I - I SICILIANI
Il più antico documento della nostra letteratura è
comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di
Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo
esse non principio, ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata
assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui
prese il nome.
Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re di Sicilia, chiamato da
Dante «cherico grande», cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo
signore, nella cui corte a Palermo venia «la gente che avea bontade,
sonatori, trovatori e belli favellatori». E perciò i rimatori di quel
tempo, ancorchè parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti
siciliani.
Che cosa è la cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e
Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle
canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a
Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.
Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari,
di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati.
La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze,
mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine.
Diamo ad esempio due strofe:
AMANTE
Molte sono le femine
c'hanno dura la testa,
e l'uomo con parabole
le dimina e ammonesta:
tanto intorno percacciale
sinchè l'ha in sua podesta.
Femina d'uomo non si può tenere.
Guàrdati, bella, pur di ripentere.
MADONNA
Che eo me ne pentesse?
Davanti foss'io auccisa,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa.
Er sera ci passasti
correnno alla distisa.
Acquistiti riposo, canzoneri:
le tue paraole a me non piaccion gueri.
La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di
naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose,
senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza
di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento
è più prezioso, perchè se l'ingegno del poeta apparisce ne' concetti
e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma
è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era allora già la
nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si
parlava, ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio
di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua nuova acquisti una
certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi
capace che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione,
dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.
E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse possibile una scuola
poetica, giunta allora all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti,
i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono
in tutti i medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano
i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le
lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro
volgare, si può congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non
si può affermare per la insufficienza de' documenti. Oltrechè, non è
questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così
alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate
discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione,
parlata e scritta da' chierici, da' dottori, da' professori e da' discepoli.
Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe «la lingua nostra
latina e il nostro volgare».
Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare.
E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell'uso comune
della vita, si vede pure da' contratti e istrumenti scritti in un latino
che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce
latina trovi la voce in uso con un «vulgo dicitur», o «dicto.»
Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito
trasformando nel linguaggio comune, detto il «romano rustico». Nell'812
il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare
le omelie in «lingua romana rustica». Questa lingua romana o romanza,
dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre
romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano
chi la parlasse, «solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa del
volgo». Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano,
e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non
altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne' diversi
dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti,
affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue
neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica,
che ad alcun'altra.
Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per
le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile
alla lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in
nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano
i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.
Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella somiglianza
de' vocaboli e delle forme grammaticali, e ne' mezzi musicali e analitici
sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina.
Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino,
era il «volgare». Così Malespini dicea: «la nostra lingua latina e il
nostro volgare», cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo
ne' suoi dialetti.
Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi
e barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza
visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un
colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune
fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era
come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi
a quello stampo, e che si diceva il «volgare», così prossimo al romano
rustico.
Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali,
formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione
con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando
in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.
La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione
del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una
parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto,
dall'altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova
vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme
di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo
o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere
quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio
la distinguano dalla plebe.
Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro
di coltura, che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli
uomini più illustri. Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo,
dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per dirla
col Novellino, «dove la gente che avea bontade venìa a lui da
tutte le parti».
Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa Dante.
E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non
è più dialetto siciliano e non è ancora lingua italiana, ma è già, malgrado
gli elementi locali, un parlare comune a tutt'i rimatori italiani, e
che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire
il linguaggio delle persone civili.
La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura, l'araba e la
normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato
con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co'
normanni, che ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che
in altre parti d'Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e
i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti
de' trovatori, le novelle orientali, la Tavola rotonda, un contatto
immediato con popoli così diversi di vita e di coltura, avea colpito
le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia
divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del
normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico
secondo l'Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori
si chiamavano «siciliani». Cronache, trattati scrivevano in un latino
già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando.
I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano
rustico, fondo comune di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della
gente colta, il «volgare», di tutt'i volgari moderni il più simile al
latino.
La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com'era
usato in tutt'i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato
di elementi locali, materia ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco
assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme
e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo
di elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi
in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione
anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione
ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale,
è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento
dell'amante del crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili
e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo
italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato
e accompagnato da istrumenti musicali, questo «sonetto», come lo chiama
l'innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così:
Giammai non mi conforto
nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
e vogliono collare.
Vassene la più gente
in terre d'oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!
Come degg'io fare?
Vassene in altea contrata,
e nol mi manda a dire:
ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte con la dia;
nè in cielo nè in terra
non mi pare ch'io sia.
Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza
di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi
con la croce:
La croce mi fa dolente,
e non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
perchè m'hai così distrutta?
Oinzè lassa tapina!
ch'io ardo e incendo tutta.
Finisce così
Però ti prego, Dolcetto,
che sai la pena mia,
che me ne facci un sonetto
e mandilo in Soria:
ch'io non posso abentare
notte, nè dia:
in terra d'oltremare
ita è la vita mia.
La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana,
e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti
essenziali.
L'amante che prega e chiede amore, l'innamorata che lamenta la lontananza
dell'amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie
dell'amore, sono i temi semplici de' canti popolari, la prima effusione
del cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie, come le più
semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere.
Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè
stessi, non ancora analizzati e raffinati.
Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in Storia
della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle
Colonne, da Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la
sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:
Oi lassa innamorata,
contar vo' la mia vita,
e dire ogni fiata,
come l'amor m'invita,
ch'io son, senza peccata,
d 'assai pene guernita
per uno che amo e voglio,
e non aggio in mia baglia,
siccome avere io soglio;
però pato travaglia.
Ed or mi mena orgoglio,
lo cor mi fende e taglia.
Oi lassa tapinella,
come l'amor m'ha prisa!
Come lo cor m'infella
quello che m'ha conquisa!
La sua persona bella
tolto m'ha gioco e risa,
ed hammi messa in pene
ed in tormento forte:
mai non credo aver bene,
se non m'accorre morte,
e spero, là che vene,
traggami d'esta sorte.
Lassa che mi dicia,
quando m'avìa in celato:
- Di te, o vita mia,
mi tegno più pagato,
che s'io avessi in balìa
lo mondo a signorato.
Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian
fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. Non
ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno naturali, dove non trovi
qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura,
come dice un poeta popolare, e com'è una prima e subita impressione
colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva
e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti
«pur mo' nata», e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto.
Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla,
vi trova questa gemma:
Giorno non ho di posa,
come nel mare l'onda:
core, chè non ti smembri?
Esci di pene e dal corpo ti parte:
ch'assai val meglio un'ora
morir, che ognor penare.
Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta
assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma
certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:
Perzò meglio varria
morir in tutto in tutto,
ch'usar la vita mia
in pena ed in corrutto,
come uomo languente.
Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda
e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità
di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite
questi versi:
E par ch'eo viva in noia della gente:
ogni uono m' è selvaggio:
non paiono li fiori
per me, com' già soleano,
e gli augei per amori
dolci versi faceano - agli albori.
Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che
lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch'ei
senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta,
e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.
Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di
sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne.
Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori,
quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali,
non avea riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice
d'amore, i romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle
arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo
era penetrato in Italia, e se colpiva l'immaginazione, rimaneva estraneo
all'anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l'imitazione. Avemmo
anche noi i trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni,
imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L'Intelligenzia,
poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere.
L'amore divenne un'arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu
più questa o quella donna, ma la donna con forme e lineamenti fissati,
così come era concepita ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono
simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere con sentimenti fattizii
e attinti da' libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori
della società, e non penetrò molto addentro nel popolo, e non durò.
