«Alzato il viso, guatava d'ogni intorno, e diligentemente
ogni cosa contemplando, s'avvide essere il cielo tutto bello, il sole
temperato, il monte netto da nuvoli, e appresso s'accorse che l'austro
nel soffiare era dolcissimo, e cominciò attentamente a considerare in
qual segno fosse il sole e in qual grado, che cosa stesse nel mezzo
del cielo, e qual segno stessegli in dritta linea opposto. Nè potendo
in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano
rivolto, disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura potrebbono far
piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare.»
Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive
le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
«Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero
bellissimi palagi, tremò tutta la riviera dell'Adige, parve che il cielo
cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.»
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita
e animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi fa difetto,
nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.
Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di coltura
o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali
e di frizzi e di motti e di modi comici, un istrumento già formato e
recato a perfezione dal Boccaccio al Berni. Materia ordinaria del Lasca
è la semplicità degli uomini «tondi e grossi», fatta giuoco de' tristi
e degli scrocconi. È la novella ne' termini che l'aveva lasciata il
Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri, rigirati e beffati
da scrocconi che si prevalgono della loro credulità. Il Boccaccio mette
in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno alle superstizioni
religiose che alle credenze popolari nell'«orco, tregenda e versiera»,
negli spiriti e ne' diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti;
allora c'erano i maghi o gli astrologi, con la stessa pretensione di
conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi, e conoscere i fatti altrui,
e farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di
ridicolo, non altrimenti che i miracoli de' frati. Se il Boccaccio mette
in gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa
del mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora qua
e colà in Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio,
del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, nè i piagnoni poterono risuscitarlo.
Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boccaccio, non ha
ironia ed è grossolano nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio
e di vena, evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle
e pronte, senza che si dia la pena di cercarle. Ecco la magnifica pittura
dell'astrologo Zoroastro:
«... era uomo di trentasei in quarant'anni, di grande
e di ben fatta persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera
guardatura, con barba nera, arruffata e lunga infino al petto, ghiribizzoso
molto e fantastico; aveva dato opera all'alchimia, era ito dietro e
andava tuttavia alla baia degl'incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere,
pentacoli, campane, bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba,
terra, metalli, pietre e legni; aveva ancora carta non nata, occhi di
lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo, ossa
di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato
uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti
a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole
e chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all'astrologia,
alla fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto
nelle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto
ciò non aveva mai potuto vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine
della natura, benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse
e di farle credere s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre,
nè madre, e assai benestante sendo, gli conveniva stare il più del tempo
solo in casa, non trovando per la paura nè serva, nè famiglio che volesse
star seco, e di questo infra sè maravigliosamente godea; e praticando
poco, andando a casa con la barba avviluppata senza mai pettinarsi,
sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per un gran filosofo
e negromante.»
È un periodo interminabile, tirato giù felicemente,
dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una ricchezza
di accessorii, espressi con una proprietà di vocaboli, che si può trovar
solo in un fiorentino. «Struggersi d'amore» è un sentimento serio che
il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto:
«la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio, e si
consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua, e ... vi
verrà dietro, più che i pecorini al pane insalato». Parlando del banchetto
che tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia,
il Pilucca e il Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: «E
fecero uno scotto da prelati, con quel vino che smagliava». Se il Lasca
dee molto al dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette accanto
al Berni, una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dà scolpite
in rilievo. Tale è il viaggio per aria del Monaco, come Zoroastro dà
a credere al dabben Simone:
«[Zoroastro] si stese in terra boccone, e disse
non so che parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli, s'arreco
da un canto del cerchio inginocchioni, e guardando fisso nel vaso,...
disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il resto, e vassene con l'insalata
verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io l'ho
fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che egli
e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la
piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella:
testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è già
presso a meno di cinquanta braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla
finestra! Or ora sarà nel cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio,
e con l'insalata e con le radici in mano.» Il nostro speziale, chè colui
che chiamavano «il Lasca» nell'accademia degli Umidi era appunto lo
speziale Anton Maria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti,
perchè li vede chiarissimi nell'immaginazione, e non si ha a travagliare
intorno alla forma, e non v'usa alcuno artificio, scrive parlando. Nè
è meno evidente e parlante nel dialogo. Simone, passata la paura e uscitogli
tutto l'amore di corpo, non vuol più dare all'astrologo i venticinque
fiorini promessigli. E dice allo Scheggia:
«- Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ...
tutto l'amor di corpo, e della vedova non mi curo più niente... Oh che
vecchia paura ebb'io per un tratto! e' mi si arricciano i capelli quando
vi ci penso, sicchè pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro. - Lo Scheggia,
udite le di colui parole, diventò piccino piccino..., e parendogli rimanere
scornato, disse: - Oimè, Gian Simone, che è quello che voi mi dite?
