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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine di Roger Caillois
Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A.

2. DALLA PEDAGOGIA ALLA MATEMATICA

Il mondo dei giochi è così svariato e complesso che esistono innumerevoli modi di affrontarne lo studio. Psicologia, sociologia, aneddotica, pedagogia e matematica si dividono un campo la cui unità finisce col non essere più percettibile. Non solo opere quali Homo ludens di Huizinga, Jeu de l’Enfant di Jean Chateau e Theory of Games and Economie Behavior di Neumann e Morgenstern non si rivolgono agli stessi lettori, ma sembra che non trattino neppure lo stesso soggetto. Alla fine, ci si domanda in quale misura ci si avvalga delle facilità o delle accidentali contingenze del vocabolario continuando a immaginare che ricerche diverse, e quasi fra loro incompatibili, riguardino in fondo una stessa attività specifica. Si arriva a dubitare che il gioco possa essere definito in base a dei caratteri comuni e che, di conseguenza, possa essere legittimamente oggetto di uno studio d’equipe.

Se, nell’esperienza corrente, il campo del gioco conserva nonostante tutto la sua autonomia, esso l’ha manifestamente persa per quanto riguarda la ricerca dotta. Non si tratta soltanto di approcci diversi, dovuti alla diversa natura delle varie discipline. I dati che ogni volta vengono studiati sotto il nome di giochi sono così eterogenei che si è portati a presumere che la parola gioco sia forse un semplice inganno che, con la sua ingannevole generalità, alimenta illusioni tenaci circa la supposta affinità di comportamenti disparati.

Non è privo d’interesse indicare quali modi di procedere, a volte quali fatti del tutto casuali, hanno portato a un cosi paradossale frazionamento. Infatti, la curiosa divisione si profila fin dall’inizio. Chi gioca alla cavallina, al domino o all’aquilone, sa di giocare in tutti e tre i casi: ma solo gli psicologi dell’infanzia s’interessano alla cavallina (o alle biglie, o a barres XLIII), solo i sociologi all’aquilone, e solo i matematici al domino (o alla roulette o al poker). Trovo normale che questi ultimi non s’interessino a giochi come la mosca cieca o il rincorrersi, che non si prestano ad alcuna equazione; capisco meno che Jean Chateau trascuri del tutto il domino e l’aquilone; mi chiedo invano perché mai storici e sociologi rifuggano di fatto dallo studio dei giochi d’azzardo. Per essere più esatto, se non vedo bene, in quest’ultimo caso, la ragione di un simile ostracismo, ho in compenso alcuni sospetti sui motivi che l’hanno causato. Come vedremo, essi dipendono in gran parte dai pregiudizi -biologici o pedagogici- degli studiosi che s’interessano ai giochi. Lo studio dei giochi -se si esclude l’aneddotica, che del resto si occupa dei giocattoli più che dei giochi-si avvale dunque dei lavori di discipline indipendenti, segnatamente della psicologia e della matematica, di cui è opportuno considerare volta per volta i contributi essenziali.

Analisi psicopedagogiche

Schiller è certamente uno dei primi, se non il primo, ad aver sottolineato l’importanza straordinaria del gioco per la storia della cultura. Nella quindicesima delle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, egli scrive: “Una volta per tutte e per concludere, l’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno senso della parola ed è un uomo completo solo quando gioca.” Meglio ancora, nello stesso testo, egli già immagina che si possa trarre dai giochi una sorta di diagnosi che caratterizzi le diverse culture. Egli ritiene che mettendo a confronto “i concorsi ippici di Londra, i combattimenti di tori a Madrid, gli spettacoli della Parigi di un tempo, le regate di Venezia, i combattimenti di animali a Vienna e la vita spensierata del Corso, a Roma”, non debba essere difficile determinare “le sfumature del gusto presso questi diversi popoli”.83

Ma, tutto teso a estrapolare dal gioco l’essenza dell’arte, passa oltre e si accontenta di intuire la sociologia dei giochi che la sua frase lascia prefigurare. Non importa. La questione è comunque posta e il gioco preso sul serio. Schiller insiste sulla gioiosa esuberanza del giocatore e sulla libertà costantemente lasciata alla sua scelta. Il gioco e l’arte nascono da un sovrappiù di energia vitale di cui l’uomo o il bambino non hanno bisogno per la soddisfazione dei loro bisogni immediati e che utilizzano allora per l’imitazione gratuita e divertente di comportamenti reali. “I salti scomposti della gioia diventano danza.” Di qui Spencer: “Il gioco è una drammatizzazione dell’attività degli adulti.” E Wundt, a torto più deciso e perentorio: “Il gioco è figlio del lavoro. Non c’è tipo di gioco che non trovi il suo modello in una qualche occupazione seria, modello che gli è parimenti anteriore” (Etbik, 1886, p. 145). La formula ebbe successo. Attratti da essa, etnografi e storici si sforzarono, con alterne fortune, di dimostrare che nei giochi dei bambini sopravvivevano antiche pratiche religiose o magiche cadute in disuso.

L’idea della gratuità, della libertà del gioco, venne ripresa da Karl Groos nella sua opera Die Spiele der Tiere (Jena, 1896). L’autore distingue essenzialmente, nel gioco, la gioia d’essere e restare causa determinante. Lo spiega con il potere d’interrompere in qualunque momento, e liberamente, l’attività iniziata. Lo definisce infine come un’iniziativa pura, senza passato né avvenire, sottratta alla pressione e alle costrizioni del mondo. Il gioco è una creazione di cui il giocatore resta padrone. Avulso dall’inesorabile realtà, esso appare come un universo fine a se stesso e che esiste solo nella misura in cui è volontariamente accettato. K. Groos, tuttavia, pur pensando già all’uomo, studiò prima gli animali; quando, diversi anni dopo, passò allo studio dei giochi umani (Die Spiele der Menschen, Jena, 1899), mantenne una certa propensione a insistere sui loro aspetti istintivi e spontanei e a trascurare le combinazioni puramente intellettuali in cui i giochi, in molti casi, consistono.

Per di più, anch’egli concepì i giochi dell’animale giovane come una sorta di allegro allenamento alla vita adulta. Per un singolare paradosso, Groos giunse a vedere nel gioco la ragion d’essere della gioventù: “Gli animali non giocano perché sono giovani, sono giovani perché devono giocare.”84 Pertanto, egli si sforzò di dimostrare come l’attività ludica assicurasse ai giovani animali una maggiore padronanza nell’inseguire le prede o nello sfuggire ai nemici e come li allenasse a lottare fra di loro in previsione del momento in cui la rivalità per il possesso della femmina li avrebbe messi realmente uno contro l’altro. Ne ricavò un’ingegnosa classificazione dei giochi, molto conforme alla sua tesi, ma che ebbe purtroppo come prima conseguenza quella di indirizzare verso una suddivisione parallela lo studio dei giochi u-mani che intraprese in seguito. Groos, dunque, distingue l’attività ludica in: a) dell’apparato sensoriale (sperimentazione del tatto, della temperatura, del gusto, dell’odorato, dell’udito, dei colori, delle forme, dei movimenti, ecc.); b) dell’apparato motorio (l’andare a tentoni, distruzione e analisi, costruzione e sintesi, giochi di pazienza, lancio semplice, lancio effettuato colpendo o spingendo, impulso a far rotolare, girare o scivolare, lanciare verso un bersaglio, acchiappare oggetti in movimento); c) dell’intelligenza, del sentimento e della volontà (giochi di riconoscimento, di memoria, di fantasia, di attenzione, di ragione, giochi a sorpresa, giochi del brivido, ecc.). E passa in seguito a quelle tendenze che chiama di secondo grado, quelle cioè che rientrano nel campo dell’istinto di lotta, dell’istinto sessuale e dell’istinto d’imitazione.

Questa lunga disamina mostra perfettamente come tutte le sensazioni o emozioni che l’uomo può provare, tutti i gesti che può compiere, tutte le operazioni mentali che è in grado di effettuare, diano origine a dei giochi, ma non proietta alcuna luce su questi, non informa né sulla loro natura né sulla loro struttura. Groos non si preoccupa di raggrupparli in base alle loro intrinseche affinità e non pare accorgersi del fatto che essi coinvolgono per lo più diversi sensi o diverse funzioni al tempo stesso. In fondo, egli si accontenta di suddividerli in base all’indice delle materie dei trattati di psicologia in voga all’epoca, o piuttosto si limita a dimostrare come i sensi e le facoltà dell’uomo comportino ugualmente un tipo d’azione disinteressata, senza utilità immediata, la quale, perciò, appartiene all’ambito del gioco e serve unicamente a preparare l’individuo ai suoi compiti futuri. I giochi d’azzardo si trovano ancora una volta eliminati, senza che neppure l’autore si renda conto di averli scartati. Da una parte, non li ha incontrati presso gli animali e, dall’altra, non esiste alcun compito “serio” di cui essi costituiscano la preparazione.

Dopo la lettura delle opere di Karl Groos, si potrebbe continuare a ignorare, o quasi, il fatto che un gioco comporti frequentemente, e forse necessariamente, delle regole, e anzi delle regole di un genere molto particolare: arbitrarie, categoriche, valide entro limiti di tempo e di spazio determinati in anticipo. Ricordiamo che è stato merito di J. Huizinga l’aver insistito su quest’ultimo aspetto e averne sottolineato l’eccezionale fertilità per lo sviluppo della cultura. Prima di lui, Jean Piaget, in due conferenze del 1930 all’Istituto Jean-Jacques Rousseau a Ginevra, aveva molto insistito sulla contrapposizione, per il bambino, dei giochi di fantasia e dei giochi regolati. Ricordiamo d’altronde l’importanza che egli molto giustamente attribuisce al rispetto della regola del gioco da parte del bambino per la formazione morale di quest’ultimo.

Ma, di nuovo, né Piaget né Huizinga prendono minimamente in considerazione i giochi d’azzardo che sono parimenti esclusi dalle pur considerevoli ricerche di Jean Chateau.85 Certo, Piaget e Chateau si occupano solo dei giochi infantili,86 e anzi solo dei giochi di certi bambini dell’occidente europeo nella prima metà del XX secolo ed essenzialmente dei giochi che questi bambini fanno a scuola, durante la ricreazione. Vediamo dunque come una sorta di fatalità continui a lasciare in ombra i giochi d’azzardo che certamente non vengono incoraggiati dagli educatori. Tuttavia, anche se si lascian da parte i dadi, la trottola, il domino e le carte, che J. Chateau non prende in considerazione in quanto giochi di adulti, giochi che i bambini sarebbero indotti a giocare dalle famiglie, restano le bilie che non sono sempre e soltanto giochi di abilità.