Forse, se la Casa sveva avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca
e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la
vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero della cavalleria un
mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di
Troia.
Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate
e non lavorate da noi, si trovano messe lì, come tolte di peso, con
manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini
e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse,
e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna,
il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa
«trovare» lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto
nel codice e ne' testi, nè ti è dato sentire ne' suoi versi una tragedia
sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga gli tengono
luogo d'ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto
e di un colore, così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il
tempo e l'autore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio:
ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione
dell'anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una
galanteria. È un passatempo, come erano le corti d'amore, è la gaia
scienza un modo di passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione
di spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina d'amore; e chi
più mostrava saperne, era più ammirato. Invano cerchi ne' canti di Federico,
di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni
della loro vita: vi trovi il solito codice d'amore, con le stesse generalità.
L'arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è
convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un meccanismo che dovea
destare grande ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle donne;
la Nina Siciliana e la Compiuta Donzella fiorentina dovettero parere
un miracolo.
Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che
scrivono senza guardare all'effetto e senza pretensione, a diletto e
a sfogo, e come viene. Anche nelle poesie più rozze trovi bei movimenti
di affetto e d'immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma,
che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla
natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia che Dante
chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano dal vero e dalla natura,
ed hai tutt'i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori d'Italia,
e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt'i difetti della decadenza,
un seicentismo che infetta l'arte ancora in culla. Ci è già un repertorio.
Il poeta dotto non prende quei concetti, così crudi e nudi, come fanno
i rozzi nella loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e
li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c'è,
ma freddo e meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri,
rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che il lettore
ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme
rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata, come
il concetto, e scopre l'artificio di un lavoro, a cui rimane estranea.
E fosse almeno originale questo lavoro, sì che rivelasse nei poeta una
vera svegliatezza e attività dello spirito! Ma è un seicentismo venuto
anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:
Umile sono ed orgoglioso,
prode e vile e coraggioso,
franco e sicuro e pauroso,
e sono folle e saggio.
Facciome prode e dannaggio,
e diraggio
- Vi' como
mal e bene aggio
più che null'omo. -
Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta
su questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude
ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e là
e messe insieme a casaccio.
I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono Guido
delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.
Guido, dottore o, come allora dicevasi, giudice, fu uomo dottissimo.
Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la Storia
della caduta di Troia, di Darete, una versione che fu poi recata
parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune
volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del
latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè
del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta,
e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli
conseguire una perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti.
Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio
di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo.
Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina, studiandosi
di fare effetto con la peregrinità d'immagini e concetti esagerati e
raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una
forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:
Ancor che l'aigua per lo foco lasse
la sua grande freddura,
non cangerea natura,
se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
anzi avverrea senza alcuna dimura
che lo foco stutasse,
o che l'aigua seccasse;
ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.
Così, gentil criatura,
in me ha mostrato amore
l'ardente suo valore,
che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.
Ma el m'ha sì allumato
di foco, che m'abbraccia,
ch'eo fòra consumato,
se voi, donna sovrana,
non foste voi mezzana
infra l'amore e meve,
che fa lo foco nascere di neve.
E non si ferma qui, e continua con l'acqua e il foco
e la neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo «spirito ch'io
aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia», e conchiude ch'ella
lo tira a sè, ed ella sola può, come di tutte le pietre la sola calamita
ha balìa di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando
come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure
dissimulate nell'artificio della forma; perchè se guardi alla condotta
del periodo, all'arte de' passaggi, alla stretta concatenazione delle
idee, alla felicità dell'espressione in dir cose così sottili e difficili,
hai poco a desiderare.
In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza,
massime ne' sonetti. Non mancano movimenti d'immaginazione ed una certa
energia d'espressione, come:
Ben vorria che avvenisse
che lo meo core uscisse
come incarnato tutto,
e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:
ch'Amore a tal n 'addusse,
che se vipera fusse,
naturia perderea:
ella mi vederea: - fòra pietosa.
Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure,
che nella rozza trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze,
sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d'amore, come:
Fino amor di fin cor vien di valenza,
e scende in alto core somigliante,
e fa di due voleri una voglienza,
la qual è forte più che lo diamante,
legandoli con amorosa lenza,
che non si rompe, nè scioglie l'amante.
Su questa via giunge sino alla più goffa espressione
di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia:
Lo viso, e son diviso dallo viso,
e per avviso credo ben visare,
però diviso viso dallo viso,
ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.
Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei
alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella
formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi
e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in
Guido delle Colonne. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di
una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni
versi nella canzone attribuita a re Manfredi:
E vero certamente credo dire,
che fra le donne voi siete sovrana,
e d'ogni grazia e di virtù compita,
per cui morir d'amor mi saria vita.
L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni
e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra
nell'ignoto autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze
della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto
il volgare. C'è una descrizione della primavera, non nuova di concetti,
ma piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il sentimento.
E continua così:
Ed io stando presso a una fiumana
in un verziere all'ombra di un bel pino,
d'acqua viva aveavi una fontana
intorneata di fior gelsomino.
Sentìa l'àire soave a tramontana:
udìa cantar gli augei in lor latino;
allor sentìo venir dal fino amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce che appare al mattino.
E descrive così la sua donna:
Guardai le sue fattezze dilicate,
che nella fronte par la stella Diana,
tant' è d'oltremirabile biltate,
e nell'aspetto sì dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana:
la bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca più che rosa,
la parlatura sua soave e piana.
Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
che stanno in sì salutevole loco,
quando li volge, son sì dilettosi,
che il cor mi strugge come cera foco.
Quando spande li sguardi gaudiosi
par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.
Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della
natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma,
che con poche correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e fresca.
E se il sonetto dello «sparviere» è della Nina, se è lavoro di quel
tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza
a cui era venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza
e d'immaginazione:
Tapina me che amava uno sparviero,
amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo ben m'era maniero,
ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero,
assai più altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un'altra donna l'averà in balìa.
Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito;
sonaglio d'oro ti facea portare,
perchè nell'uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito,
quando eri fermo nel tuo uccellare.
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura
siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di
sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che quasi ogni memoria se
ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture,
oscurate da grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle classi
inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere
non è la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione
e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella
lingua penetra questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e
musicale, come d'uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo:
qualità spiccata de' dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile
signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli
Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e
la libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia
meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò
in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti
italiani. De' siciliani non rimase che questa epigrafe:
Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.
II - I TOSCANI
Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore
e lusso d'immaginazione, e attirava a sè i più chiari ingegni d'Italia,
ne' comuni dell'Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro,
si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze,
intorno a' quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza,
Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.
Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non vi trovi la vivacità
e la tenerezza meridionale; ma uno stile sano e semplice, lontano da
ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la
proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.
Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara, fiorentino, sullo stesso
tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e
più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco
tutto è su uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in
una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne' più tersi
e puliti siciliani. Comincia così:
AMANTE
O gemma leziosa,
adorna villanella,
che sei più virtudiosa
che non se ne favella;
per la virtude ch'hai,
per grazia del Signore,
aiutami, chè sai,
ch'io son tuo servo, Amore.
DONNA
Assai son gemme in terra
ed in fiume ed in mare,
ch'anno virtude in guerra,
e fanno altrui allegrare:
amico, io non son dessa
di quelle tre nessuna:
altrove va per essa,
e cerca altra persona.
Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti annunzia
un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia
ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia
per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana
dal plebeo «allo letto ne gimo» di Ciullo:
DONNA
Tanto m'hai predicata,
e sì saputo dire,
ch'io mi sono accordata:
dimmi: che t' è in piacere?
AMANTE
Madonna, a me non piace
castella, nè monete:
fatemi far la pace
con l'amor che sapete.
Questo addimando a vui,
e facciovi finita.
Donna, siete di lui,
ed egli è la mia vita.
Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua
parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di
grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni
brani di un altro dialogo di Ciacco:
Mentr'io mi cavalcava,
audivi una donzella;
forte si lamentava,
e diceva: - Oi madre bella,
lungo tempo è passato
che deggio aver marito,
e tu non lo m'hai dato.
La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...
- Figlia mia benedetta,
se l'amor ti confonde
de la dolce saetta,
ben te ne puoi sofferere...
- Per parole mi teni,
tuttor così dicendo;
questo patto non fina,
ed io tutta ardo e incendo;.
La voglia mi domanda
cosa che non suole,
una luce più chiara che il sole;
per ella vo languendo.
In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non
astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta
è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare e dire, come
fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perchè non ne ha coscienza,
tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che
ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire
il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli
che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne' meridionali,
dov'è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare fiorentino.
Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella
fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:
Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
accresce gioia a tutt'i fini amanti:
vanno insieme alli giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti.
La franca gente tutta s'innamora
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ed ogni damigella in gioi' dimora,
e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.
Chè lo mio padre m'ha messa in errore,
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vuole a mia forza signore.
Ed io di ciò non ho disio, nè voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l'ore:
però non mi rallegra fior, nè foglia.
Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo
di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza,
ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma:
Quando l'aria rischiara e rinserena,
il mondo torna in grande dilettanza,
e l'acqua surge chiara dalla vena,
e l'erba vien fiorita per sembianza,
e gli augelletti riprendon lor lena,
e fanno dolci versi in loro usanza,
ciascun amante gran gioi' ne mena
per lo soave tempo che s'avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
come altro amante non posso gioire,
chè la mia donna m' è tanto orgogliosa.
E non mi vale amar, nè ben servire:
però l'altrui allegrezza m'è noiosa,
e dogliomi ch'io veggio rinverdire.
In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero
e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello
si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità
ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto
è cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior
coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già elegante,
già la frase surroga i vocaboli propri: a me piace più la perfetta semplicità
del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale.
La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano
nel volgare, come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi
ancora dove è più difficile a serbarle, quando per una impazienza interna
si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell'animo, con
tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la
sicurezza di chi sente che non ha torto, ma ragione: è una violenza
raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane
ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:
In pena vivo qui sola soletta
giovin rinchiusa dalla madre mia,
la qual mi guarda con gran gelosia.
Ma io le giuro, alla croce di Dio,
s'ella mi terrà più sola serrata,
ch'i' dirò: - Fa' con Dio, vecchia arrabbiata. -
E gitterò la rocca, il fuso e l'ago,
amor, fuggendo a te, di cui m'appago.
Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così
castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando
non perchè il suo contenuto voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto,
vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto, o di questo e quel
poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di
un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza
del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più, dove il poeta non
è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare
i fatti e i moti dell'animo, come gli si affacciano in situazioni ben
determinate, e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e
forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto
a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate.
Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita
formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com'è stato
presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre
la lingua si formava, il contenuto era già formato e meccanizzato e
convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario,
lo stesso ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perchè
quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un contenuto attivo
e reale, vivente della vita comune.
Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi.
In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico, non
formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti
precisi e costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un vocabolario
comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come
più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali,
che nessuno si attentava di alterare, così ci era allora Madonna e Messere.
Madonna, l'«amanza» o la cosa amata, era un ideale di tutta perfezione,
non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata con un sentimento
che teneva di adorazione e di culto. Messere era l'amante, il «meo sere»,
che avea qualche valore solo amando. Uomo senz'amore è uomo senza valore.
Amare è indizio di cor gentile. Chi ama è cavaliere, ubbidiente alle
leggi dell'onore, difensore della giustizia, protettore de' deboli,
umile servo o servente d'amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna
piaccia, e amato sta allegro, ma «senza vanitate», senza menar vanto,
e spregia le ricchezze, perchè chi è amato è ricco. Amore è «di due
voleri una voglienza», ed è senza «fallimento» o «villania», senza peccato,
e sta contento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioia dell'amante
è contemplare Madonna, e senza Madonna «non vi vorria gire». Il codice
d'amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti «fini» e «cortesi».
Il codice della cavalleria descrive le leggi dell'onore, i doveri di
cavaliere «leale» e «franco». Come si vede, amore era tutta la vita
ne' suoi vari aspetti, era Dio, patria e legge; la donna era la divinità
di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età, troverà
questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza:
l'universo è la Donna. E tale fu negl'inizi della società moderna in
Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia fu
fatta a quella immagine. Troiani e romani erano concepiti come cavalieri
erranti, e così arabi, saraceni, turchi, lo soldano e Saladino. Paris
e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra,
Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternità universale si trovano
gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso in istrana mescolanza
col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato
sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di
uscire nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee morali sono
motti e proverbi. La letteratura di questa età infantile sono romanzi
e novelle e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo
significato, cioè rime con suoni, canti e balli, onde la canzone e la
ballata.
La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro
corteggio di giullari, trovatori, novellatori e bei favellatori doveano
aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella,
e s'era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi
Casa sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali
e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà. Rimasero nella
memoria, non come regola della vita, ma come un puro gioco d'immaginazione.
Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietà
e valore pratico: era un passatempo dello spirito, non tutta la vita,
ma un incidente, una distrazione. Ora quando un contenuto non penetra
nelle intime latebre della società e rimane nel campo dell'immaginazione,
diviene subito frivolo e convenzionale, come la moda, e perde ogni sincerità
e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un
contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata
e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni.
Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o
di sentimento; nessuna varietà di contenuto; una così noiosa uniformità,
che mal sai distinguere un poeta dall'altro.
Questo contenuto non può aver vita, se non si move, trasformato e lavorato
dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che avea condotta
già a tanta perfezione la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto
e dargli moto e spirito.
L'Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita:
l'Europa andava già ad imparare nella dotta Bologna. Teologia, filosofia,
giurisprudenza, scienze naturali, studi classici aveano già con vario
indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto
cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con
Virgilio ed Ovidio, che leggevan san Tommaso e Aristotile, nutriti di
Pandette e di dritto canonico, ed aperti a tutte le maraviglie
dell'astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d'amore doveano
parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e così
sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer
troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della
rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria
che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto che portava l'Europa a Gerusalemme,
la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co' più vivi colori
questo grande movimento di curiosità scientifica, il cui principal centro
era in Italia.
E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima ispirazione
venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio, e fu il padre
della nostra letteratura, fu il bolognese Guido Guinicelli, il nobile,
il massimo, dice Dante, il padre
mio e degli altri miei miglior, che mai
rime d'amor usàr dolci e leggiadre.
Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di
Bologna. Il volgare era già formato, e si chiamava «lingua materna»:
l'uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto
l'entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle più alte speculazioni,
e commossa da' miracoli dell'astronomia e dalle scienze naturali. È
il mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche impressioni
nella sua canzone sulla natura dell'amore. In generale, le poesie de'
trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri, senza
sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de'
trovatori, espresso nel celebre verso:
Amore e cor gentil sono una cosa.
Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a
Guido, e si mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione, e
attinge le sue immagini non da' romanzi di cavalleria, ma dalla fisica,
dall'astronomia, da' più bei fenomeni della natura, con la compiacenza,
con la voluttà e l'abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte.
I paragoni si accavallano, s'incalzano, ti par di essere in un mondo
incantato, e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:
Al cor gentil ripara sempre amore,
siccome augello in selva alla verdura;
nè fe, amore anti che gentil core
nè gentil core anti che amor, Natura.
Che adesso com' fu il Sole
sì tosto fue lo splendor lucente
nè fu davanti al Sole.
E prende Amore in gentilezza loco
così propiamente,
come il calore in chiarità di foco.
Foco d'Amore in gentil cor s'apprende
come virtute in pietra preziosa;
chè dalla stella valor non discende,
anzi che il Sol la faccia gentil cosa...
Amor per tal ragion sta in cor gentile,
per qual lo foco in cima del doppiero...
Amore in gentil cor prende rivera
com' diamante dal ferro in la miniera.
èere lo Sol lo fango tutto il giorno:
vile riman: nè il Sol perde calore.
Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: -
lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.
Chè non dee dare uom fè
che gentilezza sia fuor di coraggio
in dignità di re,
se da virtute non ha gentil core:
com'acqua ei porta raggio
e il ciel ritien la stella e lo splendore.
C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo
stento, come di un pensiero in travaglio, e n'escono vivi guizzi di
luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di luoghi comuni
e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato
internamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtà; ma è già un fatto
scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con
la serietà e la profondità di chi si addentra ne' problemi della scienza,
e illuminato da una immaginazione, eccitata non dall'ardore del sentimento,
ma dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non
riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla l'amore e la
bellezza con uno sguardo filosofico; quello che gli si affaccia non
è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con
quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata
dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue
idee; l'amore platonico non era altro che amore d'intuizione e di contemplazione,
una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti
contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione,
e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa trovare i più ricchi colori,
sì ch'ella par fuori pomposamente abbigliata. L'artista è un filosofo,
non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale,
così fecondo presso i popoli dove nacque, così sterile presso noi dove
fu importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non ci
è ancora il poeta, ma ci è l'artista. Il pensiero si move, l'immaginazione
lavora. La scienza genera l'arte.
La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare, impedì la libertà
e spontaneità del sentimento popolare, e creò un mondo artificiale e
superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl'inizi della nostra
letteratura, così interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario
comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento
di amore, ma da contemplazione scientifica dell'amore e della bellezza,
che se non riscalda il core, sveglia l'immaginazione. Questo dunque
si ricordi bene, che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo
germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita
nazionale, e rimaso frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla
scienza, che l'allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del
sentimento popolare, e creò una nuova poetica, che non fu senza grande
influenza sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva non in mezzo al
popolo, ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura
e Platone.
La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene
sottigliezza, e l'immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere
sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito
dal dardo di amore, e dice che quel dardo
per gli occhi passa, come fa lo trono,
che fèr per la finestra della torre
e ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua d'ottono,
ove spirto, nè vita non ricorre,
se non che la figura d 'uomo rende.
Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo
da Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non
è linguaggio d'innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo
amore e sul suo stato.
Immensa fu l'impressione che produsse questa poesia di Guido se vogliamo
giudicarla da quella che n'ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che
lo chiamò padre suo, che la magnifica terza strofa scelse a materia
della sua canzone sulla nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica,
che nota la celebrità a cui venne l'uno e l'altro Guido e aggiunge:
e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà di nido.
Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama presso
un pubblico avido di scienza e pieno d'immaginazione, di cui Guido era
il ritratto; un pubblico uscito dalle scuole, per il quale poesia era
sapienza e filosofia, verità adorna, e che non pregiava i versi, se
non come velame della dottrina:
Mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de li versi strani.
Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una
scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.
Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone, Todi
il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.
Dante mette Guittone tra quelli che «sogliono sempre ne' vocaboli e
nelle locuzioni somigliare la plebe». Alla qual sentenza contraddicono
alcuni sonetti attribuiti a lui, e che per l'andamento e la maniera
sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni
e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giusta la sentenza
di Dante. In Guittone è notabile questo, che nel poeta senti l'uomo:
quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica,
una elevatezza morale, una certa energia d'espressione. L'uomo ci è,
non l'innamorato, ma l'uomo morale e credente, e dalla sincerità della
coscienza gli viene quella forza. E c'è anche l'uomo colto, una mente
esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono non
rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi,
che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò
a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de' poeti;
ma nella sua vecchia età si vide oscurato da' nuovi astri, onde dice
il Petrarca:
Guitton d'Arezzo,
che di non esser primo par ch'ira aggia.
Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande
ira di Dante, che esclama: «Cessino i seguaci dell'ignoranza, che estollono
Guittone d'Arezzo».
Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi, senza quelle
grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d'immaginazione ornano i ragionamenti
di Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista: gli manca quella
interna misura e melodia, che condusse poeti inferiori a lui di coltura
e d'ingegno a polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.
Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone, come quelle
che segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie
di un santo, animato dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori,
o di codici d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non
cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con
quello stesso piacere con che i santi vestivano vesti di povero. Una
cosa vuole, dare sfogo ad un'anima traboccante di affetto, esaltata
dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non ha
niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea
in breve esser dimenticato dal colto pubblico, sì che le sue poesie
ci furono conservate come un libro di divozione, anzi che come lavoro
letterario. E nondimeno c'è in Iacopone una vena di schietta e popolare
e spontanea ispirazione, che non trovi ne' poeti colti finora discorsi.
Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza
e l'efficacia, che desta tanto incendio nell'anima religiosa di Iacopone,
avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma più popolare
e sincera.
Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con assai
più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. È il
sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si rivela
nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e portato
sino al misticismo ed all'estasi. In comunione di spirito con Dio, la
Vergine, i santi e gli angeli, parla loro con tutta dimestichezza, e
li dipinge con perfetta libertà d'immaginazione, co' particolari più
pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall'amore.
Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiarità e l'insistenza
di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla:
Di', Maria dolce, con quanto disio
miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio.
Quando tu il partoristi senza pena,
la prima cosa, credo, che facesti,
sì l'adorasti, o di grazia piena,
poi sopra il fien nel presepio il ponesti;
con pochi e pover' panni l'involgesti,
maravigliando e godendo, cred'io.
O quanto gaudio avevi e quanto bene,
quando tu lo tenevi fra le braccia!
Dillo, Maria, chè forse si conviene
che un poco per pietà mi satisfaccia.
Baciavi tu allora nella faccia,
se ben credo, e dicevi: - O figliuol mio! -
Quando «figliuol», quando «padre» e «signore»,
quando «Dio», e quando «Gesù» lo chiamavi;
o quanto dolce amor sentivi al core,
quando in grembo il tenevi ed allattavi!
Quanti dolci atti e d'amore soavi
vedevi, essendo col tuo figliuol pio!
