza aspettare, se intende soprattutto assicurarsi loggetto desiderato; allultimo momento, se cerca invece di spendere il meno possibile. Qui appunto risiede e perdura lirriducibile elemento di gioco che la matematica non riesce a toccare perché essa non può essere che algebra sul gioco. Quando, per assurdo, diventasse algebra del gioco, il gioco ne sarebbe subito annientato. Perché non si gioca per guadagnare a colpo sicuro. Il piacere del gioco è inseparabile dal rischio di perdere. Ogni volta che la riflessione combinatoria (in cui consiste la scienza dei giochi) azzecca la teoria di una situazione, linteresse per il gioco sparisce con il venir meno dellincertezza del risultato. La sorte di ogni possibile variante è nota. Nessun giocatore ignora dove portano le conseguenze di ogni mossa concepibile e le conseguenze delle sue conseguenze. A carte, la partita termina non appena svanisce ogni incertezza circa le prese da attribuirsi o da lasciare agli altri, e ogni giocatore butta giù le carte. Agli scacchi, il giocatore esperto abbandona la partita non appena si rende conto che la situazione o il rapporto di forze lo condanna a una sconfitta ineluttabile. I neri dAfrica calcolano lo sviluppo dei giochi che li appassionano altrettanto esattamente di quanto non facciano Neumann e Morgenstern per delle strutture che esigono indubbiamente un apparato matematico notevolmente più complesso, ma che essi non trattano diversamente. In Sudan, il gioco del Bolotoudou, analogo al nostro filetto, gode di grande popolarità. Si gioca con dodici bastoncini e dodici ciottoli che ogni giocatore colloca via via su trenta caselle disposte in cinque file di sei. Ogniqualvolta un giocatore riesce a mettere tre delle sue pedine in linea retta, ne mangia una allavversario. I campioni dispongono di mosse particolari, personalissime, e che, facendo parte delleredità familiare, si trasmettono di padre in figlio. La disposizione iniziale delle pedine ha una grande importanza. Le combinazioni possibili non sono infinite. Così, un giocatore esperto può fermare la partita riconoscendosi virtualmente battuto molto prima che la sconfitta sia manifesta agli occhi del profano.94 Sa che lavversario deve batterlo, e come dovrà procedere per arrivarci. Nessuno prova un gran divertimento ad approfittare dellinesperienza di un giocatore mediocre. Si desidererebbe, invece, insegnargli, se la ignora, la mossa invincibile. Perché il gioco è soprattutto dimostrazione di superiorità e il piacere sta nel misurare le proprie forze. Bisogna sentirsi in pericolo. Le teorie matematiche che cercano di determinare con certezza, in tutte le possibili situazioni, la pedina che conviene spostare o la carta che è opportuno buttar giù, lungi dallincoraggiare lo spirito di gioco, lo danneggiano, abolendo la sua stessa ragion dessere. Il lupo e gli agnelli XLIX che si giocano sulla normale scacchiera di sessantaquattro caselle con una pedina nera e quattro bianche, è un gioco molto semplice le cui possibili combinazioni sono facilmente enumerabili. La sua teoria è facile. Gli agnelli (le quattro pedine bianche) devono necessariamente vincere. Ma quale piacere può ancora provare nel giocare al lupo il giocatore che conosca questa teoria? Queste analisi, che distruggono lo spirito di gioco non appena sono perfette, esistono anche per altri giochi (quadrato del quindici, baguenaude) che menzionavo sopra. Non è verosimile, ma possibile e forse teoricamente inevitabile, che esista una partita a scacchi assoluta, vale a dire tale che, dalla prima allultima mossa, nessuna risposta risulti efficace, la migliore trovandosi automaticamente neutralizzata a ogni successivo passaggio. Non è ragionevolmente impensabile che una macchina elettronica,L coprendo ogni possibile mutamento di direzione, stabilisca questa partita ideale. Allora, non si giocherà più agli scacchi. Il fatto di giocare per primo comporterà, da solo, la vincita o forse la perdita della partita.95 Lanalisi matematica dei giochi appare così una parte della matematica, che ha con i giochi solo un rapporto contingente, occasionale. Esisterebbe anche se non esistessero i giochi. Essa può e deve svilupparsi al di fuori di essi, inventando liberamente situazioni e regole sempre più complesse. Ma non può avere la minima incidenza sulla natura stessa del gioco. Infatti, o lanalisi porta a una certezza, e allora il gioco perde il suo interesse; o stabilisce un coefficiente di probabilità, e allora offre semplicemente una valutazione più razionale di un rischio che il giocatore sceglie o no di correre, a seconda della sua natura prudente o temeraria. Il gioco è fenomeno totale. Interessa linsieme delle attività e delle ambizioni umane. Così, sono ben pochi i rami del sapere dalla pedagogia alla matematica, passando per la storia e la sociologia che non possano studiarlo profittevolmente in una qualche prospettiva. Tuttavia, quale che sia il valore teorico o pratico dei risultati ottenuti in ogni prospettiva particolare, questi risultati resterebbero privati del loro significato e della loro autentica portata se non venissero letti in relazione al problema centrale posto dalluniverso indivisibile dei giochi, da cui in primo luogo essi traggono linteresse che possono presentare. DOSSIER CAPITOLO 2. CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI Mimicry negli insetti. Riporto in questa sede alcuni degli esempi citati nella mia opera le Mythe et lHomme (pp. 109-116). A scopo di difesa, un animale inoffensivo assume laspetto
di un animale temibile, a esempio la farfalla apiforme Trochilium
e la vespa Crebro: stesse ali affumicate, stesse zampe e antenne scure,
stesso addome e torace a strisce gialle e nere, stesso volo gagliardo
e rumoroso in pieno sole. A volte, lanimale mimetico fa ancora
di più; così, il bruco del Choerocampa Elpenor, che,
allaltezza del quarto e quinto segmento, presenta due macchie
oculiformi cerchiate di nero; molestato, esso ritrae gli anelli anteriori;
il quarto si ingrossa notevolmente e leffetto così ottenuto
sarebbe quello di una testa di serpente tale da trarre in inganno
lucertole e piccoli uccelli, terrorizzati da quella subitanea apparizione.96
Secondo Weismann,97 quando lo Smerintbus ocellata, che, allo stato
di riposo, come tutti gli Sfingidi, nasconde le ali inferiori, è
in pericolo, le scopre allimprovviso e quelle ali, con i loro
due occhi blu su fondo rosso, terrorizzano laggressore.98