Le bilie, infatti, hanno la particolarità di essere al tempo stesso strumento e posta. I giocatori le vincono o le perdono. Esse diventano così una vera e propria moneta; si scambiano con dei dolciumi, dei temperini, delle fionde,87 dei fischietti, degli articoli scolastici o in cambio di un aiuto per i compiti, di un favore da fare, di ogni sorta di prestazioni soggette a tariffa. Le bilie hanno pure un valore diverso a seconda che siano d’acciaio o di creta, di ardesia o di vetro. Ora, avviene comunemente che i bambini le rischino facendo a pari e dispari, una sorta di morra che, a livello infantile, è occasione di autentici spostamenti di capitale. L’autore cita almeno uno di questi giochi,88 il che non gli impedisce di eliminare quasi del tutto l’azzardo, vale a dire il rischio, l’alea, la scommessa, come molla determinante del gioco nel bambino, allo scopo di insistere meglio sul carattere essenzialmente attivo del piacere che questi prova nel giocare.

Una posizione che non avrebbe conseguenze negative se Jean Chateau non avesse tentato, alla fine della sua opera, una classificazione dei giochi che si trova così soggetta a una grave lacuna. Ignorando deliberatamente i giochi d’azzardo, essa elimina un problema importante, quello cioè di sapere se il bambino sia sensibile o no all’attrazione della fortuna, o se pratichi poco i giochi d’azzardo a scuola, semplicemente perché di fatto simili giochi non vi vengono ammessi. Quanto a me, non ho dubbi: il bambino è molto precocemente sensibile alla fortuna.89 Resta da definire a partire da che età, e come, egli concili il verdetto della sorte, in sé non equo, con quello che è invece il suo vivissimo e rigorosissimo senso della giustizia.

L’ambizione di Jean Chateau è insieme genetica e pedagogica: egli s’interessa dapprima al momento del manifestarsi e dell’espandersi di ogni tipo di giochi. Contemporaneamente, cerca di determinare l’apporto positivo delle diverse specie di giochi e s’impegna a dimostrare in quale misura essi contribuiscono a formare la personalità del futuro adulto. Da questo punto di vista, Chateau non ha difficoltà a dimostrare, in opposizione a Karl Groos, come il gioco sia una prova, piuttosto che un esercizio. Il bambino non si allena per un compito ben definito; acquisisce, grazie al gioco, una più ampia capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. Niente, nella vita, ricorda il gioco di vola l’asino, ma può essere molto utile possedere dei riflessi al tempo stesso rapidi e controllati.

In generale, il gioco appare dunque come educazione, senza finalità determinata in anticipo, del corpo, del carattere o dell’intelligenza. Da questo punto di vista, più il gioco è lontano dalla realtà più è grande il suo valore educativo. Perché non rivela formule magiche: sviluppa delle attitudini.

I giochi puramente d’azzardo, però, non sviluppano nel giocatore, che resta essenzialmente passivo, alcun talento fisico o intellettuale. E spesso si paventano le loro conseguenze per la moralità, perché distolgono dal lavoro e dallo sforzo facendo balenare la speranza di un guadagno immediato e ingente. Questa può essere una ragione per bandirli dalla scuola (ma non da una classificazione).

Mi domando del resto se non sia il caso di spingere il ragionamento alle sue estreme conseguenze. Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso. Se ne deduce che le attitudini che esso sviluppa sono le stesse che servono anche per lo studio e le attività serie dell’adulto. Se queste capacità sono sopite o manchevoli, il bambino non sa né studiare né giocare, perché, in questo caso, non sa né adattarsi a una situazione nuova, né fissare la propria attenzione, né piegarsi a una disciplina. A questo proposito, le osservazioni di A. Brauner sono tra le più convincenti.90 Il gioco non è assolutamente un rifugio per ritardati o handicappati: li sgomenta quanto il lavoro. Questi bambini o questi adoles
centi psichicamente deboli si rivelano incapaci di dedicarsi con qualche continuità o applicazione tanto a un’attività ludica che a un lavoro reale. Per essi, il gioco si riduce a un semplice prolungamento occasionale del movimento, puro impulso incontrollato, senza misura né intelligenza (intervenire quando gli altri giocano impossessandosi della bilia o del pallone, disturbare, spingere, creare confusione, ecc.). Il momento in cui l’educatore riesce a inculcare loro il rispetto della regola, o, meglio ancora, il gusto di inventarne, è il momento della guarigione.

Non c’è alcun dubbio che il piacere di rispettare volontariamente una regola convenuta sia in questo caso essenziale. Infatti, J. Chateau riconosce così pienamente, dopo Jean Piaget, l’importanza di questo dato, che suddivide inizialmente i giochi in regolati e non regolati. Per questa seconda classificazione, egli compendia le analisi di Groos senza aggiungervi gran che di inedito. Per i giochi regolati, invece, si rivela una guida molto più istruttiva. La distinzione che egli stabilisce fra i giochi figurativi (imitazione e illusione), i giochi obiettivi (costruzione e lavoro) e i giochi astratti (dalla regolamentazione arbitraria, di abilità e, soprattutto, di competizione) corrisponde indubbiamente a una realtà. Si può anche convenire con lui che i giochi figurativi portano all’arte, i giochi obiettivi anticipano il lavoro e i giochi di competizione prefigurano lo sport.

Chateau completa la classificazione con una categoria che accomuna i giochi di competizione in cui è richiesta una certa cooperazione con quelle danze e cerimonie simulate in cui i movimenti dei partecipanti devono essere armonizzati e accordati fra loro. Tale gruppo non appare minimamente omogeneo e contraddice proprio il principio precedentemente stabilito che contrappone i giochi d’illusione ai giochi regolati. Giocare alla Iavanderina, o alla droghiera, o al soldato è sempre un’improvvisazione. Immaginare d’essere un’ammalata, una fornaia, un aviatore o un cow-boy, comporta un’invenzione continua. Giocare a bandiera o a guardia e ladri, per non parlare del football, della dama o degli scacchi, presuppone al contrario il rispetto di regole precise che consentono di individuare il vincitore. Raggruppare sotto una stessa voce giochi di rappresentazione e giochi di competizione perché sia gli uni che gli altri richiedono una cooperazione fra i giocatori dello stesso campo, si spiega in fondo solo con la preoccupazione dell’autore di distinguere vari livelli ludici, delle specie di classi d’età: a volte si tratta infatti di una complicazione dei giochi di rivalità semplice, fondati sulla competizione; a volte di una complicazione simmetrica dei giochi figurativi, fondati sul simulacro.

Queste complicazioni hanno tutte e due come conseguenza l’intervento dello spirito d’equipe che obbliga i giocatori a cooperare, ad accordare i loro movimenti e ad attenersi a un ruolo preciso all’interno di un contesto generale. Non per questo l’affinità profonda è meno manifestamente verticale. J. Chateau, ogni volta, va dal semplice al complesso, perché si sforza essenzialmente di stabilire delle stratificazioni che si accordino con l’età dei bambini. Ma queste stratificazioni per età non fanno che complicare parallelamente delle strutture che restano indipendenti.

Giochi figurativi e giochi di competizione corrispondono abbastanza esattamente a quelli che, nella mia classificazione, ho rispettivamente raggruppato sotto i termini di mimicry e di agon. Ho già detto perché non si trova menzione dei giochi d’azzardo nella tabella di Chateau. Vi si può comunque scoprire qualche traccia dei giochi di vertigine sotto la voce jeux d’emportement, con le seguenti esemplificazioni: precipitarsi giù da una discesa, gridare a squarciagola, girare come una trottola, correre (a perdifiato).91 Certo, in questi comportamenti esistono effettivamente dei giochi di vertigine in nuce, ma i giochi di vertigine, per meritare realmente il nome di giochi, devono presentarsi sotto aspetti più precisi, meglio determinati, più adattati al loro fine specifico, che è quello di provocare un turbamento leggero, temporaneo e, di conseguenza piacevole, della percezione e dell’equilibrio, come avviene, ad esempio, nel toboga, nell’altalena o anche nel màis d’or haitiano. Anche Chateau fa un’allusione all’altalena (p. 298), ma per interpretarla come un esercizio di volontà nei confronti della paura. Certo, la vertigine presuppone la paura, o meglio un senso panico, ma quest’ultimo attrae, affascina: è un piacere. Non si tratta tanto di trionfare sulla paura, quanto di provare voluttuosamente una paura, un brivido, uno stupore che fanno perdere momentaneamente il controllo di sé.

I giochi di vertigine, insomma, non sono trattati molto meglio, dagli psicologi, dei giochi d’azzardo. Neppure Huizinga, che concentra la sua riflessione sui giochi degli adulti, accorda loro la benché minima attenzione. Indubbiamente li disprezza perché non sembra possibile attribuir loro alcun valore pedagogico o culturale. Dall’invenzione e dal rispetto delle regole, dalla competizione leale, Huizinga fa derivare la civiltà intera, o poco ci manca, e J. Chateau l’essenziale delle virtù necessarie all’uomo per costruire la propria personalità. La fecondità etica della lotta limitata e regolata, la fecondità culturale dei giochi di illusione non vengono messe in dubbio da alcuno. Al contrario, la ricerca della vertigine e della fortuna non gode di altrettanta buona fama. Giochi di questo tipo appaiono sterili, se non addirittura funesti, contaminati da una qualche oscura e contagiosa maledizione. Nell’opinione corrente, passano per corruttori. La cultura, per generale riconoscimento, consiste ben più nel difendersi dalla loro seduzione che nell’approfittare dei loro discutibili apporti.

Analisi matematiche

Giochi di vertigine e giochi d’azzardo sono messi in disparte e implicitamente negletti dai sociologi e dagli educatori. Lo studio della vertigine è abbandonato ai medici, il calcolo delle probabilità fortunate ai matematici.

Queste ricerche di nuovo tipo sono certo indispensabili, ma ambedue sviano l’attenzione dalla natura del gioco. Lo studio del funzionamento dei canali semicircolari spiega imperfettamente la moda, il successo dell’altalena, del toboga, dello sci e delle montagne russe, senza contare esercizi di altro tipo, ma che presuppongono lo stesso gioco con gli stessi poteri di panico, come il turbinare dei dervisci del Medio Oriente o la discesa a spirale dei voladores messicani. D’altra parte, lo sviluppo del calcolo delle probabilità non sostituisce assolutamente una sociologia delle lotterie, dei Casinò o degli ippodromi. Né gli studi matematici informano circa la psicologia del giocatore, dal momento che sono tenuti a esaminare tutte le possibili risposte a una data situazione.

A volte, il calcolo serve a determinare il margine di sicurezza del banchiere, a volte a indicare al giocatore il modo migliore di giocare, a volte a precisargli in anticipo i rischi cui va man mano incontro. Ricordiamo che un problema di questo genere è appunto all’origine del calcolo delle probabilità. Il Cavaliere de Mère aveva calcolato che al gioco dei dadi, in una serie di ventiquattro colpi, con sole ventun combinazioni possibili, il doppio sei aveva più probabilità di uscire che di non uscire. L’esperienza, però, gli dimostrava il contrario. Egli si rivolse allora a Pascal. Di qui, la lunga corrispondenza di quest’ultimo con Fermat che doveva aprire nuove strade alla matematica e che, in via secondaria, permise a Mère di dimostrare che in effetti era scientificamente vantaggioso scommettere contro l’uscita del doppio sei in una serie di ventiquattro colpi.