Quando un poco talora il dì dormiva,
e tu destar volendo il paradiso,
pian piano andavi che non ti sentiva,
e la tua bocca ponevi al suo viso,
e poi dicevi con materno riso:
- Non dormir più che ti sarebbe rio. -
Sotto l'impressione del sentimento religioso Iacopone
indovina tutte le gioie e le dolcezze dell'amor materno. Iacopone non
concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo,
ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena
di famiglia, colta dal vero, con una franchezza di colorito e con una
grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d'amore,
fantasie, estasi, visioni, tutto trovi in Iacopone al naturale e come
gli viene di dentro; ciò che ci è più semplice e commovente, e ciò che
ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo; ed
ora è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e plebea. Ha
una facilità che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dà luogo
alla lima. Ma ne' suoi impeti gli escono forme di dire così fresche
e felici, che non disdegnarono d'imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno
terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:
Andiam tutti a vedere
Iesù quando dormia.
La terra, l'aria e il cielo
fiorir, rider facia:
tanta dolcezza e grazia
dalla sua faccia uscia.
La faccia di Gesù bambino, il Natale, la Vergine, il
volo dell'anima al paradiso, gli angioli sono visioni piene di grazia
e di efficacia. Nascendo Gesù:
le gerarchie superne
eran dal ciel discese:
lucean come lucerne
d'ardente foco accese
le loro ale distese.
Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno,
Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà, Astinenza: è qualche cosa
di simile alle tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco
in che modo Iacopone descrive l'Umiltà:
E questa era gioconda
onesta e mansueta,
e con la treccia bionda
e a cantar la più lieta;
d'ogni virtù repleta,
a me il capo chinava:
tanto m'assecurava
ch'io presi a favellare.
Quella stessa immaginazione, che dipinge con tanta
grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice
nel giudizio universale:
Chi è questo gran Sire,
rege di grande altura?
Sotterra i' vorrei gire,
tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
dalla sua faccia dura?
Terra, fa' copritura,
ch'io nol veggia adirato.
... ... ... .
Non trovo loco dove mi nasconda,
monte, nè piano, nè grotta o foresta:
chè la veduta di Dio mi circonda,
e in ogni loco paura mi desta...
Tutti li monti saranno abbassati,
e l'aire stretto e i venti conturbati,
e il mare muggirà da tutt'i lati.
Con l'acque lor stara fermi adunati
i fiumi ad aspettare.
Allor udrai dal ciel tromba sonare,
e tutti i morti vedrai suscitare,
avanti al tribunal di Cristo andare,
e il foco ardente per l'aria volare
con gran velocitate.
Iacopone non è un'apparizione isolata; ma si collega
a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso.
Là trovi il Salve regina, e l'Ave maria stella, e il Dies
irae, e drammi e vite di santi scritte da uomini eloquenti e appassionati.
Anche in volgare comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa
c'è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia,
la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de' santi, i
lamenti e le preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso,
i terrori dell'inferno, erano il tema comune de' predicatori e rappresentazioni
nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di «misteri», «feste»,
«moralità». È rimasta memoria di una visione dell'inferno, con la quale
Gregorio settimo quando era predicatore atterriva l'immaginazione de'
suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori
che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella
festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce
l'angiolo, che fa l'annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'angiolo,
che allora apriva la rappresentazione, annunziando l'argomento. È nota
la grande rappresentazione dell'altro mondo in Firenze, che, rottosi
il ponte di legno sull'Arno, costò la vita a molte persone.
Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di pittura e di
scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia, congiungendo
in sè il fantastico e l'affetto, il divino e l'umano, e nelle sue gradazioni
dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito.
La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso
popolare, che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa,
il cui proprio teatro è l'altra vita, a cui questa è preparazione, l'uomo
mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le
sue opinioni, i suoi amori. Maria era l'anello che giungeva la terra
al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità, e le ricorda che
la è stata pur donna. Iacopone dice:
Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
le mie lacrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
e tu nol puoi negare.
Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a
lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni.
Maria, Gesù, i santi, gli angioli, Lucifero non bastano: l'immaginazione
popolare personifica le virtù, e ne fa un corteggio di figure allegoriche
alla divinità, rappresentandole con ogni libertà, come fa Iacopone,
e come si vede ne' bassirilievi e in tante opere di scultura e di pittura.
E come il paganesimo ne' suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente,
anche le figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso letterale
e volte a significato generale, come Giove, Plutone, Amore, Apollo,
le Muse, Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la
storia religiosa assorbiva in sè tutt'i tempi e tutte le storie. In
questa mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e
ancor rozza, non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo
oscuro, il sentimento di un di là della vita, di un infinito non rappresentabile,
superiore alla forma, che riempie lo spazio di grandi ombre; e quelle
mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio
e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in
luogo di armonizzare producono un'impressione irresistibile di contrasto,
di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto
di armonia è il grottesco: e però il gotico e il grottesco sono le prime
forme artistiche di quel mondo, com'è nella sua prima ingenuità, non
ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime del gotico si sente nel
Giudizio universale di Iacopone. Dove la veduta di Dio ti circonda,
senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile all'immaginazione.
Il peccatore vede sonar le trombe, turbati i venti, l'aria immobile,
e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l'aria;
dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda,
non gli dà forma: non è un'immagine, è un sentimento senza forma, che
riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto
di due versi stupendi, che sono veri decasillabi sotto apparenza di
endecasillabo, pieni di movimento e di armonia:
chè la veduta di Dio mi circonda
e in ogni loco paura mi desta.
È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi
ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è il grottesco,
una mescolanza delle cose più disparate, senza nessun senso di convenienza
e di armonia: il che, se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza
ingenuità, è grottesco. Trovi il plebeo, l'indecente, il disgustoso
misto coi più gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo
con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Iacopone non è già
un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così
discorde e mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio del
cantico 48:
O Signor, per cortesia,
mandami la malsania;
a me la febbre guartana,
la continua e la terzana:
a me venga mal di dente,
mal di capo e mal di ventre,
mal de occhi e doglia di fianco
la postema al lato manco.
La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella
de' trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme,
non penetrata di alcuna realtà. In Iacopone è realtà ancora naturale,
non ancora spiritualizzata dall'arte; è materia greggia, tutta discorde,
che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.
Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione
spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza;
e anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o
filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio,
che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica
forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:
Ancella donnea,
se donna follea.
In terra di lite
non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
sì vuol vivere in pace.
Chi parla rado
tenuto è a grado.
Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da
Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita,
illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora
egregio di concetto e di forma. Sulla vanità della vita dice:
Lo fior la mane è nato,
la sera il vei seccato.
Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la
elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale
ti pare una Venere intonacata e lisciata:
Fresca è la rosa di mattino: e a sera
ella ha perduta sua bellezza altera.
I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per
esempio e per immagini, come fa l'immaginazione popolare, e nella loro
brevità e succo è il principale attrattivo.
Ove temi pericolo,
non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
la pietra preziosa,
e da uom senza grazia
parola graziosa;
dal folle sapienzia,
e dalla spina rosa.
Prende esempio da bestia
chi ha mente ingegnosa.
Vediamo bella immagine
fatta con vili deta;
vasello bello ed utile
tratto da sozza creta;
pigliam da laidi vermini
la preziosa seta,
vetro da laida cenere,
e da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
che lor nega natura:...
e non pregar la scimia
di bella portatura,
nè il bue, nè l'asino
di dolce parladura...
Quel che non si conviene,
ti guarda di non fare:
nè messa ad uomo laico,
nè al prete saltare;
non dece spada a femmina,
nè ad uom lo filare...
Non piace se 'n suo loco
non ponesi la cosa:
innanzi che ti calzi,
guarda da qual piè è l'uosa.