Latto è accompa E non mancano gli esempi di mimetismo: le calappe assomigliano a dei ciottoli rotondi, le chlamys a dei semi, le moenas a della ghiaia, i palemoni a dei fuchi; il pesce Phylopteryx del mar dei Sargassi non è che unalga dentellata a strisce fluttuanti,101 come lAntennarius e il Ptero-phryne.100 Il polipo ritrae i tentacoli, inarca il dorso, muta il colore cosi da assomigliare a un sasso. Le ali inferiori bianche e verdi della Pieride-Aurora imitano le ombrellifere; le gibbosità, nodosità, striature della lichnée mariée la rendono simile alla corteccia dei pioppi sui quali vive. Impossibile distinguere dai licheni il Lithinus nigrocristinus del Madagascar e i Flatöides.102 È noto il grado di mimetismo delle mantidi le cui zampe imitano dei petali o sono ripiegate a corolla e che assomigliano così a dei fiori e arrivano al punto di imitare, con un leggero dondolio meccanico, lazione del vento su questi.103 La cilix compressa sembra uno sterco duccello, il Cerodeylus laceratus del Borneo, con le sue escrescenze fogliacee color verde oliva chiaro, assomiglia a un bastoncino coperto di muschio. Questultimo appartiene alla famiglia di Fasmidi che, in genere, si appendono ai cespugli della foresta e hanno la curiosa abitudine di lasciar penzolare le zampe in modo irregolare, il che rende lerrore ancor più facile.104 Alla stessa famiglia appartengono anche certi bacilli che sembrano ramoscelli. Il Ceroys e lHeteropteryx imitano delle fronde secche e spinose e i membracei, emitteri dei Tropici, dei germogli o delle spine, come ad esempio linsetto-spina tutto proiettato in altezza, lUmbonia orozimbo. Il bruco geometra, anchesso rigido e verticale, non si distingue affatto dai germogli degli arbusti, aiutato in questo da opportune rugosità tegumentali. Tutti conoscono i Phyllium, così simili a una foglia. Con questo tipo di insetto, ci si avvicina al mimetismo perfetto che è proprio di alcune farfalle: lOxydia, ad esempio, che si mette allestremità di un ramo, perpendicolarmente alla sua direzione, con le ali superiori ripiegate a tetto in modo da sembrare una foglia terminale, somiglianza accentuata da una scia scura e sottile che prosegue trasversalmente lungo le quattro ali in modo da imitare la nervatura principale della foglia.105 Altre specie sono ancor più perfezionate: le loro ali inferiori sono munite di unappendice mobile e autonoma che esse utilizzano a mò di peduncolo, acquisendo così come un diritto di cittadinanza nel mondo vegetale.106 Linsieme delle due ali configura, da ogni lato, lovale lanceolato caratteristico della foglia: anche in questo caso, una macchia, longitudinale questa volta, prolungandosi da unala allaltra, sostituisce la nervatura mediana, pertanto la forza organomotrice... ha dovuto dividere e organizzare sapientemente ognuna delle due ali poiché essa realizza così una forma determinata non in se stessa, ma attraverso lunione con laltra ala.107 Tali sono principalmente il Coenophlebia Archidona dellAmerica centrale108 ei diversi tipi di Kallima dellIndia e della Malaisia.(Altri esempi: Le Mythe et lHomme, pp. 133-136.) Vertigine nel volador messicano. Brano tratto dalla descrizione di Guy Stresser-Péan (p. 328). Il capo della danza, o kobal, vestito di una tunica rossa e blu, sale a sua volta e si siede sullultimo masso. Rivolto a oriente, invoca dapprima le divinità benigne, spiegando le ali nella loro direzione e usando un fischietto che imita il verso dellaquila. Poi si alza in piedi sulla cima del palo e, volgendosi successivamente ai quattro punti cardinali, solleva a mo' di offerta una coppa ricavata da una zucca svuotata ricoperta da un telo bianco e una bottiglia di acquavite di cui spruzza fuori, davanti a sé, con la bocca, qualche sorsata. Fatta questa offerta simbolica, si mette in testa il suo pennacchio di penne rosse e prende a danzare ponendosi via via di fronte ai quattro punti cardinali e agitando le ali. Questi cerimoniali eseguiti sulla cima del palo costituiscono la fase che gli Indiani considerano la più emozionante di tutto il rito perché comporta un rischio mortale. Tuttavia, la fase successiva, quella del volo, resta altamente spettacolare. I quattro danzatori, attaccati per la cintola, passano sotto il loro capo e quindi si lasciano andare allindietro. Così sospesi, scendono lentamente fino a terra, descrivendo una grande spirale man mano che le loro corde si srotolano. La difficoltà, per questi danzatori, consiste nellafferrare la corda fra le dita dei piedi in modo da rimanere con la testa ingiù, le braccia allargate, nella posa di uccelli che scendano planando e descrivendo ampi cerchi nel cielo. Quanto al capo, aspetta dapprima qualche istante, quindi si lascia scivolare lungo la corda di uno dei quattro danzatori. Ebbrezza distruttiva di una scimmia cappuccina. Da unosservazione di G.J. Romanes, citata da K. Groos: Osservo che gli piace moltissimo combinare disastri. Oggi, si è impadronito di un bicchiere di vino e di un portauovo. Il bicchiere, lha scagliato a terra con tutta la sua forza e, naturalmente, lha rotto. Essendosi quindi reso conto che non avrebbe potuto rompere il portauovo allo stesso modo, ha cercato intorno a sé qualcosa di duro contro cui poterlo sbattere. Il piede del letto in ottone gli parve atto alluopo: brandì il portauovo reggendolo alto sopra la testa e lo abbatté violentemente contro il piede del letto. Dopo averlo completamente polverizzato, si ritenne soddisfatto. Per spezzare un bastone, lo introduce fra un oggetto pesante e il muro, quindi lo curva e lo spacca. Spesso, distrugge qualche indumento tirando scrupolosamente i fili del tessuto prima di mettersi a strappare il tutto con i denti il più freneticamente possibile. Parallelamente al suo bisogno di distruzione, gli piace anche molto rovesciare degli oggetti, ma fa bene attenzione che non gli cadano addosso. Così, tira a sé una sedia finché questa non perde lequilibrio, quindi fissa attentamente la sommità della spalliera e, quando vede che sta per arrivargli addosso, schizza da parte e aspetta il tonfo, tutto contento. E fa esattamente lo stesso con gli oggetti più pesanti. A esempio, abbiamo una specchiera dal pesante ripiano di marmo che egli è riuscito diverse volte a rovesciare con grande fatica ma senza mai farsi male.109 Sviluppo delle macchinette mangiasoldi. Infatuazione che suscitano. Cè una categoria di giochi che sembrano essenzialmente fondati sulla ripetizione. La loro sterile monotonia, la loro apparente mancanza dinteresse non cessano dincuriosire losservatore. La straordinaria diffusione dei cultori di questi giochi rende il fenomeno ancora più curioso. Penso soprattutto ai solitari in cui si vedono continuamente impegnati degli sfaccendati e alle macchinette mangiasoldi il cui successo, praticamente universale, fornisce altrettanti spunti di riflessione. Nei solitari o pazienze si può individuare almeno una parvenza dinteresse, non tanto a causa delle sporadiche combinazioni fra le quali può a volte esitare il giocatore, e che del resto non lo inducono minimamente a dei calcoli ardui o particolarmente impegnati, quanto perché egli attribuisce a ogni partita il valore di una consultazione del destino. Prima di iniziare il gioco, dopo aver mescolato le carte e al momento di tagliare, egli si pone una domanda o esprime un desiderio. Il buon esito o la mancata riuscita del solitario gli fornisce, in un certo senso, il responso del destino. Sta poi a lui, del resto, ricominciare fin quando non avrà ottenuto la risposta favorevole. Questo carattere oracolare, cui è raro si presti fede, serve almeno a giustificare unattività che, senza questa