Parallelamente ai lavori sui giochi d’azzardo, i matematici hanno da tempo intrapreso delle ricerche di tipo assolutamente diverso. Essi si sono dedicati a calcoli di enumerazione, in cui il caso non interviene affatto ma che possono diventare oggetto di una teoria completa e generalizzabile. Si tratta, segnatamente, dei molteplici rompicapi noti con il nome di giochi matematici. Più di una volta, il loro studio ha messo gli scienziati sulla strada di importanti scoperte. Tale è a esempio il problema (non risolto) dei quattro colori,XLIV quello dei ponti di Koenigsberg, quello delle tre case e delle tre fonti (insolubile su di un piano, ma risolvibile su una superficie chiusa come quella di un anello), quello della passeggiata delle quindici damigelle. Alcuni giochi tradizionali, come a esempio quadrato del quìndici e baguenaude, si basano del resto su difficoltà e combinazioni della stessa specie, la cui teoria rientra nel campo della topologia, quale è stata formulata da Janirewski alla fine del XIX secolo. Recentemente, alcuni matematici, mettendo insieme il calcolo delle probabilità e la topologia, hanno fondato una nuova scienza, le cui applicazioni sembrano essere delle più diverse: la teoria dei giochi strategici.92

Questa volta, si tratta di giochi nei quali i giocatori sono degli avversari chiamati a difendersi, in cui, cioè, hanno volta per volta una scelta ragionata da fare e delle decisioni adeguate da prendere. Questo tipo di giochi è adatto a servire da modello ai problemi che comunemente si pongono nel campo economico, commerciale, politico o militare. Si manifestò, cioè, l’ambizione di poter procurare una soluzione indiscutibile, scientifica, al di là di ogni possibile controversia, a delle difficoltà concrete ma valutabili, almeno approssimativamente. Si cominciò con le situazioni più semplici: testa o croce, gioco di carta-pietra-forbici XLVIII (la carta vince la pietra avvolgendola, la pietra batte le forbici rompendole, le forbici vincono la carta tagliandola), poker semplificato al massimo, duelli di aerei, ecc. Si fecero entrare nel calcolo alcuni elementi psicologici come l’astuzia e il bluff. Si chiamava astuzia “la perspicacia di un giocatore nel prevedere il comportamento dei suoi avversari”, e bluff la risposta a questa astuzia, vale a dire “ora l’arte di nascondere a (un) avversario (le nostre) informazioni, ora l’abile accorgimento di indurlo in errore circa (le nostre) intenzioni, ora, infine, la scaltrezza di fargli sottovalutare (la nostra) abilità”.93

Tuttavia, sussiste un dubbio circa la portata pratica, e perfino la fondatezza di simili speculazioni che esulano dalla matematica pura. Esse si basano su due postulati indispensabili alla deduzione rigorosa e che, in ogni caso, non s’incontrano mai nell’universo continuo e infinito della realtà: il primo, la possibilità di un’informazione totale, che abbracci, cioè, ed esaurisca tutti i dati utili; il secondo, la concorrenza di avversari le cui iniziative siano sempre prese in cognizione di causa, in prospettiva di un risultato preciso, e che si suppone scelgano sempre la soluzione migliore. Ora, nella realtà, da una parte i dati utili non sono mai computabili a priori; dall’altra, non è possibile eliminare, nell’avversario, la componente dell’errore, del capriccio, dell’estro insensato, di una qualunque decisione arbitraria e imponderabile, di una qualche strampalata superstizione e perfino di una deliberata volontà di perdere, che non c’è motivo assoluto di escludere dall’assurdo universo umano. Matematicamente, queste anomalie non generano alcuna nuova difficoltà: riportano a un caso precedente, già risolto. Ma umanamente, per il giocatore concreto, non avviene lo stesso, perché tutto l’interesse del gioco risiede proprio in questo inestricabile concorso di possibili.

Teoricamente, in un duello alla pistola, in cui i due avversari avanzano uno incontro all’altro, se si conosce la portata e la precisione delle armi, la distanza, la visibilità, l’abilità rispettiva dei tiratori, il loro sangue freddo, il grado di eccitabilità nervosa, e purché questi diversi elementi si suppongano quantificabili, si può calcolare il momento più propizio, per ciascuno di loro, per premere il grilletto. E comunque si tratta di una speculazione aleatoria, in cui i dati sono inoltre limitati per convenzione. Ma, nella pratica, è chiaro che il calcolo risulterebbe impossibile, poiché richiederebbe l’analisi completa di una situazione inesauribile. Uno degli avversari può essere miope o astigmatico. Può essere distratto o nevrastenico, può pungerlo una vespa, può inciampare in una radice. E può perfino aver voglia di morire. L’analisi non può vertere che su un problema-tipo, ridotto all’osso, e tutto il ragionamento cade quando il problema si presenta in tutta la sua comple ssità originale.

In certi negozi americani, all’epoca dei saldi, si svendono gli articoli il primo giorno con uno sconto del 20% sul prezzo contrassegnato, il secondo giorno con uno sconto del 30%, il terzo giorno del 50%. Più il cliente aspetta e più l’acquisto diventa vantaggioso. Ma la sua possibilità di scelta diminuisce proporzionalmente, e l’articolo su cui ha messo l’occhio rischia di sfuggirgli. Normalmente, se si riescono a limitare i dati da prendere in considerazione, si può calcolare in quale giorno sia meglio acquistare il tale o talaltro articolo, a seconda che lo si ritenga più o meno ricercato. È tuttavia verosimile che ogni cliente faccia il suo acquisto in base alle proprie scelte: senza aspettare, se intende soprattutto assicurarsi l’oggetto desiderato; all’ultimo momento, se cerca invece di spendere il meno possibile.

Qui appunto risiede e perdura l’irriducibile elemento di gioco che la matematica non riesce a toccare perché essa non può essere che algebra sul gioco. Quando, per assurdo, diventasse algebra del gioco, il gioco ne sarebbe subito annientato. Perché non si gioca per guadagnare a colpo sicuro. Il piacere del gioco è inseparabile dal rischio di perdere. Ogni volta che la riflessione combinatoria (in cui consiste la scienza dei giochi) azzecca la teoria di una situazione, l’interesse per il gioco sparisce con il venir meno dell’incertezza del risultato. La sorte di ogni possibile variante è nota. Nessun giocatore ignora dove portano le conseguenze di ogni mossa concepibile e le conseguenze delle sue conseguenze. A carte, la partita termina non appena svanisce ogni incertezza circa le prese da attribuirsi o da lasciare agli altri, e ogni giocatore butta giù le carte. Agli scacchi, il giocatore esperto abbandona la partita non appena si rende conto che la situazione o il rapporto di forze lo condanna a una sconfitta ineluttabile. I neri d’Africa calcolano lo sviluppo dei giochi che li appassionano altrettanto esattamente di quanto non facciano Neumann e Morgenstern per delle strutture che esigono indubbiamente un apparato matematico notevolmente più complesso, ma che essi non trattano diversamente.

In Sudan, il gioco del Bolotoudou, analogo al nostro filetto, gode di grande popolarità. Si gioca con dodici bastoncini e dodici ciottoli che ogni giocatore colloca via via su trenta caselle disposte in cinque file di sei. Ogniqualvolta un giocatore riesce a mettere tre delle sue pedine in linea retta, ne mangia una all’avversario. I campioni dispongono di mosse particolari, personalissime, e che, facendo parte dell’eredità familiare, si trasmettono di padre in figlio. La disposizione iniziale delle pedine ha una grande importanza. Le combinazioni possibili non sono infinite. Così, un giocatore esperto può fermare la partita riconoscendosi virtualmente battuto molto prima che la sconfitta sia manifesta agli occhi del profano.94 Sa che l’avversario deve batterlo, e come dovrà procedere per arrivarci. Nessuno prova un gran divertimento ad approfittare dell’inesperienza di un giocatore mediocre. Si desidererebbe, invece, insegnargli, se la ignora, la mossa invincibile. Perché il gioco è soprattutto dimostrazione di superiorità e il piacere sta nel misurare le proprie forze. Bisogna sentirsi in pericolo.

Le teorie matematiche che cercano di determinare con certezza, in tutte le possibili situazioni, la pedina che conviene spostare o la carta che è opportuno buttar giù, lungi dall’incoraggiare lo spirito di gioco, lo danneggiano, abolendo la sua stessa ragion d’essere. Il lupo e gli agnelli XLIX che si giocano sulla normale scacchiera di sessantaquattro caselle con una pedina nera e quattro bianche, è un gioco molto semplice le cui possibili combinazioni sono facilmente enumerabili. La sua teoria è facile. Gli agnelli (le quattro pedine bianche) devono necessariamente vincere. Ma quale piacere può ancora provare nel giocare al lupo il giocatore che conosca questa teoria? Queste analisi, che distruggono lo spirito di gioco non appena sono perfette, esistono anche per altri giochi (quadrato del quindici, baguenaude) che menzionavo sopra.

Non è verosimile, ma possibile e forse teoricamente inevitabile, che esista una partita a scacchi assoluta, vale a dire tale che, dalla prima all’ultima mossa, nessuna risposta risulti efficace, la migliore trovandosi automaticamente neutralizzata a ogni successivo passaggio. Non è ragionevolmente impensabile che una macchina elettronica,L coprendo ogni possibile mutamento di direzione, stabilisca questa partita ideale. Allora, non si giocherà più agli scacchi. Il fatto di giocare per primo comporterà, da solo, la vincita o forse la perdita della partita.95

L’analisi matematica dei giochi appare così una parte della matematica, che ha con i giochi solo un rapporto contingente, occasionale. Esisterebbe anche se non esistessero i giochi. Essa può e deve svilupparsi al di fuori di essi, inventando liberamente situazioni e regole sempre più complesse. Ma non può avere la minima incidenza sulla natura stessa del gioco. Infatti, o l’analisi porta a una certezza, e allora il gioco perde il suo interesse; o stabilisce un coefficiente di probabilità, e allora offre semplicemente una valutazione più razionale di un rischio che il giocatore sceglie o no di correre, a seconda della sua natura prudente o temeraria.

Il gioco è fenomeno totale. Interessa l’insieme delle attività e delle ambizioni umane. Così, sono ben pochi i rami del sapere — dalla pedagogia alla matematica, passando per la storia e la sociologia — che non possano studiarlo profittevolmente in una qualche prospettiva. Tuttavia, quale che sia il valore teorico o pratico dei risultati ottenuti in ogni prospettiva particolare, questi risultati resterebbero privati del loro significato e della loro autentica portata se non venissero letti in relazione al problema centrale posto dall’universo indivisibile dei giochi, da cui in primo luogo essi traggono l’interesse che possono presentare.

DOSSIER

CAPITOLO 2. CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI

Mimicry negli insetti.