Se leggi, non far punto
dove non è la posa;
dov'è piana la lettera,
non fare oscura glosa.
In ogni cosa al prossimo
ti mostra mansueto:...
Da nimistate guàrdati,
se vuoi viver quieto...
A quel modo conformati
che trovi nel paese:
al Genovese, in Genova,
ed in Siena, alsSanese...
Uomo che spesso volgesi,
da tuo consiglio caccia.
Se vedi volpe correre,
non dimandar la traccia:
non ti sforzare a prendere
più che non puoi con braccia:
chè nulla porta a casa
chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
non ti dimostrar forte:
il muro tu non rompere,
se aperte son le porte...
Con signore non prendere,
se tu puoi, quistione;
ch'ei ti ruba ed ingiuria
per piccola cagione,
e tutti gli altri gridano:
- Messere ha la ragione... -
Uomo senz'amicizia
castello è senza mura...
Quella è buona amicizia,
che d'ogni termpo dura:
povertà non la parte,
nè nulla ria ventura.
Quel che tu dici in camera
non dire in ogni loco:
a piaga metti unguento,
non vi mettere il foco...
E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame
che il caso, qual più, qual meno felice, in quella forma sentenziosa
ed esemplata, che è propria dell'immaginazione popolare, prima ancora
che nasca la favola e il racconto. E trovi certo più gusto in queste
prime rozze formazioni così piene della vita e del sentire comune, che
ne' sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e
scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.
Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla
Madonna e a' santi, con l'immaginazione piena di leggende e avventure
cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica
ancora più vivace e concentrata, che non è oggi, allargata com'è e diffusa
in quegl'immensi spazi che si chiamano «regni». Certo, i costumi si
polivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi,
se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare
le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa
vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perchè
potesse esser vista con la serenità e la misura dell'arte. Si manifesta
con la forma grossolana dell'ingiuria, appena talora rallegrata da qualche
lampo di spirito. Un esempio è il verso:
Quando l'asino raglia, un guelfo nasce.
Questa forma primitiva dell'odio politico, amara anche
nel motteggio e nell'epigramma, e così sventuratamente feconda tra noi
anche ne' tempi più civili, non esce mai dalle quattro mura del comune,
con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza
ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo
antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la
sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell'acuto
ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna
Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel
suo parlare sotto figura per allusioni, che non ne comprendiamo un'acca?
Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra
un castello incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive
e si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui
l'Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna
partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi
e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale,
al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto va a finire
là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si
passava in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto di Orlandino
Orafo, eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d'Angiò
andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino
non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage
che ne verrà:
Ed avverrà tra lor fera battaglia,
e fia sanfaglia - tal, che molta gente
sarà dolente - chi che ne abbia gioia.
E molti buon destrier coverti a maglia,
in quella taglia - saran per niente;
qual fia perdente - allor convien che muoia.
A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa
impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti. Lo diresti uno
spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni de' combattenti,
che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.
Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari aspetti, religioso,
morale, politico, spicca più, perchè in evidente contrasto con la precoce
coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo.
La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano
a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e non
si discuteva. A quel modo che troiani, romani, franchi e saraceni, santi
e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone,
Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza. Il maggiore studio era
sapere, e chi sapeva più era più ammirato; nessuno domandava quanta
concordia e profondità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima
fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto
furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse
saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di che nessuno
oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo
libro in quei versi celebri:
sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo
ancora.
La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia,
com'è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in Rustico. Il
suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, così crudamente come
gli è venuto dalla scuola, e senza farlo passare a traverso del suo
pensiero. Ciò che dice gli pare così importante, e pareva così importante
a' suoi contemporanei, ch'egli non chiede altro, e nessuno chiedeva
altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.
Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i
loro studi nell'Università di Bologna, dalla quale uscì pure Cino da
Pistoia. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore
si scioglie dalle tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia
e di filosofia. Si discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul
suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza
che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale
e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello
sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza
il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza. L'esistente
non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell'essere; Cino
da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo «forma del bene»; il corpo è
un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale
e intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono
e fanno una sola dottrina. L'allegoria, ch'era già prima la forma naturale
di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico
e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso di
cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso
letterale biblico. Ma il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche
era già tanto vigoroso che poteva anco bastare a se stesso ed avere
la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria,
ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt'i
procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano tra' più dotti
e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna.
La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose
il generale e l'astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica
e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando,
ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.
Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo, fu dottissimo
giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice
fu la maraviglia di quell'età. Ristoratore del diritto romano, aperse
nuove vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di
lui desse luce alla civil giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece
poeta, ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i
suoi sentimenti, come poeta, egli li sottopone ad analisi, come critico,
e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo dell'astrazione,
ogni limite del reale si perde, e quella stessa sottigliezza che legava
insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni
fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica
poetica, o, per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell'amore,
piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire gli spiritelli
d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone
vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto de' meglio condotti
e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta
la salute: mèta sì alta, che avanza ogni sforzo d'intelletto, e però
non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la strana
esagerazione del concetto, ma per il modo dell'esposizione scolastico
e dottrinale.
Questa donna che andar mi fa pensoso,
porta nel viso la virtù d'Amore:
la qual fa disvegliare altrui nel core
lo spirito gentil che vi è nascoso.
Ella m'ha fatto tanto pauroso,
poscia ch'io vidi quel dolce signore
negli occhi suoi con tutto 'l suo valore,
che io le vo presso e riguardar non l'oso.
E s'avvien poi che quei begli occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
ove lo mio intelletto non può gire.
Allor si strugge sì la mia vertute,
che l'anima, che move li sospiri,
s'acconcia per voler del cor fuggire.
Una così strana esagerazione non può essere scusata
che dall'impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n'è vestigio;
ed hai invece una specie di tèma astratto, che si fa sviluppare nelle
scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore
di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito
gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule
ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di
Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone.
Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni,
le illusioni e i dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo
di scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù. Ancora
più astratta e arida è la canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti,
dottissimo di filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo
da' contemporanei.
Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima
formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch'essa
materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.
Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina,
è già nell'ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze,
l'una centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte. Nell'una
prevaleva il latino, la lingua de' dotti; nell'altra prevaleva il volgare,
la lingua dell'arte.
L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la
poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de' trovatori: il
pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica
ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei
e popolari finisce per sempre.
Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta, egli è lume di
scienza; si chiama Brunetto Latini, l'enciclopedico, Cino, il primo
giureconsulto dell'età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante,
il primo dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per bandire
la verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito
e della natura. La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della
verità o della filosofia, uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel
Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una
intenzione scientifica. Ma ci è pure una intenzione artistica, di ornare
e di abbellire. L'artista comparisce accanto allo scienziato. Questo
doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.
È in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa coscienza dell'arte.
Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con
una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte
d'Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti
e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere
tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale,
se a Bologna significava scienza, a Firenze significava «arte».
Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino.
Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre,
e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo
gentile e affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca l'evidenza
e l'efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la melodia e l'eleganza,
con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo,
Francesco Petrarca.
Ecco un esempio della sua maniera:
Poichè saziar non posso gli occhi miei
di guardare a Madonna il suo bel viso,
mireròl tanto fiso
ch'io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
stando su in altura divien beato sol vedendo Iddio;
così, essendo umana creatura,
guardando la figura
di questa donna, che tiene il cor mio,
potrei beato divenir qui io.
Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della
sua donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò
anche la fine, che è piena di grazia:
Or se prendete a noia
lo mio amor, occhi d'amor rubegli,
foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
fa', canzon, che tu dica:
- Poi che veder voi stessi non possete,
vedete in altri almen quel che voi sète. -
E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di
filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità
il suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno apparisce dotto, e più
si rivela artista.
La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori
della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi
musicali della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò
sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da
cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza Ma qualità più serie e
più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion
tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia,
pose ogni studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gramatica e
un'arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studi
rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente e
artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare
su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio
spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido divenne il capo
della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:
Così ha tolto l'uno all'altro Guido
la gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui
lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza
era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice
il Boccaccio, «la filosofia, siccome ella è, da molto più che la poesia».
Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce
nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo,
non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono
la sua canzone dell'Amore, come si fa un trattato filosofico,
e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso:
anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido
era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore,
ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare
il primo posto fra' contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e
l'artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perchè
la divulgò, non perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice
più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica
della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte.
La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e
uno sfogo dell'animo. Fu là, ch'egli senza volerlo e saperlo si rivelò
artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi
sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch'egli stesso e i
suoi contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perchè è il primo
che abbia il senso e l'affetto del reale. Le vuote generalità de' trovatori,
divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa
viva, perchè, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni
e i sentimenti dell'anima. La poesia, che prima pensava e descriveva,
ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti,
ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata
da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente
caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore. Là è
una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore
colta dal vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati,
non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro
sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita
e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora lieta e serena
che si esprime con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle forosette
e della pastorella, ora penetrata di una malinconia che si effonde con
dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto,
come nella ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno,
il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica
è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio,
con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione. Il poeta non
pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze
della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in
un certo stato dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di
espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I
posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:
Io mi son un, che quando
Amor mi spire, noto, e a quel modo
ch'ei detta dentro, vo significando.
Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti
al di qua del «dolce stil nuovo», perchè esagerarono i sentimenti, andarono
al di là della natura, per «gradire», piacere a' lettori.
E qual più a gradire oltre si mette,
non vede più dall'uno all'altro stilo.
Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli,
il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro
che una coscienza più chiara dell'arte. La filosofia per sè sola fu
stimata insufficiente, e si richiese la forma. Guittone d'Arezzo non
fu più apprezzato, quantunque «di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso»,
come dice Lorenzo de' Medici, perchè gli mancava lo stile, «alquanto
ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso». Anche
Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi
sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il
senso della forma.
A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel
suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Maiano
era un'eco de' trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto,
Orbiciani da Lucca erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi Onesto
e Semprebene. Ma già il culto della forma, l'amore del bello stile si
sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido
Novello, Lapo Gianni, Cecco d'Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge
la figura di Guido Cavalcanti.
Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante
Alighieri, legati insieme da un'amicizia che non si ruppe se non per
morte. Parvero le «nuove rime», e fu tale l'impressione ch'ei salì subito
accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere
le profondità della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava.
Perciò ebbe molta voga la sua canzone:
Donne, che avete intelletto d'amore;
e ancora più l'altra:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di
Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti
alla intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare
uomo che «da sè virtù fatta ha lontana», dice:
Ma perocchè il mio dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto
più lieve, perchè men grave s'intenda;
chè rado sotto benda
parola oscura giugne allo 'ntelletto;
par che parlar con voi si vuole aperto.
E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi
concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua
dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:
Voi che intendendo il terzo ciel movete;
e parendogli che senza quel comento la canzone presa
in se stessa rimanga fuori dell'intelligenza volgare, finisce così:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragion intendan bene,
tanto lor parli faticosa e forte:
onde se per ventura egli addiviene
che tu dinanzi da persone vadi,
che non ti paian d'essa bene accorte;
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
- Ponete mente almen com'io son bella. -
C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i
veri della scienza ora nella forma diretta del ragionamento, ora sotto
il velo dell'allegoria, ma in modo che la poesia quando anche non fosse
compresa da' più, avesse un valore in se stessa, fosse bella e dilettasse.
Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una
coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto della verità
scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo Amore non sostanza,
ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare, come fosse persona.
E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare, hanno
gli stessi privilegi de' poeti, nome che dà a' latini, i quali, come
Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate:
il che egli chiama «rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico»,
qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero «dinudare
le loro parole da cotal vesta». Onde si vede che Dante e Cavalcanti,
ch'egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori
stolti che usavano rettorica vuota di contenuto, e quelli che ti davano
un contenuto scientifico nudo, senza rettorica. Qui è tutta la nuova
scuola poetica, rimasa per molti secoli l'ultima parola della critica
italiana: ciò che il Tasso chiamò «condire il vero in molli versi».
Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni
e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti.
Di tal natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltà:
Le dolci rime d'amor ch'i' solìa
e l'altra:
Amor, tu vedi ben che questa donna,
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta
gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni
dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente, più che rappresentati,
com'è l'inverno nella canzone:
Io son venuto al punto della rota,
e come è l'amore nella canzone:
Amor che muovi tua virtù dal cielo,
e come è la bellezza nella canzone:
Amor ci è nella mente mi ragiona.
Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile
e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza,
germane d'amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando.
Ciascuna par dolente e sbigottita
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca,
e cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale
secondo il lor parlar, furon dilette
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il
concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e
dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice
colorito, ma è la sostanza.
In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità
e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi. Egli fu il suo
proprio comentatore, avendo nella Vita nuova e nel Convito
spiegata l'occasione, il concetto, la forma delle sue poesie. E quanto
alla parte tecnica, all'uso della lingua, del verso e della rima, nel
suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt'i più
riposti artifici. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto
esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più
leggiadra veste rettorica.
Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s'era ita finora elaborando,
con maggior varietà e con più chiara coscienza. Il dio di questo mondo
è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della
giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore
non può operare che ne' cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati
fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da
virtù. E però le virtù sono suore d'Amore e fanno star lucente il suo
dardo finchè sono onorate in terra. Ma la virtù è in pochi, e l'amore
è perciò «di pochi vivanda». L'obbietto dell'amore è la bellezza, non
il «bello di fuori», le parti nude, ma il «dolce pomo», concesso solo
a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi la intende:
amore è chiamato dagli antichi «intendanza», e Dante non dice «sentire
amore», ma «avere intelletto d'amore». Ad appagare l'amore basta il
vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.
E chi la vede e non se n'innamora
d'amor non averà mai intelletto.
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dio move l'universo pensando:
costei pensò chi mosse l'universo.
Nè altro è amore nell'uomo che «nova intelligenza che
lo tira su», lo avvicina alla prima intelligenza. La donna esemplare
della bellezza è «nobile intelletto»:
... O nobile intelletto
oggi fu l'anno che nel ciel partisti.
La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella
faccia della scienza, che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza
lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia
nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza il dolce pomo consentito
a pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s'intende; perciò
filosofia è «uso amoroso di sapienza», scienza divenuta azione mediante
l'amore. La virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati
della scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e la donna è saggia
prima di esser bella:
Beltade appare in saggia donna pui
che piace agli occhi...
La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza, sì che piaccia
e innamori di sè.
Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso,
secondo il quale il corpo è il velo dello spirito, e la bellezza è la
luce della verità, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione
degli angioli e dei santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano
anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si danno la mano.