trovata, sarebbe una ben modesta distrazione. Tuttavia, è gioco nel senso più autentico, poiché si tratta appunto di unazione libera che si esercita allinterno di uno spazio circoscritto (in questo caso, il che ha lo stesso valore, per mezzo di un numero fisso di elementi), sottoposta a regole arbitrarie e categoriche, e, da ultimo, assolutamente improduttiva. Le stesse caratteristiche valgono per le macchinette mangiasoldi, poiché la legge proibisce, più o meno severamente a seconda dei paesi, ma sempre con ugual sollecitudine, che lattrattiva della vincita possa associarsi alla seduzione propria delle macchine. Delle quattro motivazioni profonde fra cui ho creduto di poter suddividere il gran numero dei giochi (dimostrazione di una superiorità personale, ricerca del favore della sorte, ruolo tenuto in un universo fittizio e voluttà della vertigine deliberatamente provocata), nessuna si applica alle macchinette mangiasoldi, se non in minimo grado. Il piacere della competizione è piuttosto debole perché gli interventi del giocatore sono minimi: giusto di che non farne un gioco di puro caso. Ed ecco quindi eliminata anche la seconda categoria: labbandono alla sorte, che è efficace solo se totale e accompagnato da una completa rinuncia a qualunque mezzo atto a piegare o correggere il destino. Quanto al simulacro, che in un primo momento sembrerebbe completamente assente, lo si può tuttavia cogliere, se pure in modo estremamente sbiadito, in primo luogo nellenormità delle cifre assolutamente fittizie che si accendono nelle spie multicolori (i tentativi di introdurre cifre più realistiche si sono rivelati assolutamente negativi, e questo è molto significativo), e in secondo luogo in tutto quello scenario di ragazze poco vestite, sofisticate o genere folk, di auto da corsa e fuoribordo, di corsari e antichi vascelli dalle murate fitte di bombarde, di cosmonauti con lo scafandro e razzi interplanetari, insomma di tutto un armamentario puerile che certo non invita a una identificazione neppure fugace, ma indubbiamente crea unatmosfera vagamente magica sufficiente a distogliere il giocatore dalla monotonia quotidiana. Infine, benché lambiente dei bar sia il meno propizio possibile alla vertigine, e la distrazione presa in esame appaia indubbiamente come una delle meno sconvolgenti che si possano immaginare, una certa ipnosi si produce tuttavia dallobbligo di fissare continuamente delle luci lampeggianti e dallossessione di spingere magicamente fra i corridoi del labirinto, quasi con la pressione di uno sguardo carico di desiderio, una piccola sfera luccicante. Può del resto capitare che la vertigine occupi di gran lunga il primo posto nel piacere ricercato. Penso ad esempio al devastante successo del pachenco del Giappone. Qui, niente luci lampeggianti o labirinti, ma bilie dacciaio scagliate con forza e fracasso allinterno di una spirale che sta di fronte al giocatore. Questi, per aumentare il frastuono e il movimento, fa partire quasi sempre diverse bilie alla volta. I biliardini sono allineati in file interminabili, senza alcun intervallo fra uno e laltro, di modo che i giocatori stanno gomito a gomito, e tutte quelle teste parallele formano a loro volta delle lunghe file. Il fracasso è assordante e lo schiocco delle bilie davvero ipnotico. Qui, il risultato è proprio e soltanto la vertigine, ma una vertigine minore e vana che non è urgente dominare e che il gioco, del resto, non consiste affatto nel dominare. Si tratta di unipnosi provocata da rumori e riflessi luminosi, che cresce su se stessa, si alimenta dei propri effetti e addomestica, per così dire, la vertigine, la riduce alla contemplazione fissa, inebetita, del percorso di una pallina dietro un vetro. Era proprio quel che ci voleva, suppongo, per impoverire, rendere meccanici e mediocri e privare di ogni spessore i giochi di vertigine, in linea di principio i più pericolosi di tutti, e che richiedono spazio, un macchinario complesso e un grande spreco di energie. Lasciando da parte la forma degradata, svilita, di vertigine che gli aggeggi delle fiere sono deputati a procurare, questi giochi esigono perfino, pur nel pieno dellebbrezza aumentata a piacere come turbinar di trottola che si fa girare sempre più vorticosamente, unimperturbabile lucidità, uneccezionale padronanza di nervi e di muscoli, una continua vittoria sul panico dei sensi e delle viscere. Così, da qualunque lato le si consideri e fin nei loro aspetti più aberranti e, da un certo punto di vista, parossistici, le macchinette mangiasoldi costituiscono una sorta di livello minore del gioco. Le capacità personali del giocatore non vengono particolarmente richieste, né egli si aspetta dalla sorte la rovina o la fortuna: paga ogni partita in base a una tariffa sempre uguale. Gli ci vuole inoltre una gran buona volontà per immaginarsi parte del mondo romanzesco evocato dallo scenario del flipper: lalienazione è ben fievole, se non addirittura inoperante. Infine, della vertigine non rimane che la difficoltà di fermarsi, di interrompere unattività così meccanica che non può vantare, da parte sua, che la sua stessa monotonia, e più precisamente la paralisi della volontà che porta con sé. Gli altri passatempi non appaiono necessariamente così scialbi. Fanno anzi decisamente appello a una qualche qualità fisica, o dellintelligenza o dello spirito. Il bilboquet richiede abilità; il solitario, lungimiranza; i cruciverba e i giochi matematici, riflessione e cognizioni; lallenamento sportivo, ostinazione e resistenza. In tutti, una tensione, uno sforzo, la dimostrazione di unabilità, il contrario, insomma, del semi-automatismo di cui gli utenti delle macchinette sembrano accontentarsi. Ora, queste macchinette mangiasoldi sono certamente una caratteristica di uno stile di vita in piena espansione. Le troviamo soprattutto nei locali pubblici, evidentemente perché la presenza di spettatori che commentano la partita e aspettano il loro turno fornisce un utile complemento di eccitazione a unattività in sé piuttosto noiosa. Nei bar, la proliferazione di questi aggeggi sostituisce quasi del tutto i giochi che vi erano in auge una cinquantina danni fa e vi attiravano una clientela di habitués: le carte, la tavola reale, il biliardo. Ho accennato al Giappone: si è calcolato che il 12% del reddito nazionale, negli anni del maggiore successo di questo passatempo, era speso in gettoni infilati nelle fessure dei pachencos. Negli Stati Uniti, la moda delle macchinette mangiasoldi assume proporzioni insospettate. Dà origine a delle vere e proprie ossessioni. In occasione di una ricerca condotta da una commissione del Senato americano nel marzo 1957, il 25 dello stesso mese la stampa ha fornito i dati seguenti: Nel 1956 sono state vendute trecentomila macchinette mangiasoldi costruite da quindicimila operai nelle cinquanta fabbriche sorte per lo più nei dintorni di Chicago. Queste macchinette non sono popolari solo a Chicago, Kansas City o Detroit per non parlare di Las Vegas, la capitale del gioco ma anche a New York. Ogni giorno, ogni notte, nel cuore di New York, in pieno Times Square, Americani di tutte le età, dallo studente allanziano, dilapidano in unora, nella vana speranza di una partita gratuita, il loro argent de poche o la pensione della settimana. 