Riporto in questa sede alcuni degli esempi citati nella mia opera le Mythe et l’Homme (pp. 109-116).

“A scopo di difesa, un animale inoffensivo assume l’aspetto di un animale temibile, a esempio la farfalla apiforme Trochilium e la vespa Crebro: stesse ali affumicate, stesse zampe e antenne scure, stesso addome e torace a strisce gialle e nere, stesso volo gagliardo e rumoroso in pieno sole. A volte, l’animale mimetico fa ancora di più; così, il bruco del Choerocampa Elpenor, che, all’altezza del quarto e quinto segmento, presenta due macchie oculiformi cerchiate di nero; molestato, esso ritrae gli anelli anteriori; il quarto si ingrossa notevolmente e l’effetto così ottenuto sarebbe quello di una testa di serpente tale da trarre in inganno lucertole e piccoli uccelli, terrorizzati da quella subitanea apparizione.96 Secondo Weismann,97 quando lo Smerintbus ocellata, che, allo stato di riposo, come tutti gli Sfingidi, nasconde le ali inferiori, è in pericolo, le scopre all’improvviso e quelle ali, con i loro due ‘occhi’ blu su fondo rosso, terrorizzano l’aggressore.98 L’atto è accompa
gnato da una sorta di trance. Allo stato di riposo, l’animale è simile a delle foglie secche, affusolate. In allarme, si aggrappa al suo supporto, spiega le antenne, butta in fuori il torace, rientra la testa, enfatizza la curva dell’addome, mentre tutto il corpo vibra, percorso da brividi. Passata la crisi, torna lentamente all’immobilità. Alcuni esperimenti di Standfuss hanno dimostrato l’efficacia di questo comportamento; la cincia, il pettirosso, l’usignolo comune ne sono spaventati, non cosi l’usignolo grigio.99 La farfalla, con le sue ali spiegate, sembra effettivamente la testa di un enorme uccello da preda...”

E non mancano gli esempi di mimetismo: le calappe assomigliano a dei ciottoli rotondi, le chlamys a dei semi, le moenas a della ghiaia, i palemoni a dei fuchi; il pesce Phylopteryx del mar dei Sargassi non è che “un’alga dentellata a strisce fluttuanti”,101 come l’Antennarius e il Ptero-phryne.100 Il polipo ritrae i tentacoli, inarca il dorso, muta il colore cosi da assomigliare a un sasso. Le ali inferiori bianche e verdi della Pieride-Aurora imitano le ombrellifere; le gibbosità, nodosità, striature della lichnée mariée la rendono simile alla corteccia dei pioppi sui quali vive. Impossibile distinguere dai licheni il Lithinus nigrocristinus del Madagascar e i Flatöides.102 È noto il grado di mimetismo delle mantidi le cui zampe imitano dei petali o sono ripiegate a corolla e che assomigliano così a dei fiori e arrivano al punto di imitare, con un leggero dondolio meccanico, l’azione del vento su questi.103 La cilix compressa sembra uno sterco d’uccello, il Cerodeylus laceratus del Borneo, con le sue escrescenze fogliacee color verde oliva chiaro, assomiglia a un bastoncino coperto di muschio. Quest’ultimo appartiene alla famiglia di Fasmidi che, in genere, “si appendono ai cespugli della foresta e hanno la curiosa abitudine di lasciar penzolare le zampe in modo irregolare, il che rende l’errore ancor più facile”.104 Alla stessa famiglia appartengono anche certi bacilli che sembrano ramoscelli. Il Ceroys e l’Heteropteryx imitano delle fronde secche e spinose e i membracei, emitteri dei Tropici, dei germogli o delle spine, come ad esempio l’insetto-spina tutto proiettato in altezza, l’Umbonia orozimbo. Il bruco “geometra”, anch’esso rigido e verticale, non si distingue affatto dai germogli degli arbusti, aiutato in questo da opportune rugosità tegumentali. Tutti conoscono i Phyllium, così simili a una foglia. Con questo tipo di insetto, ci si avvicina al mimetismo perfetto che è proprio di alcune farfalle: l’Oxydia, ad esempio, che si mette all’estremità di un ramo, perpendicolarmente alla sua direzione, con le ali superiori ripiegate a tetto in modo da sembrare una foglia terminale, somiglianza accentuata da una scia scura e sottile che prosegue trasversalmente lungo le quattro ali in modo da imitare la nervatura principale della foglia.105

Altre specie sono ancor più perfezionate: le loro ali inferiori sono munite di un’appendice mobile e autonoma che esse utilizzano a mò di peduncolo, acquisendo così “come un diritto di cittadinanza nel mondo vegetale”.106 L’insieme delle due ali configura, da ogni lato, l’ovale lanceolato caratteristico della foglia: anche in questo caso, una macchia, longitudinale questa volta, prolungandosi da un’ala all’altra, sostituisce la nervatura mediana, pertanto “la forza organomotrice... ha dovuto dividere e organizzare sapientemente ognuna delle due ali poiché essa realizza così una forma determinata non in se stessa, ma attraverso l’unione con l’altra ala”.107 Tali sono principalmente il Coenophlebia Archidona dell’America centrale108 ei diversi tipi di Kallima dell’India e della Malaisia.(Altri esempi: Le Mythe et l’Homme, pp. 133-136.)

Vertigine nel “volador” messicano.

Brano tratto dalla descrizione di Guy Stresser-Péan (p. 328).

“Il capo della danza, o k’obal, vestito di una tunica rossa e blu, sale a sua volta e si siede sull’ultimo masso. Rivolto a oriente, invoca dapprima le divinità benigne, spiegando le ali nella loro direzione e usando un fischietto che imita il verso dell’aquila. Poi si alza in piedi sulla cima del palo e, volgendosi successivamente ai quattro punti cardinali, solleva a mo' di offerta una coppa ricavata da una zucca svuotata ricoperta da un telo bianco e una bottiglia di acquavite di cui spruzza fuori, davanti a sé, con la bocca, qualche sorsata. Fatta questa offerta simbolica, si mette in testa il suo pennacchio di penne rosse e prende a danzare ponendosi via via di fronte ai quattro punti cardinali e agitando le ali.

“Questi cerimoniali eseguiti sulla cima del palo costituiscono la fase che gli Indiani considerano la più emozionante di tutto il rito perché comporta un rischio mortale. Tuttavia, la fase successiva, quella del ‘volo’, resta altamente spettacolare. I quattro danzatori, attaccati per la cintola, passano sotto il loro capo e quindi si lasciano andare all’indietro. Così sospesi, scendono lentamente fino a terra, descrivendo una grande spirale man mano che le loro corde si srotolano. La difficoltà, per questi danzatori, consiste nell’afferrare la corda fra le dita dei piedi in modo da rimanere con la testa ingiù, le braccia allargate, nella posa di uccelli che scendano planando e descrivendo ampi cerchi nel cielo. Quanto al capo, aspetta dapprima qualche istante, quindi si lascia scivolare lungo la corda di uno dei quattro danzatori.”

Ebbrezza distruttiva di una scimmia cappuccina.

Da un’osservazione di G.J. Romanes, citata da K. Groos:

“Osservo che gli piace moltissimo combinare disastri. Oggi, si è impadronito di un bicchiere di vino e di un portauovo. Il bicchiere, l’ha scagliato a terra con tutta la sua forza e, naturalmente, l’ha rotto. Essendosi quindi reso conto che non avrebbe potuto rompere il portauovo allo stesso modo, ha cercato intorno a sé qualcosa di duro contro cui poterlo sbattere. Il piede del letto in ottone gli parve atto all’uopo: brandì il portauovo reggendolo alto sopra la testa e lo abbatté violentemente contro il piede del letto. Dopo averlo completamente polverizzato, si ritenne soddisfatto. Per spezzare un bastone, lo introduce fra un oggetto pesante e il muro, quindi lo curva e lo spacca. Spesso, distrugge qualche indumento tirando scrupolosamente i fili del tessuto prima di mettersi a strappare il tutto con i denti il più freneticamente possibile.

“Parallelamente al suo bisogno di distruzione, gli piace anche molto rovesciare degli oggetti, ma fa bene attenzione che non gli cadano addosso. Così, tira a sé una sedia finché questa non perde l’equilibrio, quindi fissa attentamente la sommità della spalliera e, quando vede che sta per arrivargli addosso, schizza da parte e aspetta il tonfo, tutto contento. E fa esattamente lo stesso con gli oggetti più pesanti. A esempio, abbiamo una specchiera dal pesante ripiano di marmo che egli è riuscito diverse volte a rovesciare con grande fatica ma senza mai farsi male.”109

Sviluppo delle macchinette mangiasoldi. Infatuazione che suscitano.

C’è una categoria di giochi che sembrano essenzialmente fondati sulla ripetizione. La loro sterile monotonia, la loro apparente mancanza d’interesse non cessano d’incuriosire l’osservatore. La straordinaria diffusione dei cultori di questi giochi rende il fenomeno ancora più curioso. Penso soprattutto ai “solitari” in cui si vedono continuamente impegnati degli sfaccendati e alle macchinette mangiasoldi il cui successo, praticamente universale, fornisce altrettanti spunti di riflessione.

Nei “solitari” o “pazienze” si può individuare almeno una parvenza d’interesse, non tanto a causa delle sporadiche combinazioni fra le quali può a volte esitare il giocatore, e che del resto non lo inducono minimamente a dei calcoli ardui o particolarmente impegnati, quanto perché egli attribuisce a ogni partita il valore di una consultazione del destino. Prima di iniziare il gioco, dopo aver mescolato le carte e al momento di “tagliare”, egli si pone una domanda o esprime un desiderio. Il buon esito o la mancata riuscita del solitario gli fornisce, in un certo senso, il responso del destino. Sta poi a lui, del resto, ricominciare fin quando non avrà ottenuto la risposta favorevole.

Questo carattere oracolare, cui è raro si presti fede, serve almeno a giustificare un’attività che, senza questa trovata, sarebbe una ben modesta distrazione. Tuttavia, è gioco nel senso più autentico, poiché si tratta appunto di un’azione libera che si esercita all’interno di uno spazio circoscritto (in questo caso, il che ha lo stesso valore, per mezzo di un numero fisso di elementi), sottoposta a regole arbitrarie e categoriche, e, da ultimo, assolutamente improduttiva.