È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità
e con così perfetta coscienza. È l'idealismo di quel tempo, con la sua
forma naturale, l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione, che
dà alle figure tanta vivacità di colorito ed hai l'ultimo segno di perfezione
che si poteva allora desiderare.
III - LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi
più in là, ti risponde come Raffaello: «Noto, quando Amor mi spira»,
ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo
cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua
ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione.
Chi legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la sua sincerità.
Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di
cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti
e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra
come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente
ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle
adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo
tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per
la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice,
ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e
verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile
a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che produca
effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore.
Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo
di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un
sospiro. Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità,
esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste
e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del
cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca
certo, ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri
sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo
del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro
è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sè l'amante, ma reale
tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione.
Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello
incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso
in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa
capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo
è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e
le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce
a l'ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua
mente, e le sue impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono
quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come
lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna.
Tale è il sonetto
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità
di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:
Io mi son pergoletta bella e nova,
e son venuta per mostrarmi a vui
dalle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora,
d'amor non averà mai intelletto...
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute:
le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico;
o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma
profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato,
conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione
giovanile.
Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza
di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento
di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa
di questa lirica. Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari
intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice,
il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono
la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finchè Beatrice
vive, è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile
arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose
e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia
di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento
della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello.
Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore
appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza,
che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore
si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e convenzionale,
che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto,
nè allegoria, ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della
donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta
e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda
la parte più eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti
più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice,
ita nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale il
poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza.
Non hai più la Vita nuova, hai il Convito. L'amore non
è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina
e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo,
il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a
dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia!
e vuol dire amico di virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e
gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e
non dagli altri. Intendere è per lui il principio del fare; e la forza
che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore.
In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza l'altro.
Or tutto questo in Dante non è mera speculazione, nè vanità scientifica;
ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace,
come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo, e si
addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità
di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni
una elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che
si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta
di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:
L'esilio che m'è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria,
quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale
non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del
sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto
ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:
... elli son quasi dèi
que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
chè solo Iddio all'anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza
e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini,
«bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non è amore, e non
dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:
Chè la beltà ch'Amore in voi consente
a virtù solamente
formata fu dal suo decreto antico
contra lo qual fallate.
Io dico a voi che siete innamorate,
che se beltate a voi
fu data e virtù a noi,
ed a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di beltà v'è dato
poichè non è virtù, ch'era suo segno.
Lasso! A che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna di ragion lodato
partir da sè beltà per suo comiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto
dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto
è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo, l'unità della vita. E
poichè vede bellezza, e non trova virtù, sente nella vita una scissura,
una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d'immaginazione
così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un
atto di «bel disdegno», per il quale dica: - Poichè nell'uomo non è
virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato
ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui
è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui
il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio;
la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione
tra quel concetto e la realtà: «Lasso! a che dicer vegno?». Il poeta
sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel
modo.
Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella
sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento
chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere
e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme
il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione
contro l'uomo «caduto in servo di signore», già signore di sè, ora servo
delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione
non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni: l'anima del
poeta è ancora giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno
nobilita e fortifica; e però il dolore del disaccordo non lo conduce
alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un
più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli
solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica.
Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il
fondo è vero, è la sincera espressione di quello che si passa nell'animo
del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente.
La vita è la filosofia, la verità realizzata; e la poesia è la voce
e la faccia della verità. Amico della filosofia, con orgoglio non minore
si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come
investito di una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla
dal tripode alla moltitudine, con l'autorità e la sicurezza di chi possiede
la verità.
Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non
rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e
contingente appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a
quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi.
Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve
apparizione, che ritorna al cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli
angioli che le cantano «Osanna», ma rimasa in terra, come luce
della verità, della quale l'amante si fa apostolo, è tutto il romanzo
religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua verità
nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza,
velo della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di prova,
la poesia è al di là della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia
a vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto, così dottrinale
nella forma, se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura,
se trova nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature,
il suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola. Perchè
la parola è analisi, distinzione, precisione, e non può rappresentare
che un contenuto ben determinato, e ne' suoi momenti successivi, più
che nella sua unità. Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi,
come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso,
al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione dell'arte.
Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza,
come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella
vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee essere non
astratto pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in questo
«dee essere». Perchè, prendendo a fondamento non quello che è, ma quello
che dee essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione,
se non in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un
contenuto così in se stesso astruso e scientifico.
I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la
rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva
rendere poetica la filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo
era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione.
Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione,
e neppur Dante, ancorchè dotato di una immaginazione così potente. Anzi
egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e
del colorire, perchè quelli vi pongono il massimo studio, non essendo
il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a
Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che ha la sua
importanza in se stesso: ond'egli è sobrio, severo, schivo del «gradire»,
e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti, come mezzo
rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile
ed evidente il suo concetto.
Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che quel
mondo è vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non
pure sulla sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta
in quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La fede è la
base, il sottinteso, la condizione preliminare e necessaria della poesia,
ma non è la poesia. Il poeta dee essere un credente, ma non ogni credente
è poeta; può essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu
il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede svegliò
le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da natura.
Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta, la fantasia,
che non si vuol confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore.
L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie: il
suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria
e nella personificazione. La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva
e spontanea, è la vera musa, il «deus in nobis», che possiede
il secreto della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue più fuggevoli
apparizioni, e te ne dà l'impressione e il sentimento. L'immaginazione
è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: «pulcra species, sed
cerebrum non habet»: l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia.
La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non
come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione è analisi,
e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il
sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi:
mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e
i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione
è l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia
è il «fantasma», figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo
spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia
e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica,
ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, così mistico e
spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In balìa
di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella
apparenza, ma freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli,
di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo mondo è la fantasia,
e la sua forma è il fantasma. Il suo primo e solo poeta è Dante, perchè
Dante ha l'istrumento atto a generarlo, è la prima fantasia del mondo
moderno.
Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando
essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio
la sua canzone all'Amore:
Amor che movi tua virtù dal cielo
come 'l sol lo splendore,
chè là s'apprende più lo suo valore,
dove più nobiltà suo raggio trova...
Ed hammi in foco acceso,
come acqua per chiarezza foco accende...
È sua beltà del tuo valor conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sopra degno suggetto,
in guisa che al sol raggio di foco;
lo qual non dà a lui, nè to' virtute;
ma fallo in alto loco
nell'effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il concetto esso medesimo,
ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui
se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno
e affoga il concetto nell'immagine. Dante è più severo, perchè il concetto
non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a
quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura. Ma egli penetra
in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima.
Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una
immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine.
In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non
è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene
persona. La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi
alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di
ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa
dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi
che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo
dell'arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia.
Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico,
che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo.
In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente
e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto
per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite.
Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perchè esso
è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire.
La sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già
scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare
e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge.
Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione,
visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non
quello che ella è, ma quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi
alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine,
ma il suo «parere», l'impressione:
Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a mente:
sì è novo miracolo e gentile.
... .....
Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace. -
E par che dalla sua labbia si mova
... .....
uno spirto soave e pien d'amore,
che va dicendo all'anima: - Sospira. -
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di
un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non
fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è come
Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo
tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta
non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto
delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
che qual l'avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
... . ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non
descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun
atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta
scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede
lei morire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian
di un velo. Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
... Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch' è sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l'äre,
e la terra tremare:
e uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch'era sì bella.
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