1485 Broadway: Playland in gigantesche lettere al neon che eclissano linsegna di un ristorante cinese. In unimmensa hall senza porta, decine e decine di macchinette multicolori sono allineate in ordine perfetto. Davanti a ogni macchina, un comodo sgabello in pelle che ricorda quelli dei più eleganti caffè degli Champs-Elysées permette al giocatore di trattenersi anche delle ore, se è entrato con abbastanza denaro. Ha perfino davanti a sé un portacenere e un piccolo spazio riservato allhot dog e alla coca cola, il pasto nazionale degli Americani meno privilegiati, che può ordinare senza neanche muoversi dal suo posto. Con una moneta da dieci cents (40 franchi) o da 25 cents (100 franchi), può provare a totalizzare il numero di punti che gli consente di vincere dieci pacchetti di sigarette. Nello Stato di New York, infatti, le vincite in contanti non sono autorizzate. Un baccano infernale copre la voce di Louis Armstrong o di Elvis Presley che accompagnano, al grammofono, gli sforzi degli sportivi della monetina, come li chiamano qui. Ragazzi in blue jeans e giubbotto di pelle stanno gomito a gomito con anziane signore dal cappellino a fiori. I ragazzi scelgono le macchinette con il bombardiere atomico o il razzo teleguidato; le signore prediligono il love meter che rivela loro se potranno ancora innamorarsi, mentre i bambini, per 5 cents, si fanno sballottare fino alla nausea su un asino che assomiglia piuttosto a uno zebù. E ci sono anche il marinaio o laviatore che, senza troppa convinzione, sparano con una rivoltella (D. Morgaine). Si calcola che gli Americani spendano dunque quattrocento milioni di dollari allanno al solo scopo di scagliare delle bilie dacciaio contro dei contatti luminosi, attraverso differenti ostacoli. Come si può facilmente immaginare, una simile passione non manca di influenzare la delinquenza giovanile. Nel 1957, ad esempio, i giornali americani segnalavano larresto, a Brooklyn, di una banda di ragazzini guidata da un ragazzo di dieci anni e da una bambina di dodici. Rapinavano i commercianti del quartiere ed erano arrivati a mettere insieme circa mille dollari. Ma quello che premeva loro erano solo le monetine da 10 e da 5 cents che potevano utilizzare nelle macchinette. Le banconote gli servivano solo ad avvolgere il bottino e dopo le gettavano nel bidone delle immondizie. Non è facile trovare una spiegazione a un simile fanatismo. Ne esistono tuttavia alcune che sono forse più ingegnose che persuasive. La più sottile (e la più significativa) è senza dubbio quella proposta da Julius Segai nellarticolo The Lure of Pinball su Harpers dellottobre 1957 (vol. 215, n. 1289, pp. 44-47). Questo saggio si presenta al tempo stesso come una confessione e come unanalisi. Ripeto in questa sede il commento che ne avevo fatto a suo tempo. Dopo i riferimenti dobbligo a un qualche simbolismo sessuale, lautore rileva essenzialmente, nel piacere dispensato dalle macchinette mangiasoldi, un sentimento di vittoria contro la tecnica moderna. La parvenza di calcolo cui il giocatore si abbandona prima di proiettare la bilia, non gli serve molto, ma gli pare qualcosa di sublime: Gli sembra di giocare solo, con la sua abilità, contro tutte le risorse dellintera industria americana. Il gioco sarebbe dunque una sorta di competizione fra labilità individuale del singolo e un immenso meccanismo anonimo. Con una moneta (reale), egli rischia di vincere dei milioni (fittizi), perché i punteggi si fanno sempre con numeri dai molti zeri. Infine, cè anche la possibilità di barare scuotendo il flipper. Il tilt indica solo un limite da non superare. È una deliziosa minaccia, un rischio supplementare, una sorta di secondo gioco dentro il primo. Julius Segai confessa stranamente che, in caso di depressione, gli capita di fare un giro di mezzora finché non trova la sua macchinetta preferita. Allora gioca, confidando nella possibilità terapeutica di vincere. Ed esce, rassicurato circa il suo talento e le sue possibilità di successo. La depressione è sparita, laggressività placata. Egli ritiene che il comportamento di un giocatore davanti al biliardino sia altrettanto rivelatore della personalità del test di Rorschach. A sentir lui, ogni giocatore cercherebbe di provare a se stesso che può battere le macchine sul loro stesso terreno. Immagina di dominare la meccanica e accumulare unenorme fortuna in cifre luminose iscritte sulla spia del flipper. Vi riesce da solo e può rinnovare lexploit a volontà. Con una moneta, egli esteriorizza la propria irritazione e ottiene che il mondo si comporti docilmente. Avevo riassunto il saggio di Segai senza discuterlo. Il mio concetto me lero comunque già fatto. Mi pare infatti che la maggior parte degli utenti dei flipper o delle macchinette mangiasoldi assomiglino molto poco a Segai e siano ben lontani, in particolare, dal provare lo stesso fervore vendicativo azionando il pulsante dellaggeggio. Cè forse, nelle sue confessioni, più fantasia che osservazione obiettiva: tutto avviene come se lautore del saggio, romanzando unabitudine della quale probabilmente si vergognava un po, si fosse sforzato di scoprirle delle dimensioni psicologiche atte a renderla interessante e, per così dire, onorevole, se non addirittura igienica. La macchinetta mangiasoldi può difficilmente apparire come unimmagine delluniverso meccanico vinto e reso obbediente: essa non è minimamente docile o placante, è piuttosto irritante e ciecamente inflessibile. Il giocatore, di solito, sinnervosisce più che bearsi del proprio trionfo. E lascia la macchina con un senso di frustrazione, furente per aver speso del denaro senza alcun risultato, adirato contro quel congegno meccanico che, ovviamente, non ha colpa ma cui egli rimprovera puerilmente di essere sbilanciato o difettoso nel funzionamento, e insomma di averlo fatto perdere. In realtà, si sente imbrogliato. E non abbandona affatto quellordigno riconciliato con esso, ma amareggiato e furente contro se stesso. I milioni che si accendevano sul quadrante sono spariti ed egli è un po più povero di prima. Penso che, nel caso di Segai, la componente terapeutica, che egli tiene in gran conto, non sia consistita tanto nel giocare quanto nel ragionare sul gioco. Lesistenza e il successo delle macchinette mangiasoldi non possono che rivelare unincrinatura, un punto debole, nella posizione di chi fosse persuaso della fecondità culturale dei giochi fino a vedervi uno dei principali fattori di civiltà. Egli dovrà ormai tenerne conto; aveva già rilevato che i giochi non sono ugualmente fecondi e che alcuni, più di altri, favoriscono un positivo sviluppo dellarte, della scienza e della morale, nella misura in cui obbligano maggiormente al rispetto della regola, alla lealtà, alla padronanza di sé, al disinteresse, o esigono una dose maggiore