Le stesse caratteristiche valgono per le macchinette mangiasoldi, poiché la legge proibisce, più o meno severamente a seconda dei paesi, ma sempre con ugual sollecitudine, che l’attrattiva della vincita possa associarsi alla seduzione propria delle macchine. Delle quattro motivazioni profonde fra cui ho creduto di poter suddividere il gran numero dei giochi (dimostrazione di una superiorità personale, ricerca del favore della sorte, ruolo tenuto in un universo fittizio e voluttà della vertigine deliberatamente provocata), nessuna si applica alle macchinette mangiasoldi, se non in minimo grado. Il piacere della competizione è piuttosto debole perché gli interventi del giocatore sono minimi: giusto di che non farne un gioco di puro caso. Ed ecco quindi eliminata anche la seconda categoria: l’abbandono alla sorte, che è efficace solo se totale e accompagnato da una completa rinuncia a qualunque mezzo atto a piegare o correggere il destino. Quanto al simulacro, che in un primo momento sembrerebbe completamente assente, lo si può tuttavia cogliere, se pure in modo estremamente sbiadito, in primo luogo nell’enormità delle cifre assolutamente fittizie che si accendono nelle spie multicolori (i tentativi di introdurre cifre più realistiche si sono rivelati assolutamente negativi, e questo è molto significativo), e in secondo luogo in tutto quello scenario di ragazze poco vestite, sofisticate o genere “folk”, di auto da corsa e fuoribordo, di corsari e antichi vascelli dalle murate fitte di bombarde, di cosmonauti con lo scafandro e razzi interplanetari, insomma di tutto un armamentario puerile che certo non invita a una identificazione neppure fugace, ma indubbiamente crea un’atmosfera vagamente “magica” sufficiente a distogliere il giocatore dalla monotonia quotidiana. Infine, benché l’ambiente dei bar sia il meno propizio possibile alla vertigine, e la distrazione presa in esame appaia indubbiamente come una delle meno sconvolgenti che si possano immaginare, una certa ipnosi si produce tuttavia dall’obbligo di fissare continuamente delle luci lampeggianti e dall’ossessione di spingere magicamente fra i corridoi del labirinto, quasi con la pressione di uno sguardo carico di desiderio, una piccola sfera luccicante.

Può del resto capitare che la vertigine occupi di gran lunga il primo posto nel piacere ricercato. Penso ad esempio al devastante successo del pachenco del Giappone. Qui, niente luci lampeggianti o labirinti, ma bilie d’acciaio scagliate con forza e fracasso all’interno di una spirale che sta di fronte al giocatore. Questi, per aumentare il frastuono e il movimento, fa partire quasi sempre diverse bilie alla volta. I biliardini sono allineati in file interminabili, senza alcun intervallo fra uno e l’altro, di modo che i giocatori stanno gomito a gomito, e tutte quelle teste parallele formano a loro volta delle lunghe file. Il fracasso è assordante e lo schiocco delle bilie davvero ipnotico. Qui, il risultato è proprio e soltanto la vertigine, ma una vertigine minore e vana che non è urgente dominare e che il gioco, del resto, non consiste affatto nel dominare. Si tratta di un’ipnosi provocata da rumori e riflessi luminosi, che cresce su se stessa, si alimenta dei propri effetti e addomestica, per così dire, la vertigine, la riduce alla contemplazione fissa, inebetita, del percorso di una pallina dietro un vetro. Era proprio quel che ci voleva, suppongo, per impoverire, rendere meccanici e mediocri e privare di ogni spessore i giochi di vertigine, in linea di principio i più pericolosi di tutti, e che richiedono spazio, un macchinario complesso e un grande spreco di energie. Lasciando da parte la forma degradata, svilita, di vertigine che gli aggeggi delle fiere sono deputati a procurare, questi giochi esigono perfino, pur nel pieno dell’ebbrezza aumentata a piacere come turbinar di trottola che si fa girare sempre più vorticosamente, un’imperturbabile lucidità, un’eccezionale padronanza di nervi e di muscoli, una continua vittoria sul panico dei sensi e delle viscere.

Così, da qualunque lato le si consideri e fin nei loro aspetti più aberranti e, da un certo punto di vista, parossistici, le macchinette mangiasoldi costituiscono una sorta di livello minore del gioco. Le capacità personali del giocatore non vengono particolarmente richieste, né egli si aspetta dalla sorte la rovina o la fortuna: paga ogni partita in base a una tariffa sempre uguale. Gli ci vuole inoltre una gran buona volontà per immaginarsi parte del mondo romanzesco evocato dallo scenario del flipper: l’alienazione è ben fievole, se non addirittura inoperante. Infine, della vertigine non rimane che la difficoltà di fermarsi, di interrompere un’attività così meccanica che non può vantare, da parte sua, che la sua stessa monotonia, e più precisamente la paralisi della volontà che porta con sé.

Gli altri passatempi non appaiono necessariamente così scialbi. Fanno anzi decisamente appello a una qualche qualità fisica, o dell’intelligenza o dello spirito. Il bilboquet richiede abilità; il solitario, lungimiranza; i cruciverba e i giochi matematici, riflessione e cognizioni; l’allenamento sportivo, ostinazione e resistenza. In tutti, una tensione, uno sforzo, la dimostrazione di un’abilità, il contrario, insomma, del semi-automatismo di cui gli utenti delle macchinette sembrano accontentarsi. Ora, queste macchinette mangiasoldi sono certamente una caratteristica di uno stile di vita in piena espansione. Le troviamo soprattutto nei locali pubblici, evidentemente perché la presenza di spettatori che commentano la partita e aspettano il loro turno fornisce un utile complemento di eccitazione a un’attività in sé piuttosto noiosa. Nei bar, la proliferazione di questi aggeggi sostituisce quasi del tutto i giochi che vi erano in auge una cinquantina d’anni fa e vi attiravano una clientela di habitués: le carte, la tavola reale, il biliardo.

Ho accennato al Giappone: si è calcolato che il 12% del reddito nazionale, negli anni del maggiore successo di questo passatempo, era speso in gettoni infilati nelle fessure dei pachencos. Negli Stati Uniti, la moda delle macchinette mangiasoldi assume proporzioni insospettate. Dà origine a delle vere e proprie ossessioni. In occasione di una ricerca condotta da una commissione del Senato americano nel marzo 1957, il 25 dello stesso mese la stampa ha fornito i dati seguenti: “Nel 1956 sono state vendute trecentomila macchinette mangiasoldi costruite da quindicimila operai nelle cinquanta fabbriche sorte per lo più nei dintorni di Chicago. Queste macchinette non sono popolari solo a Chicago, Kansas City o Detroit — per non parlare di Las Vegas, la capitale del gioco — ma anche a New York. Ogni giorno, ogni notte, nel cuore di New York, in pieno ‘Times Square’, Americani di tutte le età, dallo studente all’anziano, dilapidano in un’ora, nella vana speranza di una partita gratuita, il loro argent de poche o la pensione della settimana. 1485 Broadway: ‘Playland’ in gigantesche lettere al neon che eclissano l’insegna di un ristorante cinese. In un’immensa hall senza porta, decine e decine di macchinette multicolori sono allineate in ordine perfetto. Davanti a ogni macchina, un comodo sgabello in pelle che ricorda quelli dei più eleganti caffè degli Champs-Elysées permette al giocatore di trattenersi anche delle ore, se è entrato con abbastanza denaro. Ha perfino davanti a sé un portacenere e un piccolo spazio riservato all”hot dog’ e alla coca cola, il pasto nazionale degli Americani meno privilegiati, che può ordinare senza neanche muoversi dal suo posto. Con una moneta da dieci cents (40 franchi) o da 25 cents (100 franchi), può provare a totalizzare il numero di punti che gli consente di vincere dieci pacchetti di sigarette. Nello Stato di New York, infatti, le vincite in contanti non sono autorizzate. Un baccano infernale copre la voce di Louis Armstrong o di Elvis Presley che accompagnano, al grammofono, gli sforzi degli ‘sportivi della monetina’, come li chiamano qui. Ragazzi in blue jeans e giubbotto di pelle stanno gomito a gomito con anziane signore dal cappellino a fiori. I ragazzi scelgono le macchinette con il bombardiere atomico o il razzo teleguidato; le signore prediligono il ‘love meter’ che rivela loro se potranno ancora innamorarsi, mentre i bambini, per 5 cents, si fanno sballottare fino alla nausea su un asino che assomiglia piuttosto a uno zebù. E ci sono anche il marinaio o l’aviatore che, senza troppa convinzione, sparano con una rivoltella” (D. Morgaine).

Si calcola che gli Americani spendano dunque quattrocento milioni di dollari all’anno al solo scopo di scagliare delle bilie d’acciaio contro dei contatti luminosi, attraverso differenti ostacoli. Come si può facilmente immaginare, una simile passione non manca di influenzare la delinquenza giovanile. Nel 1957, ad esempio, i giornali americani segnalavano l’arresto, a Brooklyn, di una banda di ragazzini guidata da un ragazzo di dieci anni e da una bambina di dodici. Rapinavano i commercianti del quartiere ed erano arrivati a mettere insieme circa mille dollari. Ma quello che premeva loro erano solo le monetine da 10 e da 5 cents che potevano utilizzare nelle macchinette. Le banconote gli servivano solo ad avvolgere il bottino e dopo le gettavano nel bidone delle immondizie.

Non è facile trovare una spiegazione a un simile fanatismo. Ne esistono tuttavia alcune che sono forse più ingegnose che persuasive. La più sottile (e la più significativa) è senza dubbio quella proposta da Julius Segai nell’articolo “The Lure of Pinball” su Harper’s dell’ottobre 1957 (vol. 215, n. 1289, pp. 44-47). Questo saggio si presenta al tempo stesso come una confessione e come un’analisi. Ripeto in questa sede il commento che ne avevo fatto a suo tempo. Dopo i riferimenti d’obbligo a un qualche simbolismo sessuale, l’autore rileva essenzialmente, nel piacere dispensato dalle macchinette mangiasoldi, un sentimento di vittoria contro la tecnica moderna. La parvenza di calcolo cui il giocatore si abbandona prima di proiettare la bilia, non gli serve molto, ma gli pare qualcosa di sublime: “Gli sembra di giocare solo, con la sua abilità, contro tutte le risorse dell’intera industria americana.” Il gioco sarebbe dunque una sorta di competizione fra l’abilità individuale del singolo e un immenso meccanismo anonimo. Con una moneta (reale), egli rischia di vincere dei milioni (fittizi), perché i punteggi si fanno sempre con numeri dai molti zeri.

Infine, c’è anche la possibilità di barare scuotendo il flipper. Il tilt indica solo un limite da non superare. È una deliziosa minaccia, un rischio supplementare, una sorta di secondo gioco dentro il primo.

Julius Segai confessa stranamente che, in caso di depressione, gli capita di fare un giro di mezz’ora finché non trova la sua macchinetta preferita. Allora gioca, confidando nella “possibilità terapeutica di vincere”. Ed esce, rassicurato circa il suo talento e le sue possibilità di successo. La depressione è sparita, l’aggressività placata.

Egli ritiene che il comportamento di un giocatore davanti al biliardino sia altrettanto rivelatore della personalità del test di Rorschach. A sentir lui, ogni giocatore cercherebbe di provare a se stesso che può battere le macchine sul loro stesso terreno. Immagina di dominare la meccanica e accumulare un’enorme fortuna in cifre luminose iscritte sulla spia del flipper. Vi riesce da solo e può rinnovare l’exploit a volontà. “Con una moneta, egli esteriorizza la propria irritazione e ottiene che il mondo si comporti docilmente.”