di calcolo, dimmaginazione, di pazienza, di destrezza o di forza. Ma ecco che si imbatte in giochi vacui, privi di valore, giochi che non esigono alcunché dal giocatore e sono semplice e sterile occupazione di tempo libero. Giochi siffatti uccidono, letteralmente, il tempo senza fecondarlo, mentre i giochi veri gettano un seme, lo fanno fruttificare a lungo termine, quasi a caso, a ogni modo senza uno scopo prefissato e come un premio aggiunto al piacere. Al contrario, quegli pseudo-giochi che non mettono niente in gioco non servono che a sostituire la noia con una routine mascherata da divertimento. Le macchinette mangiasoldi e, secondariamente, i solitari rivelano dunque che, vicino ai veri giochi che sono sempre attività, mobilitazione di una qualche risorsa o prova di grande padronanza di sé, esistono delle distrazioni illusorie che, riempiendo le ore dozio, assumono lapparenza di giochi. Esse rafforzano la tendenza alla passività e al disimpegno. Non inducono quindi lo spirito a una fertile deriva, il che si riallaccerebbe a unaltra forma di gioco che ha spesso un nome ben preciso nelle lingue orientali, e che, nellambito della fantasticheria e del pensiero in libertà, possiede una sua particolare efficacia. Queste distrazioni -e chiamarle così è dunque un controsenso- raggelano invece e per così dire paralizzano limmaginazione. Esse bloccano, fissano lattenzione su una pericolosa monotonia, appena sufficientemente diversificata da non stancare, ma abbastanza ossessionante da addormentare e incantare le coscienze. Né il moralista né il sociologo possono scorgere un sintomo positivo nelleccessivo diffondersi e fiorire di questa sorta di inganno. Forse, questo è il prezzo di uno sforzo smisurato che non permette più allindividuo quel tanto di iniziativa e di vitalità per cui la distensione che si accorda non sia torpore e coma delle sue facoltà, ma intensità liberamente espressa, certo improduttiva al momento, ciò nondimeno tanto più fruttuosa a lungo termine e su un piano diverso da quello del lavoro e dei doveri. CAPITOLO 4. DEGENERAZIONE DEI GIOCHI Giochi dazzardo, oroscopi e superstizione. A titolo desempio, ecco i consigli di Mithuna su un numero preso a caso di un qualunque settimanale femminile (La Mode du Jour, 5 gennaio 1956): Quando vi consiglio (con tutte le riserve della semplice logica) di preferire, se è possibile, un dato numero a un altro, non alludo soltanto alla cifra finale, come si fa di solito... Intendo anche la cifra data dal numero ricondotto allunità. Ad esempio, 66.410 riportato allunità fa: 6+6+4+1 = 17 = 1 + 7 = 8. Benché non contenga alcun 8, questo numero potrebbe essere scelto da quelle cui segnalo i favori dell8. Dovete ricondurre i numeri allunità, tranne il 10 e l11 che sono da prendere così come sono. E adesso, non vi dico buona fortuna. Ma se (per caso) vincete, abbiate la cortesia di comunicarmi la buona notizia, indicandomi la vostra data di nascita. Tanti auguri!... ugualmente, e di cuore! Le precauzioni prese dalla responsabile della rubrica appaiono evidenti. Tuttavia, data la varietà dei procedimenti indicati, il gran numero delle lettrici e il numero esiguo delle cifre, essa può prevedere un notevole coefficiente di inevitabili successi che, come è giusto, saranno i soli a essere presi in considerazione dalle interessate. In questo campo, il colmo mi è sembrato raggiunto dallabituale oroscopo del settimanale Intimité (du foyer). Come le altre riviste, il settimanale dà dei consigli ai nati di ogni decade per la settimana in corso. Ora, dato che questo periodico è destinato soprattutto alle campagne e la posta o la diffusione possono subire dei ritardi, né loroscopo né il numero della rivista recano la data! Inclinazione agli stupefacenti da parte delle formiche. Osservazioni di Kirkaldy e Jacobson, citate da W. Morton Wheeler
(op. cit., p. 310). Linsetto, appostato ai margini di
una teoria di formiche che si muovono in cerca di cibo, formiche comuni
in India, Hypoclinea bituberculata, tiene docchio i movimenti
di una di queste e, quando essa si avvicina, solleva la parte anteriore
del proprio corpo in modo da scoprire i suoi tricomi. Il loro odore
attira la formica e la stimola a leccarli e mordicchiarli. Il Ptilocerus
si riabbassa lentamente, ripiegando semplicemente le zampe anteriori
sulla testa della formica, come se fosse sicuro di farne la sua preda.
Spesso, la formica morde così avidamente i tricomi con le sue
mandibole che scuote il Ptilocerus dallalto in basso. Ma la
secrezione della ghiandola ha, sulla formica, un effetto tossico paralizzante.
Non appena la povera bestia tira fuori le zampe e vuole posarsi, il
Ptilocerus lafferra con le zampe anteriori, conficca la sua
tromba in una delle suture toraciche o preferibilmente nel punto dinse CAPITOLO 7. SIMULACRO E VERTIGINE Meccanismo delliniziazione. I Bobo (dellAlto Volta) propongono, in modo più rozzo, un sistema di istituzioni religiose abbastanza simile a quello dei Bambara. Do è il nome generico che, in questa regione, designa le società religiose in cui ci si maschera con unacconciatura di foglie e fibre vegetali e con delle maschere di legno che rappresentano teste di animali, e contemporaneamente designa la divinità che presiede a queste cerimonie e cui è consacrato, nei diversi villaggi o quartieri di villaggio, un albero attiguo a un pozzo anchesso consacrato alla divinità. Le maschere (Koro, plur. Kora, Simbo, plur. Simboa) sono preparate e portate dai giovani di una certa fascia detà; il diritto di penetrarne il mistero, di indossarle ed esercitare nei confronti dei non iniziati diversi privilegi viene a un certo momento acquisito dai ragazzi della fascia detà più giovane, i quali, divenuti più grandi e stanchi dessere perseguitati e sottoposti a ogni specie di angherie da parte delle maschere, chiedono di conoscere le cose del Do. Consigliati dagli anziani del villaggio, e dopo alcune trattative con i capi delle fasce detà più avanzata, fanno accogliere la loro richiesta previa unofferta rituale agli anziani. Lacquisizione del Do, vale a dire la rivelazione del segreto delle maschere, svolge qui il ruolo che svolgono altrove le cerimonie della pubertà. Le usanze naturalmente variano a seconda delle località. Dalle relazioni un po confuse ma pittoresche ed estremamente vive degli informatori del Dr. Cremer, prenderemo in considerazione solo due schemi cerimoniali. In uno di questi, che è facilmente deducibile dalle testimonianze concordanti di due informatori, la cerimonia della rivelazione delle maschere si riduce a un simbolismo il cui carattere estremamente primitivo non manca, nella sua semplicità, di una certa grandezza. Se in un quartiere del villaggio ci sono molti bambini della stessa età e della stessa statura, gli anziani dicono che è giunto il momento di fare uscire le maschere. Il capo del Do avverte i giovani già iniziati che devono confezionare e indossare i costumi e le acconciature di fogliame, rito che viene puntualmente eseguito nel corso dellintera giornata. Verso sera, le