Avevo riassunto il saggio di Segai senza discuterlo. Il mio concetto me l’ero comunque già fatto. Mi pare infatti che la maggior parte degli utenti dei flipper o delle macchinette mangiasoldi assomiglino molto poco a Segai e siano ben lontani, in particolare, dal provare lo stesso fervore vendicativo azionando il pulsante dell’aggeggio. C’è forse, nelle sue confessioni, più fantasia che osservazione obiettiva: tutto avviene come se l’autore del saggio, romanzando un’abitudine della quale probabilmente si vergognava un po’, si fosse sforzato di scoprirle delle dimensioni psicologiche atte a renderla interessante e, per così dire, onorevole, se non addirittura igienica. La macchinetta mangiasoldi può difficilmente apparire come un’immagine dell’universo meccanico vinto e reso obbediente: essa non è minimamente docile o placante, è piuttosto irritante e ciecamente inflessibile. Il giocatore, di solito, s’innervosisce più che bearsi del proprio trionfo. E lascia la macchina con un senso di frustrazione, furente per aver speso del denaro senza alcun risultato, adirato contro quel congegno meccanico che, ovviamente, non ha colpa ma cui egli rimprovera puerilmente di essere sbilanciato o difettoso nel funzionamento, e insomma di averlo fatto perdere. In realtà, si sente imbrogliato. E non abbandona affatto quell’ordigno riconciliato con esso, ma amareggiato e furente contro se stesso. I milioni che si accendevano sul quadrante sono spariti ed egli è un po’ più povero di prima. Penso che, nel caso di Segai, la componente terapeutica, che egli tiene in gran conto, non sia consistita tanto nel giocare quanto nel ragionare sul gioco.

L’esistenza e il successo delle macchinette mangiasoldi non possono che rivelare un’incrinatura, un punto debole, nella posizione di chi fosse persuaso della fecondità culturale dei giochi fino a vedervi uno dei principali fattori di civiltà. Egli dovrà ormai tenerne conto; aveva già rilevato che i giochi non sono ugualmente fecondi e che alcuni, più di altri, favoriscono un positivo sviluppo dell’arte, della scienza e della morale, nella misura in cui obbligano maggiormente al rispetto della regola, alla lealtà, alla padronanza di sé, al disinteresse, o esigono una dose maggiore di calcolo, d’immaginazione, di pazienza, di destrezza o di forza. Ma ecco che si imbatte in giochi vacui, privi di valore, giochi che non esigono alcunché dal giocatore e sono semplice e sterile occupazione di tempo libero. Giochi siffatti uccidono, letteralmente, il tempo senza fecondarlo, mentre i giochi veri gettano un seme, lo fanno fruttificare a lungo termine, quasi a caso, a ogni modo senza uno scopo prefissato e come un premio aggiunto al piacere. Al contrario, quegli pseudo-giochi — che non mettono niente in gioco — non servono che a sostituire la noia con una routine mascherata da divertimento.

Le macchinette mangiasoldi e, secondariamente, i “solitari” rivelano dunque che, vicino ai veri giochi che sono sempre attività, mobilitazione di una qualche risorsa o prova di grande padronanza di sé, esistono delle distrazioni illusorie che, riempiendo le ore d’ozio, assumono l’apparenza di giochi. Esse rafforzano la tendenza alla passività e al disimpegno. Non inducono quindi lo spirito a una fertile deriva, il che si riallaccerebbe a un’altra forma di gioco che ha spesso un nome ben preciso nelle lingue orientali, e che, nell’ambito della fantasticheria e del pensiero in libertà, possiede una sua particolare efficacia. Queste distrazioni -e chiamarle così è dunque un controsenso- raggelano invece e per così dire paralizzano l’immaginazione. Esse bloccano, fissano l’attenzione su una pericolosa monotonia, appena sufficientemente diversificata da non stancare, ma abbastanza ossessionante da addormentare e incantare le coscienze.

Né il moralista né il sociologo possono scorgere un sintomo positivo nell’eccessivo diffondersi e fiorire di questa sorta di inganno. Forse, questo è il prezzo di uno sforzo smisurato che non permette più all’individuo quel tanto di iniziativa e di vitalità per cui la distensione che si accorda non sia torpore e coma delle sue facoltà, ma intensità liberamente espressa, certo improduttiva al momento, ciò nondimeno tanto più fruttuosa a lungo termine e su un piano diverso da quello del lavoro e dei doveri.

CAPITOLO 4. DEGENERAZIONE DEI GIOCHI

Giochi d’azzardo, oroscopi e superstizione.

A titolo d’esempio, ecco i consigli di Mithuna su un numero preso a caso di un qualunque settimanale femminile (La Mode du Jour, 5 gennaio 1956):

“Quando vi consiglio (con tutte le riserve della semplice logica) di preferire, se è possibile, un dato numero a un altro, non alludo soltanto alla cifra finale, come si fa di solito... Intendo anche la cifra data dal numero ricondotto all’unità. Ad esempio, 66.410 riportato all’unità fa: 6+6+4+1 = 17 = 1 + 7 = 8. Benché non contenga alcun 8, questo numero potrebbe essere scelto da quelle cui segnalo i favori dell’8. Dovete ricondurre i numeri all’unità, tranne il 10 e l’11 che sono da prendere così come sono. E adesso, non vi dico ‘buona fortuna’. Ma se (per caso) vincete, abbiate la cortesia di comunicarmi la buona notizia, indicandomi la vostra data di nascita. Tanti auguri!... ugualmente, e di cuore!”

Le precauzioni prese dalla responsabile della rubrica appaiono evidenti. Tuttavia, data la varietà dei procedimenti indicati, il gran numero delle lettrici e il numero esiguo delle cifre, essa può prevedere un notevole coefficiente di inevitabili successi che, come è giusto, saranno i soli a essere presi in considerazione dalle interessate.

In questo campo, il colmo mi è sembrato raggiunto dall’abituale oroscopo del settimanale Intimité (du foyer). Come le altre riviste, il settimanale dà dei consigli ai nati di ogni decade per la settimana in corso. Ora, dato che questo periodico è destinato soprattutto alle campagne e la posta o la diffusione possono subire dei ritardi, né l’oroscopo né il numero della rivista recano la data!

Inclinazione agli “stupefacenti” da parte delle formiche.

Osservazioni di Kirkaldy e Jacobson, citate da W. Morton Wheeler (op. cit., p. 310). “L’insetto, appostato ai margini di una teoria di formiche che si muovono in cerca di cibo, formiche comuni in India, Hypoclinea bituberculata, tiene d’occhio i movimenti di una di queste e, quando essa si avvicina, solleva la parte anteriore del proprio corpo in modo da scoprire i suoi tricomi. Il loro odore attira la formica e la stimola a leccarli e mordicchiarli. Il Ptilocerus si riabbassa lentamente, ripiegando semplicemente le zampe anteriori sulla testa della formica, come se fosse sicuro di farne la sua preda. Spesso, la formica morde così avidamente i tricomi con le sue mandibole che scuote il Ptilocerus dall’alto in basso. Ma la secrezione della ghiandola ha, sulla formica, un effetto tossico paralizzante. Non appena la povera bestia tira fuori le zampe e vuole posarsi, il Ptilocerus l’afferra con le zampe anteriori, conficca la sua tromba in una delle suture toraciche o preferibilmente nel punto d’inse
rzione di un’antenna e aspira il contenuto del corpo. La paralisi è dovuta a una sostanza della ghiandola assorbita dalla formica e non dalla ferita causata dalla tromba del Ptilocerus; questo, secondo Jacobson, è ‘dimostrato dal fatto che, quando un gran numero di formiche hanno leccato per un po’ di tempo la secrezione del tricoma, esse si allontanano dal Ptilocerus. Ma sono ben presto colte da paralisi anche se non sono state minimamente toccate dalla tromba del Ptilocerus. In questo modo, viene distrutto un numero di formiche maggiore di quello utilizzato dai Ptilocerus per il loro nutrimento e c’è da meravigliarsi della fecondità delle formiche che consente al Ptilocerus di prelevare un così pesante tributo dalla popolazione di una comunità’.”

CAPITOLO 7. SIMULACRO E VERTIGINE

Meccanismo dell’iniziazione.

Brano tratto da H. Jeanmaire, op. cit., pp. 221-222.

“I Bobo (dell’Alto Volta) propongono, in modo più rozzo, un sistema di istituzioni religiose abbastanza simile a quello dei Bambara. Do è il nome generico che, in questa regione, designa le società religiose in cui ci si maschera con un’acconciatura di foglie e fibre vegetali e con delle maschere di legno che rappresentano teste di animali, e contemporaneamente designa la divinità che presiede a queste cerimonie e cui è consacrato, nei diversi villaggi o quartieri di villaggio, un albero attiguo a un pozzo anch’esso consacrato alla divinità. Le maschere (Koro, plur. Kora, Simbo, plur. Simboa) sono preparate e portate dai giovani di una certa fascia d’età; il diritto di penetrarne il mistero, di indossarle ed esercitare nei confronti dei non iniziati diversi privilegi viene a un certo momento acquisito dai ragazzi della fascia d’età più giovane, i quali, divenuti più grandi e stanchi d’essere perseguitati e sottoposti a ogni specie di angherie da parte delle maschere, chiedono di conoscere le ‘cose del Do’. Consigliati dagli anziani del villaggio, e dopo alcune trattative con i capi delle fasce d’età più avanzata, fanno accogliere la loro richiesta previa un’offerta rituale agli anziani. L’acquisizione del Do, vale a dire la rivelazione del segreto delle maschere, svolge qui il ruolo che svolgono altrove le cerimonie della pubertà. Le usanze naturalmente variano a seconda delle località. Dalle relazioni un po’ confuse ma pittoresche ed estremamente vive degli informatori del Dr. Cremer, prenderemo in considerazione solo due schemi cerimoniali.

“In uno di questi, che è facilmente deducibile dalle testimonianze concordanti di due informatori, la cerimonia della rivelazione delle maschere si riduce a un simbolismo il cui carattere estremamente primitivo non manca, nella sua semplicità, di una certa grandezza. Se in un quartiere del villaggio ci sono molti bambini della stessa età e della stessa statura, gli anziani dicono che è giunto il momento di fare uscire le maschere. Il capo del Do avverte i giovani già iniziati che devono confezionare e indossare i costumi e le acconciature di fogliame, rito che viene puntualmente eseguito nel corso dell’intera giornata. Verso sera, le maschere si mettono in cammino e vengono a sedersi nei pressi del villaggio in attesa che cada la notte; gli anziani li circondano. Giunta la notte, il sacerdote del Do chiama i parenti e i neofiti che recano le offerte tradizionali e i polli per il sacrificio. Quando i fanciulli sono tutti riuniti, il sacerdote viene fuori con una scure e batte alcuni colpi a terra per chiamare le maschere. Si fanno sdraiare i bambini e si copre loro la testa. Una maschera arriva di corsa, salta intorno ai fanciulli, li spaventa con certi suoni che trae da una specie di fischietto chiamato ‘piccola maschera’. Dopo di che, il vecchio dice ai bambini di alzarsi, di inseguire e acciuffare la maschera che scappa. Essi le corrono dietro e finiscono per acchiapparla. Il vecchio allora li interpella; sanno chi è la creatura così coperta di foglie? Per farglielo sapere, strappa la maschera dal volto del personaggio e i bambini lo riconoscono immediatamente. Ma, al tempo stesso, li si avverte che rivelare il segreto a quelli che ancora lo ignorano vuol dire attirare la morte su di sé. È stata appunto scavata una fossa; è quella che si aprirebbe davanti a loro se tradissero il segreto ed è probabilmente anche quella in cui devono seppellire la personalità infantile che stanno per abbandonare. Simbolicamente, ogni bambino deve deporre nella buca alcune foglie strappate al costume del personaggio mascherato. Quando la fossa viene richiusa, il bambino la suggella con forza premendola e battendovi sopra con la mano. Ai riti di uscita dal luogo d’iniziazione e di rientro al villaggio, il bagno rituale è ridotto al minimo: ogni bambino, passando, tuffa la mano in un recipiente che contiene dell’acqua. Il giorno dopo, i giovani conducono i nuovi iniziati nella boscaglia e insegnano loro a intrecciare il costume e ad addobbarsene.

“Questa è l’usanza. Quando si è svelato il segreto a una persona, questa si fa vedere in giro, passeggia, è in vita; chi invece non ha avuto la rivelazione, non è in vita.”

Materiali di Etnografia e Linguistica sudanese, t. IV, 1927 (secondo alcuni documenti raccolti dal Dr. J. Cremer e pubblicati da H. Labouret).

Esercizio del potere politico da parte delle Maschere.

Caso della società Kumang della Nigeria raffrontato da H. Jeanmaire con la cerimonia descritta da Platone (Critone, 120 B) per il mutuo giudizio dei dieci re dell’Atlantide:

“L’autorità sociale, qui, non era tanto nelle mani dei capi del villaggio che erano tali per diritto di discendenza, quanto in quelle dei dirigenti delle ‘società segrete’, strumenti degli Anziani. Quella del Kumang (che sarebbe analoga al Komo bambara), ora in declino, ha lasciato il ricordo stranamente leggendario dei riti sanguinari che perpetrava; questi riti si celebravano ogni sette anni; vi erano ammessi solo gli Anziani che avevano raggiunto il più alto grado della scala sociale, e il luogo in cui si svolgeva la festa era vietato alle donne, ai ragazzi e perfino ai giovani. Gli anziani ammessi alla cerimonia dovevano provvedere, oltre alla birra, un toro nero destinato al sacrificio. L’animale veniva immolato, e quindi acconciamente appeso al tronco di una palma. I celebranti dovevano inoltre munirsi di un costume cerimoniale che consisteva, oltre che in un copricapo, in un paio di pantaloni e un camice di color giallo. La convocazione aveva luogo a cura del presidente della confraternita e l’annuncio provocava grande fervore e agitazione in paese; il luogo di riunione era una radura nella foresta; i confratelli prendevano posto seduti tutt’intorno al capo (mare) che a sua volta sedeva su un vello di montone nero che copriva una pelle umana. Ogni confratello si era preoccupato di portare i propri veleni e intrugli magici (Korti dei Bambara). I primi sette giorni erano occupati da sacrifici, banchetti e chiacchiere. È probabile che i colloqui che avvenivano a questo punto avevano lo scopo principale di arrivare a un’intesa circa le persone da far sparire. Passati i sette giorni, aveva inizio la parte essenziale del mistero. Esso si celebrava ai piedi di un albero sacro che si riteneva fosse la ‘Madre del Kumang’ e il cui legno serviva effettivamente alla fabbricazione delle maschere del Kumang. Ai piedi dell’albero era sistemata una fossa in fondo alla quale si celava la maschera che personificava anche il dio di quella società e, come tale, indossava uno stravagante costume di piume. Il giorno stabilito, verso la fine del pomeriggio, mentre i confratelli stavano seduti in cerchio, la faccia rivolta all’interno, la maschera cominciava a fuoriuscire dalla fossa. Lo stregone sottolineava quell’apparizione con un canto che veniva ripreso dalla maschera e al quale rispondevano in coro i membri della confraternita. La maschera si metteva quindi a danzare; dapprima piccola piccola, si faceva poco a poco sempre più grande. Abbandonata la fossa, l’essere demoniaco ora danzava intorno al cerchio formato dai confratelli che, girandogli le spalle, accompagnavano con dei battimani la sua danza. Chi si girava, moriva. Del resto, da quando la maschera, che continuava a crescere, aveva iniziato la sua danza, la morte aveva preso a mietere vittime fra la gente. La danza continuava per tre giorni di seguito nel corso dei quali la maschera rispondeva in forma oracolare alle domande che le venivano poste; le risposte valevano per i sette anni che dovevano passare prima della cerimonia seguente; allo scadere di questi tre giorni, la maschera pronunciava la sua sentenza anche sulla sorte del capo della confraternita e annunciava se egli dovesse assistere o no alla festa seguente; in caso negativo, era destinato a morire più o meno rapidamente nel corso del nuovo settennio e si provvedeva immediatamente alla sua sostituzione. A ogni modo, durante quelle giornate, molte erano le vittime che cadevano, sia fra la popolazione che nella cerchia degli anziani.”

(Secondo K. Frobenius, Atlantis, Volksmärchen und Volksdichtungen Afrikas, v. VIII. Dämonen des Suden, 1924, pp. 89 e seg.).

CAPITOLO 8. COMPETIZIONE E CASO

Intensità dell’identificazione con il divo. Un esempio: il culto di James Dean.

Nel 1926, numerosi suicidi seguirono la morte dell’attore Rodolfo Valentino.

Alla periferia di Buenos Aires, nel 1939, parecchi anni dopo la morte del cantante di tango Carlos Gardel, rimasto carbonizzato in un incidente di volo, due sorelle si avvolsero in lenzuola imbevute di petrolio e si dettero fuoco per morire come lui. Delle adolescenti americane, per rendere omaggio in comune a un cantante di loro gusto, si riunivano in gruppi frenetici e costituivano dei club che si chiamavano, ad esempio: “Quelle che svengono vedendo apparire Frank Sinatra.” Oggi, la Warner Brothers, per la quale lavorava James Dean, morto prematuramente nel 1956 all’inizio del culto di cui era oggetto, riceve circa mille lettere al giorno da parte di ammiratrici sconsolate. La maggior parte di queste lettere comincia così: “Caro Jimmy, so che non sei morto...” Un servizio speciale si incarica di evadere questa bislacca corrispondenza postuma. Quattro periodici sono esclusivamente dedicati alla memoria dell’attore. Uno di questi ha per titolo: James Dean ritorna. E corre voce che non esista alcuna fotografia del funerale dell’attore perché questi, sfigurato, non è morto ma si è ritirato dal mondo. Molte sedute spiritiche evocano lo scomparso: egli ha dettato a una commessa di un grande magazzino di nome Joan Collins una lunga biografia in cui afferma di non esser morto e che quelli che dicono che non è morto hanno ragione. L’opera è stata venduta in cinquecentomila esemplari.

Su uno dei più importanti quotidiani parigini, uno storico competente, sensibile a tutti i sintomi rivelatori dell’evoluzione del costume, è rimasto impressionato dal fenomeno. E scrive: “Si piange in lunghe processioni sulla tomba di James Dean, come Venere piangeva sulla tomba di Adone.” Sottolinea opportunamente che gli sono state dedicate ben otto pubblicazioni con una tiratura di cinquecento o seicentomila copie, e che il padre del divo sta scrivendo la sua biografia ufficiale. “Alcuni psicanalisti,” continua il giornalista, “scandagliano il suo subconscio basandosi sui suoi sproloqui da bar. Non c’è città, negli Stati Uniti, che non abbia il suo club James Dean in cui le fans comunicano nel ricordo di lui e venerano le sue reliquie.” I membri di queste associazioni sono valutati in tre milioni e ottocentomila. Dopo la morte del divo, “i suoi indumenti, tagliati in mille pezzi, sono stati venduti in ragione di un dollaro al centimetro quadrato”. La macchina al volante della quale James Dean si è accidentalmente ucciso correndo a centosessanta chilometri all’ora “è stata restaurata e portata in giro in tutte le città. Per venticinque cents, si era ammessi a contemplarla. Per cinquanta, ci si poteva sedere per qualche secondo al volante. Finita la tournée, la macchina è stata fatta a pezzi con la fiamma ossidrica e i rottami venduti. all’asta”.110

Reviviscenze della vertigine nelle civiltà organizzate: gli incidenti del 31 dicembre 1956 a Stoccolma.

L’episodio in sé è minimo, un fenomeno passeggero, ma rivela a che punto l’ordine costituito sia fragile esattamente nella misura in cui è rigoroso, e come le irrazionali potenze di vertigine siano sempre pronte a riprendere il sopravvento. Riporto qui l’acuta analisi della corrispondente di Le Monde nella capitale svedese:

“La sera del 31 dicembre, come Le Monde ha segnalato, cinquemila giovani hanno invaso la Kungsgatan -l’arteria principale di Stoccolma- e, per circa tre ore, hanno ‘occupato la strada’, molestando i passanti, rovesciando automobili, spaccando vetrine e tentando infine di innalzare delle barricate con inferriate e stipiti divelti dalla vicina piazza del mercato. Contemporaneamente, altri gruppi di giovani vandali rovesciavano le antiche pietre tombali che circondano la chiesa vicina e lanciavano dall’alto del ponte che attraversa Kungsgatan sacchetti di carta pieni di benzina cui era stato dato fuoco. Tutte le forze di polizia disponibili vennero concentrate in tutta fretta sul posto. Ma il loro numero irrisorio — un centinaio di uomini appena — rendeva molto difficile il compito. Solo dopo diverse cariche a sciabola sguainata e colluttazioni varie a dieci contro uno, i poliziotti riuscirono a spuntarla. Molti di loro, mezzo linciati, dovettero essere ricoverati all’ospedale. Una quarantina di manifestanti sono stati arrestati; l’età varia dai quindici ai diciannove anni. ‘È stata la manifestazione più grave che si sia mai svolta nella capitale,’ ha dichiarato il prefetto di polizia di Stoccolma.

“Questi avvenimenti hanno suscitato nella stampa e negli ambienti responsabili del paese un’ondata d’indignazione e di preoccupazione che è ancora ben lungi dal placarsi. I pedagoghi, gli educatori, la Chiesa, le innumerevoli organizzazioni sociali che in Svezia sono attivamente operanti all’interno della comunità, s’interrogano angosciosamente sulle cause di questa assurda esplosione. Il fatto in sé non è neppure inedito: tutti i sabato sera, analoghe risse e scene di violenza hanno luogo nel centro di Stoccolma e delle principali città di provincia. Tuttavia, è la prima volta che questi incidenti raggiungono tale ampiezza.