maschere si mettono in cammino e vengono a sedersi nei pressi del villaggio in attesa che cada la notte; gli anziani li circondano. Giunta la notte, il sacerdote del Do chiama i parenti e i neofiti che recano le offerte tradizionali e i polli per il sacrificio. Quando i fanciulli sono tutti riuniti, il sacerdote viene fuori con una scure e batte alcuni colpi a terra per chiamare le maschere. Si fanno sdraiare i bambini e si copre loro la testa. Una maschera arriva di corsa, salta intorno ai fanciulli, li spaventa con certi suoni che trae da una specie di fischietto chiamato piccola maschera. Dopo di che, il vecchio dice ai bambini di alzarsi, di inseguire e acciuffare la maschera che scappa. Essi le corrono dietro e finiscono per acchiapparla. Il vecchio allora li interpella; sanno chi è la creatura così coperta di foglie? Per farglielo sapere, strappa la maschera dal volto del personaggio e i bambini lo riconoscono immediatamente. Ma, al tempo stesso, li si avverte che rivelare il segreto a quelli che ancora lo ignorano vuol dire attirare la morte su di sé. È stata appunto scavata una fossa; è quella che si aprirebbe davanti a loro se tradissero il segreto ed è probabilmente anche quella in cui devono seppellire la personalità infantile che stanno per abbandonare. Simbolicamente, ogni bambino deve deporre nella buca alcune foglie strappate al costume del personaggio mascherato. Quando la fossa viene richiusa, il bambino la suggella con forza premendola e battendovi sopra con la mano. Ai riti di uscita dal luogo diniziazione e di rientro al villaggio, il bagno rituale è ridotto al minimo: ogni bambino, passando, tuffa la mano in un recipiente che contiene dellacqua. Il giorno dopo, i giovani conducono i nuovi iniziati nella boscaglia e insegnano loro a intrecciare il costume e ad addobbarsene. Questa è lusanza. Quando si è svelato il segreto a una persona, questa si fa vedere in giro, passeggia, è in vita; chi invece non ha avuto la rivelazione, non è in vita. Materiali di Etnografia e Linguistica sudanese, t. IV, 1927 (secondo alcuni documenti raccolti dal Dr. J. Cremer e pubblicati da H. Labouret). Esercizio del potere politico da parte delle Maschere. Caso della società Kumang della Nigeria raffrontato da H. Jeanmaire con la cerimonia descritta da Platone (Critone, 120 B) per il mutuo giudizio dei dieci re dellAtlantide: Lautorità sociale, qui, non era tanto nelle mani dei capi del villaggio che erano tali per diritto di discendenza, quanto in quelle dei dirigenti delle società segrete, strumenti degli Anziani. Quella del Kumang (che sarebbe analoga al Komo bambara), ora in declino, ha lasciato il ricordo stranamente leggendario dei riti sanguinari che perpetrava; questi riti si celebravano ogni sette anni; vi erano ammessi solo gli Anziani che avevano raggiunto il più alto grado della scala sociale, e il luogo in cui si svolgeva la festa era vietato alle donne, ai ragazzi e perfino ai giovani. Gli anziani ammessi alla cerimonia dovevano provvedere, oltre alla birra, un toro nero destinato al sacrificio. Lanimale veniva immolato, e quindi acconciamente appeso al tronco di una palma. I celebranti dovevano inoltre munirsi di un costume cerimoniale che consisteva, oltre che in un copricapo, in un paio di pantaloni e un camice di color giallo. La convocazione aveva luogo a cura del presidente della confraternita e lannuncio provocava grande fervore e agitazione in paese; il luogo di riunione era una radura nella foresta; i confratelli prendevano posto seduti tuttintorno al capo (mare) che a sua volta sedeva su un vello di montone nero che copriva una pelle umana. Ogni confratello si era preoccupato di portare i propri veleni e intrugli magici (Korti dei Bambara). I primi sette giorni erano occupati da sacrifici, banchetti e chiacchiere. È probabile che i colloqui che avvenivano a questo punto avevano lo scopo principale di arrivare a unintesa circa le persone da far sparire. Passati i sette giorni, aveva inizio la parte essenziale del mistero. Esso si celebrava ai piedi di un albero sacro che si riteneva fosse la Madre del Kumang e il cui legno serviva effettivamente alla fabbricazione delle maschere del Kumang. Ai piedi dellalbero era sistemata una fossa in fondo alla quale si celava la maschera che personificava anche il dio di quella società e, come tale, indossava uno stravagante costume di piume. Il giorno stabilito, verso la fine del pomeriggio, mentre i confratelli stavano seduti in cerchio, la faccia rivolta allinterno, la maschera cominciava a fuoriuscire dalla fossa. Lo stregone sottolineava quellapparizione con un canto che veniva ripreso dalla maschera e al quale rispondevano in coro i membri della confraternita. La maschera si metteva quindi a danzare; dapprima piccola piccola, si faceva poco a poco sempre più grande. Abbandonata la fossa, lessere demoniaco ora danzava intorno al cerchio formato dai confratelli che, girandogli le spalle, accompagnavano con dei battimani la sua danza. Chi si girava, moriva. Del resto, da quando la maschera, che continuava a crescere, aveva iniziato la sua danza, la morte aveva preso a mietere vittime fra la gente. La danza continuava per tre giorni di seguito nel corso dei quali la maschera rispondeva in forma oracolare alle domande che le venivano poste; le risposte valevano per i sette anni che dovevano passare prima della cerimonia seguente; allo scadere di questi tre giorni, la maschera pronunciava la sua sentenza anche sulla sorte del capo della confraternita e annunciava se egli dovesse assistere o no alla festa seguente; in caso negativo, era destinato a morire più o meno rapidamente nel corso del nuovo settennio e si provvedeva immediatamente alla sua sostituzione. A ogni modo, durante quelle giornate, molte erano le vittime che cadevano, sia fra la popolazione che nella cerchia degli anziani. (Secondo K. Frobenius, Atlantis, Volksmärchen und Volksdichtungen Afrikas, v. VIII. Dämonen des Suden, 1924, pp. 89 e seg.). CAPITOLO 8. COMPETIZIONE E CASO Intensità dellidentificazione con il divo. Un esempio: il culto di James Dean. Nel 1926, numerosi suicidi seguirono la morte dellattore Rodolfo Valentino. Alla periferia di Buenos Aires, nel 1939, parecchi anni dopo la morte del cantante di tango Carlos Gardel, rimasto carbonizzato in un incidente di volo, due sorelle si avvolsero in lenzuola imbevute di petrolio e si dettero fuoco per morire come lui. Delle adolescenti americane, per rendere omaggio in comune a un cantante di loro gusto, si riunivano in gruppi frenetici e costituivano dei club che si chiamavano, ad esempio: Quelle che svengono vedendo apparire Frank Sinatra. Oggi, la Warner Brothers, per la quale lavorava James Dean, morto prematuramente nel 1956 allinizio del culto di cui era oggetto, riceve circa mille lettere al giorno da parte di ammiratrici sconsolate. La maggior parte di queste lettere comincia così: Caro Jimmy, so che non sei morto... Un servizio speciale si incarica di evadere questa bislacca corrispondenza postuma. Quattro periodici