“Essi presentano un carattere quasi ‘kafkiano’ di angoscia. Perché questi moti non sono né concertati né premeditati; la manifestazione non ha origine né ‘per’ qualcosa, né ‘contro’ qualcuno. Inesplicabilmente, decine, centinaia, e lunedì migliaia, di giovani si trovano in quel punto. Non si conoscono fra loro, non hanno niente in comune se non l’età, non obbediscono a una parola d’ordine né a un capo. Sono, in tutta la tragica accezione della parola, dei ‘ribelli senza causa’.

“Per lo straniero che, sotto altri cieli, ha visto dei ragazzi farsi uccidere per un ideale, questa rissa senza coscienza appare tanto incredibile quanto incomprensibile. Almeno si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto per ‘mettere un po’ di paura ai borghesi’; questo, in un certo senso, ci rassicurerebbe. Ma i volti di questi adolescenti sono chiusi, cattivi. Non si divertono. Esplodono improvvisamente in una cieca follia di muta distruzione. Perché la cosa forse più impressionante, in quella torma di violenti, è il loro silenzio. In un suo ottimo lavoro sulla Svezia, François-Régis Bastide aveva già scritto:

“‘... questi oziosi in preda al terrore della solitudine [che] si radunano, si pigiano insieme come tanti pinguini, si accalcano, ringhiano, s’insultano fra i denti, si saltano addosso riempiendosi di botte senza un grido, senza una parola comprensibile...’

“A parte la famosa solitudine svedese e l’angoscia animale mille volte descritta e suscitata dalla lunga notte d’inverno che comincia alle due del pomeriggio per dissiparsi in un vago grigiore alle dieci del mattino, dove cercare la spiegazione di un fenomeno di cui si ritrova l’eco, sotto forme diverse, in tutti i ‘serbatoi’ di violenza d’Europa o d’America? La spiegazione che si può trovare qui, in Svezia, dove i fatti spiccano forse con maggior nettezza, è altrettanto valida per i ‘vandali del rock’n’ roll’ o le ‘bande motorizzate’ d’America, senza dimenticare i ‘teddy boys’ londinesi.

“A quale gruppo sociale appartengono, prima di tutto, questi giovani ribelli? Vestiti come i loro colleghi americani con dei giubbotti di pelle sui quali spiccano teschi e iscrizioni cabalistiche, essi sono, come loro, per la maggior parte figli di operai o di piccoli impiegati. Apprendisti o commessi di negozio essi stessi, questi giovani percepiscono, alla loro età, salari che avrebbero fatto sognare le generazioni precedenti. Questo relativo benessere, e, in Svezia, la certezza di un avvenire garantito, abolisce in loro l’angoscia del domani e contemporaneamente rende inutile l’aggressività un tempo necessaria per ‘farsi un posto al sole’. Altrove, è invece l’eccessiva difficoltà a ‘sfondare’ in un mondo in cui la fatica quotidiana è sottovalutata a beneficio della gloria dei divi del cinema o dei gangster, che genera disperazione. In ambedue i casi, l’aggressività, privata di un valido campo d’azione, esplode all’improvviso in un accesso di furia cieca e priva di senso...” Eva Freden. (Le Monde, 5 gennaio 1957.)

CAPITOLO 9. REVIVISCENZE NEL MONDO MODERNO

La maschera: attributo dell’intrigo amoroso e della cospirazione politica: simbolo di mistero e d’angoscia: suo carattere torbido.

Intorno al 1700, in Francia, la maschera è divertimento di Corte. Favorisce stuzzicanti equivoci ma resta qualcosa di inquietante e all’improvviso, perfino in uno storico del realismo di Saint-Simon, può suscitare, nel modo più sconcertante, una dimensione fantastica degna di Hoffmann o di Edgar Poe:

“Bouligneux, luogotenente generale, e Wartigny, maresciallo di campo, furono uccisi davanti a Venie; due uomini di grande valore, ma assolutamente singolari. L’inverno precedente, si erano fatte diverse maschere di cera raffiguranti personaggi della Corte al naturale, e le si portavano sotto altre maschere in modo che, togliendo la prima, si cadeva nell’inganno prendendo la seconda maschera per il volto, mentre quello vero, del tutto diverso, era sotto. Ci si divertì molto, a quello scherzo. Tornato l’inverno, si volle ripetere l’allegra trovata. Grande fu la sorpresa quando si trovarono tutte le maschere che raffiguravano dei volti veri in ottimo stato di freschezza e quali eran state riposte dopo il carnevale, tranne quelle di Bouligneux e di Wartigny che, pur conservando la loro perfetta rassomiglianza con i due personaggi, avevano il pallore e la macilenza di persone appena morte. Le due maschere fecero la loro apparizione a un ballo e suscitarono tanto orrore che si cercò di accomodarle con del belletto, ma il belletto dileguava all’istante, e a quel pallore non si potè por rimedio. Questo fatto mi è parso così straordinario che l’ho ritenuto degno d’esser riferito, ma mi sarei ben guardato dal farlo se tutta la Corte non fosse stata, come me, testimone altamente sbigottita, e più di una volta, di questa inquietante stranezza. Alla fine, le due maschere furono gettate via.” Mémoires di Saint-Simon, Bibliothèque de la Plèiade, t. II, cap. XXIV (1704), 1949, pp. 414-415.

Nel XVIII secolo, la civiltà di Venezia è in parte una civiltà della maschera. Essa serve agli usi più diversi e il suo impiego è regolamentato. Ecco, secondo Giovanni Comisso, quello della bautta (Agenti segreti veneziani nel ‘700, documenti scelti e pubblicati da Giovanni Comisso, Bompiani, 1945, pp. 40-41, nota 1):

“La bautta consisteva di un mantellino con cappuccio nero e maschera. Il nome ha origine dalla voce: bau bau, colla quale si fa paura ai bambini. Tutti la portavano a Venezia incominciando dal Doge quando voleva liberamente andare per la città. Ai nobili, uomini e donne, era imposta nei pubblici ritrovi per frenare il lusso e anche per impedire che la classe patrizia venisse menomata nella dignità trovandosi a contatto col popolo. Nei teatri i portinai dovevano controllare che i nobili avessero la bautta sul volto, ma entrati nella sala se la sollevavano a loro piacimento. I patrizi quando dovevano abboccarsi per ragioni di Stato con gli ambasciatori dovevano pure avere la bautta, e il cerimoniale la prescriveva anche per gli ambasciatori in questa occasione.”

La maschera è il volto; lo zendale è un velo nero che avvolge la testa; il tabarro, un mantello leggero che si indossa sopra gli altri vestiti. Lo si porta per cospirare e per recarsi in luoghi malfamati. È per lo più di colore scarlatto. La legge, in linea di principio, proibisce ai nobili d’indossarlo. Vengono infine i travestimenti da carnevale a proposito dei quali Giovanni Comisso dà le precisazioni seguenti:

“Fra i vari tipi di mascherate che si usavano durante il Carnevale vi erano: le gnaghe, uomini vestiti da donna o anche no, che imitavano le voci stridule di certe donne, i tati, che figuravano come grandi ragazzi stupidi, i bernardoni, camuffati da mendicanti afflitti da deformità e da malattie, i pitocchi, vestiti come straccioni. Giacomo Casanova durante un Carnevale, a Milano, ideò una mascherata originale di pitocchi: prese per sé e per i suoi compagni bellissimi e preziosi abiti che strappò in varie parti a colpi di forbice e gli strappi li fece rattoppare con stoffe ugualmente preziose di diversi colori. (Mémoires, tomo V, cap. XI.)”111

L’aspetto rituale, stereotipato, della mascherata è chiaramente percepibile ed era evidente fin verso il 1940 nel Carnevale di Rio de Janeiro.

Fra gli autori moderni che hanno analizzato più felicemente il turbamento che emana dall’uso della maschera, Jean Lorrain può rivendicare un posto di primo piano. Le riflessioni che fanno da introduzione al racconto L’un d’eux nella sua raccolta di novelle Histoires de Masques (Parigi, 1900. Prefazione di Gustave Coquiot, pure sulle maschere, ma insignificante) meritano d’essere riportate:

“Il mistero seducente e repellente della maschera: chi potrà mai svelarne la tecnica, spiegarne le ragioni e dimostrare logicamente il bisogno imperioso cui cedono, in determinati giorni, alcuni esseri, di truccarsi, mascherarsi, mutare la loro identità, cessar d’essere quelli che sono; in una parola, di evadere da se stessi?

“Quali istinti, quali appetiti, quali speranze e bramosie, quali malattie dell’anima sotto i finti nasi e i finti menti di cartapesta grossolanamente colorata, il raso luccicante delle mascherine o il panno bianco dei cappucci! In quale ebbrezza di hascish o di morfina, in quale oblio di sé, in quale equivoca e sciagurata avventura sprofondano, nei giorni di carnevale, quei penosi e grotteschi cortei di domino e penitenti?

“Sono chiassose, queste maschere, esuberanti nei gesti, e tuttavia la loro allegria ha qualcosa di triste; sono più degli spettri che degli esseri vivi. Come fantasmi, procedono per lo più avviluppati in ampie palandrane e, come fantasmi, celano il loro volto. Perché non vampiri sotto quei larghi camagli che racchiudono volti pietrificati di velluto o di seta? Perché non scheletri, sotto quelle morbide bluse da Pierrot drappeggiate a mò di sudari su tibie incrociate? Questa umanità, che si nasconde per mescolarsi alla folla, non è già contro natura, non è già fuorilegge? È chiaramente malvagia poiché vuol mantenere l’incognito, malintenzionata e colpevole poiché cerca d’ingannare e l’ipotesi e l’istinto; beffarda e macabra, essa riempie di confusione, lazzi e clamori l’esitante stupore delle strade, fa voluttuosamente rabbrividire le donne, terrorizza i bambini e suggerisce pensieri ignobili agli uomini, improvvisamente turbati dall’ambiguità sessuale dei travestimenti.

“La maschera è l’aspetto torbido e inquietante dell’ignoto, il sorriso della menzogna, l’anima stessa della perversità che sa corrompere terrorizzando; è la lussuria resa più piccante dalla paura, il rischio delizioso e sottilmente angoscioso di una sfida lanciata alla curiosità dei sensi: ‘Sarà brutta? Sarà bello? Giovane? Vecchia?’ È l’avventura galante condita di macabro e resa piccante, chissà, da una punta di turpitudine e di sadismo; infatti, dove mai finirà l’avventura? In una camera ammobiliata o nella palazzina di una mondana d’alto bordo, o forse in questura, perché anche i ladri si travestono per portare a segno i loro colpi, e, con le loro provocanti e terribili finte sembianze, le maschere sono proprie sia del luogo malfamato che del cimitero: c’è in esse del delinquente, della donnina allegra e dello spettro.” (Histoires de Masques, pp. 3-6)