sono esclusivamente dedicati alla memoria dellattore. Uno di questi ha per titolo: James Dean ritorna. E corre voce che non esista alcuna fotografia del funerale dellattore perché questi, sfigurato, non è morto ma si è ritirato dal mondo. Molte sedute spiritiche evocano lo scomparso: egli ha dettato a una commessa di un grande magazzino di nome Joan Collins una lunga biografia in cui afferma di non esser morto e che quelli che dicono che non è morto hanno ragione. Lopera è stata venduta in cinquecentomila esemplari. Su uno dei più importanti quotidiani parigini, uno storico competente, sensibile a tutti i sintomi rivelatori dellevoluzione del costume, è rimasto impressionato dal fenomeno. E scrive: Si piange in lunghe processioni sulla tomba di James Dean, come Venere piangeva sulla tomba di Adone. Sottolinea opportunamente che gli sono state dedicate ben otto pubblicazioni con una tiratura di cinquecento o seicentomila copie, e che il padre del divo sta scrivendo la sua biografia ufficiale. Alcuni psicanalisti, continua il giornalista, scandagliano il suo subconscio basandosi sui suoi sproloqui da bar. Non cè città, negli Stati Uniti, che non abbia il suo club James Dean in cui le fans comunicano nel ricordo di lui e venerano le sue reliquie. I membri di queste associazioni sono valutati in tre milioni e ottocentomila. Dopo la morte del divo, i suoi indumenti, tagliati in mille pezzi, sono stati venduti in ragione di un dollaro al centimetro quadrato. La macchina al volante della quale James Dean si è accidentalmente ucciso correndo a centosessanta chilometri allora è stata restaurata e portata in giro in tutte le città. Per venticinque cents, si era ammessi a contemplarla. Per cinquanta, ci si poteva sedere per qualche secondo al volante. Finita la tournée, la macchina è stata fatta a pezzi con la fiamma ossidrica e i rottami venduti. allasta.110 Reviviscenze della vertigine nelle civiltà organizzate: gli incidenti del 31 dicembre 1956 a Stoccolma. Lepisodio in sé è minimo, un fenomeno passeggero, ma rivela a che punto lordine costituito sia fragile esattamente nella misura in cui è rigoroso, e come le irrazionali potenze di vertigine siano sempre pronte a riprendere il sopravvento. Riporto qui lacuta analisi della corrispondente di Le Monde nella capitale svedese: La sera del 31 dicembre, come Le Monde ha segnalato, cinquemila giovani hanno invaso la Kungsgatan -larteria principale di Stoccolma- e, per circa tre ore, hanno occupato la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, spaccando vetrine e tentando infine di innalzare delle barricate con inferriate e stipiti divelti dalla vicina piazza del mercato. Contemporaneamente, altri gruppi di giovani vandali rovesciavano le antiche pietre tombali che circondano la chiesa vicina e lanciavano dallalto del ponte che attraversa Kungsgatan sacchetti di carta pieni di benzina cui era stato dato fuoco. Tutte le forze di polizia disponibili vennero concentrate in tutta fretta sul posto. Ma il loro numero irrisorio un centinaio di uomini appena rendeva molto difficile il compito. Solo dopo diverse cariche a sciabola sguainata e colluttazioni varie a dieci contro uno, i poliziotti riuscirono a spuntarla. Molti di loro, mezzo linciati, dovettero essere ricoverati allospedale. Una quarantina di manifestanti sono stati arrestati; letà varia dai quindici ai diciannove anni. È stata la manifestazione più grave che si sia mai svolta nella capitale, ha dichiarato il prefetto di polizia di Stoccolma. Questi avvenimenti hanno suscitato nella stampa e negli ambienti responsabili del paese unondata dindignazione e di preoccupazione che è ancora ben lungi dal placarsi. I pedagoghi, gli educatori, la Chiesa, le innumerevoli organizzazioni sociali che in Svezia sono attivamente operanti allinterno della comunità, sinterrogano angosciosamente sulle cause di questa assurda esplosione. Il fatto in sé non è neppure inedito: tutti i sabato sera, analoghe risse e scene di violenza hanno luogo nel centro di Stoccolma e delle principali città di provincia. Tuttavia, è la prima volta che questi incidenti raggiungono tale ampiezza. Essi presentano un carattere quasi kafkiano di angoscia. Perché questi moti non sono né concertati né premeditati; la manifestazione non ha origine né per qualcosa, né contro qualcuno. Inesplicabilmente, decine, centinaia, e lunedì migliaia, di giovani si trovano in quel punto. Non si conoscono fra loro, non hanno niente in comune se non letà, non obbediscono a una parola dordine né a un capo. Sono, in tutta la tragica accezione della parola, dei ribelli senza causa. Per lo straniero che, sotto altri cieli, ha visto dei ragazzi farsi uccidere per un ideale, questa rissa senza coscienza appare tanto incredibile quanto incomprensibile. Almeno si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto per mettere un po di paura ai borghesi; questo, in un certo senso, ci rassicurerebbe. Ma i volti di questi adolescenti sono chiusi, cattivi. Non si divertono. Esplodono improvvisamente in una cieca follia di muta distruzione. Perché la cosa forse più impressionante, in quella torma di violenti, è il loro silenzio. In un suo ottimo lavoro sulla Svezia, François-Régis Bastide aveva già scritto: ... questi oziosi in preda al terrore della solitudine [che] si radunano, si pigiano insieme come tanti pinguini, si accalcano, ringhiano, sinsultano fra i denti, si saltano addosso riempiendosi di botte senza un grido, senza una parola comprensibile... A parte la famosa solitudine svedese e langoscia animale mille volte descritta e suscitata dalla lunga notte dinverno che comincia alle due del pomeriggio per dissiparsi in un vago grigiore alle dieci del mattino, dove cercare la spiegazione di un fenomeno di cui si ritrova leco, sotto forme diverse, in tutti i serbatoi di violenza dEuropa o dAmerica? La spiegazione che si può trovare qui, in Svezia, dove i fatti spiccano forse con maggior nettezza, è altrettanto valida per i vandali del rockn roll o le bande motorizzate dAmerica, senza dimenticare i teddy boys londinesi. A quale gruppo sociale appartengono, prima di tutto, questi giovani ribelli? Vestiti come i loro colleghi americani con dei giubbotti di pelle sui quali spiccano teschi e iscrizioni cabalistiche, essi sono, come loro, per la maggior parte figli di operai o di piccoli impiegati. Apprendisti o commessi di negozio essi stessi, questi giovani percepiscono, alla loro età, salari che avrebbero fatto sognare le generazioni precedenti. Questo relativo benessere, e, in Svezia, la certezza di un avvenire garantito, abolisce in loro langoscia del domani e contemporaneamente rende inutile laggressività un tempo necessaria per farsi un posto al sole. Altrove, è invece leccessiva difficoltà a sfondare in un mondo in cui la fatica quotidiana è sottovalutata a beneficio della gloria dei divi del cinema o dei gangster, che genera disperazione. In ambedue i casi, laggressività, privata di un valido campo dazione, esplode allimprovviso in un accesso di furia cieca e priva di senso... Eva Freden. (Le Monde, 5 gennaio 1957.) CAPITOLO 9. REVIVISCENZE NEL MONDO MODERNO La maschera: attributo dellintrigo amoroso e della cospirazione
politica: simbolo di mistero e dangoscia: suo carattere torbido. Bouligneux, luogotenente generale, e Wartigny, maresciallo di campo, furono uccisi davanti a Venie; due uomini di grande valore, ma assolutamente singolari. Linverno precedente, si erano fatte diverse maschere di cera raffiguranti personaggi della Corte al naturale, e le si portavano sotto altre maschere in modo che, togliendo la prima, si cadeva nellinganno prendendo la seconda maschera per il volto, mentre quello vero, del tutto diverso, era sotto. Ci si divertì molto, a quello scherzo. Tornato linverno, si volle ripetere lallegra trovata. Grande fu la sorpresa quando si trovarono tutte le maschere che raffiguravano dei volti veri in ottimo stato di freschezza e quali eran state riposte dopo il carnevale, tranne quelle di Bouligneux e di Wartigny che, pur conservando la loro perfetta rassomiglianza con i due personaggi, avevano il pallore e la macilenza di persone appena morte. Le due maschere fecero la loro apparizione a un ballo e suscitarono tanto orrore che si cercò di accomodarle con del belletto, ma il belletto dileguava allistante, e a quel pallore non si potè por rimedio. Questo fatto mi è parso così straordinario che lho ritenuto degno desser riferito, ma mi sarei ben guardato dal farlo se tutta la Corte non fosse stata, come me, testimone altamente sbigottita, e più di una volta, di questa inquietante stranezza. Alla fine, le due maschere furono gettate via. Mémoires di Saint-Simon, Bibliothèque de la Plèiade, t. II, cap. XXIV (1704), 1949, pp. 414-415. Nel XVIII secolo, la civiltà di Venezia è in parte una civiltà della maschera. Essa serve agli usi più diversi e il suo impiego è regolamentato. Ecco, secondo Giovanni Comisso, quello della bautta (Agenti segreti veneziani nel 700, documenti scelti e pubblicati da Giovanni Comisso, Bompiani, 1945, pp. 40-41, nota 1): La bautta consisteva di un mantellino con cappuccio nero e maschera. Il nome ha origine dalla voce: bau bau, colla quale si fa paura ai bambini. Tutti la portavano a Venezia incominciando dal Doge quando voleva liberamente andare per la città. Ai nobili, uomini e donne, era imposta nei pubblici ritrovi per frenare il lusso e anche per impedire che la classe patrizia venisse menomata nella dignità trovandosi a contatto col popolo. Nei teatri i portinai dovevano controllare che i nobili avessero la bautta sul volto, ma entrati nella sala se la sollevavano a loro piacimento. I patrizi quando dovevano abboccarsi per ragioni di Stato con gli ambasciatori dovevano pure avere la bautta, e il cerimoniale la prescriveva anche per gli ambasciatori in questa occasione. La maschera è il volto; lo zendale è un velo nero che avvolge la testa; il tabarro, un mantello leggero che si indossa sopra gli altri vestiti. Lo si porta per cospirare e per recarsi in luoghi malfamati. È per lo più di colore scarlatto. La legge, in linea di principio, proibisce ai nobili dindossarlo. Vengono infine i travestimenti da carnevale a proposito dei quali Giovanni Comisso dà le precisazioni seguenti: Fra i vari tipi di mascherate che si usavano durante il Carnevale vi erano: le gnaghe, uomini vestiti da donna o anche no, che imitavano le voci stridule di certe donne, i tati, che figuravano come grandi ragazzi stupidi, i bernardoni, camuffati da mendicanti afflitti da deformità e da malattie, i pitocchi, vestiti come straccioni. Giacomo Casanova durante un Carnevale, a Milano, ideò una mascherata originale di pitocchi: prese per sé e per i suoi compagni bellissimi e preziosi abiti che strappò in varie parti a colpi di forbice e gli strappi li fece rattoppare con stoffe ugualmente preziose di diversi colori. (Mémoires, tomo V, cap. XI.)111 Laspetto rituale, stereotipato, della mascherata è chiaramente percepibile ed era evidente fin verso il 1940 nel Carnevale di Rio de Janeiro. Fra gli autori moderni che hanno analizzato più felicemente il turbamento che emana dalluso della maschera, Jean Lorrain può rivendicare un posto di primo piano. Le riflessioni che fanno da introduzione al racconto Lun deux nella sua raccolta di novelle Histoires de Masques (Parigi, 1900. Prefazione di Gustave Coquiot, pure sulle maschere, ma insignificante) meritano dessere riportate: Il mistero seducente e repellente della maschera: chi potrà mai svelarne la tecnica, spiegarne le ragioni e dimostrare logicamente il bisogno imperioso cui cedono, in determinati giorni, alcuni esseri, di truccarsi, mascherarsi, mutare la loro identità, cessar dessere quelli che sono; in una parola, di evadere da se stessi? Quali istinti, quali appetiti, quali speranze e bramosie, quali malattie dellanima sotto i finti nasi e i finti menti di cartapesta grossolanamente colorata, il raso luccicante delle mascherine o il panno bianco dei cappucci! In quale ebbrezza di hascish o di morfina, in quale oblio di sé, in quale equivoca e sciagurata avventura sprofondano, nei giorni di carnevale, quei penosi e grotteschi cortei di domino e penitenti? Sono chiassose, queste maschere, esuberanti nei gesti, e tuttavia la loro allegria ha qualcosa di triste; sono più degli spettri che degli esseri vivi. Come fantasmi, procedono per lo più avviluppati in ampie palandrane e, come fantasmi, celano il loro volto. Perché non vampiri sotto quei larghi camagli che racchiudono volti pietrificati di velluto o di seta? Perché non scheletri, sotto quelle morbide bluse da Pierrot drappeggiate a mò di sudari su tibie incrociate? Questa umanità, che si nasconde per mescolarsi alla folla, non è già contro natura, non è già fuorilegge? È chiaramente malvagia poiché vuol mantenere lincognito, malintenzionata e colpevole poiché cerca dingannare e lipotesi e listinto; beffarda e macabra, essa riempie di confusione, lazzi e clamori lesitante stupore delle strade, fa voluttuosamente rabbrividire le donne, terrorizza i bambini e suggerisce pensieri ignobili agli uomini, improvvisamente turbati dallambiguità sessuale dei travestimenti. La maschera è laspetto torbido e inquietante dellignoto, il sorriso della menzogna, lanima stessa della perversità che sa corrompere terrorizzando; è la lussuria resa più piccante dalla paura, il rischio delizioso e sottilmente angoscioso di una sfida lanciata alla curiosità dei sensi: Sarà brutta? Sarà bello? Giovane? Vecchia? È lavventura galante condita di macabro e resa piccante, chissà, da una punta di turpitudine e di sadismo; infatti, dove mai finirà lavventura? In una camera ammobiliata o nella palazzina di una mondana dalto bordo, o forse in questura, perché anche i ladri si travestono per portare a segno i loro colpi, e, con le loro provocanti e terribili finte sembianze, le maschere sono proprie sia del luogo malfamato che del cimitero: cè in esse del delinquente, della donnina allegra e dello spettro. (Histoires de Masques, pp. 3-6)
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