Guardate che il negromante non si crucci. Che diavol di pensiero e il
vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente,
come Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri tenendosi
uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa e
da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone, egli non
è da correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio,
voi avrete fatto poi una bella faccenda. - Colui era già per la paura
diventato nel viso un panno lavato, e rispondendo allo Scheggia, disse:
- Per lo sangue di tutt'i diavoli che fo giuro d'assassino, che domattina,
la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso,
e poi farmi bello e sodare, non so chi mi tiene che non vada ora. -
Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso di
sei colori, e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere in camicia,
facciamo che il diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto,
dolcemente prese a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate
bene nell'infinito, e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio
vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Ora non sapete
che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli uomini, e non sopra i demòni?
Egli ha mille modi di farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male,
che non si saperrebbe mai.»
Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato,
spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande
scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà dell'arte, e abborraccia
e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla superficie,
naturale e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato,
massime nell'ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne' confini della semplice
caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia
colta, piena di spirito e d'immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla,
ha la sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i
capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte, buffoneria
ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura, maniera sviluppatasi
gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel dialetto e rimasta
forma toscana. Nelle altre parti d'Italia la buffoneria è senza grazia,
spesso caricata troppo, e lontana da quel brio tutto spontaneità e naturalezza,
che senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più sgraziati è il Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico. Il novelliere, in luogo di guardare
nella vita reale e studiarvi i caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca
combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità. Per questa
via dal nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale
e all'assurdo. Così una borghesia scettica, che ride de' miracoli, che
si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di
misteri e di leggende, come forme barbare, sente poi a bocca aperta
racconti di fate, di maghi, di animali parlanti, che tengano desta la
sua curiosità. Il Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne,
di Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche. E con la stessa serietà
Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate invenzioni
di quel tempo, saccheggiando tutt'i novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto
il napolitano Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino.
Ivi trovi il fantastico spinto all'ultimo limite dell'assurdo. Vedi
un anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e
bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini salvatici
o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni in conversazione,
e fate e negromanti e astrologi. Queste ch'egli chiama «favole», si
accompagnano con altri racconti osceni o faceti, o com'egli dice, «ridicolosi»,
e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o com'egli
dice, «materiale». Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza,
un «fabula docet», ma in fondo l'autore mira a render piacevoli
le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità. Non mostra
alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa imitazione
del Boccaccio chiama egli medesimo «basso» e «dimesso» il suo stile,
e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di raccontarle.
Non hai qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un
narrare alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma
più latina che toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e anche
francesi, come «follare» (fouler) per calpestare. Non si ferma
sul descrivere o particolareggiare, non bada a' colori salta le gradazioni,
va diritto e spedito, cercando l'effetto nelle cose, più che nel modo
di dirle. E le cose, non importa se di lui o di altri, contengono spesso
concetti molto originali, come Nerino, lo studente portoghese, che fa
le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch'egli non sa essere
il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero della sua
Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al leone;
o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori fiorentini;
o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va
in cerca della morte; o le nozze del diavolo. Il successo fu grande:
si fecero in poco tempo del libro più di venti edizioni; e di molte
favole è rimasta anche oggi memoria. L'osceno, il ridicolo, il fantastico
era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta, imperfetta, ma senza
frasche e spedita soprattutto nel vivo del racconto, dovea rendere il
libro di più facile lettura alla moltitudine che non gli Ecatommiti
del Giraldi e le novelle dell'Erizzo e del Bargagli, di una forma artificiata
e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la Filenia del Franco
fu tenuta pari al Decamerone, e dimenticata subito. Manca allo
Straparola il calore della produzione, e ti riesce prosaico e materiale
anche nel più vivo di una situazione comica, o nel maggiore allettamento
dell'oscenità, o ne' movimenti più curiosi del fantastico, come di uomini
uccisi e rifatti vivi. Narra il miracolo con quella indifferenza, che
i casi quotidiani della vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per
la lunga consuetudine frigido e ottuso, che non ha più passioni, ma
vizi. Chi vuol vederlo, paragoni le sue «Nozze del diavolo» col Belfegor
del Machiavelli, argomento simile, e il suo studente vendicativo col
famoso studente del Boccaccio. E vedrà che a lui manca non meno il talento
comico che la virtù informativa. Ma che importa? Non mira che a stuzzicare
la sensualità e la curiosità, e chi si contenta gode. E per meglio avere
l'uno e l'altro intento, aggiunge al racconto un enigma o indovinello
in verso, osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona a
prima udita. Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la noia fanno o
sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era il cibo de' cervelli
oziosi, non meno che l'enigma, o i tanti poemi cavallereschi. L'arte
era divenuta mestiere; e pur di sentire fatti nuovi e strani, non si
cercava altro. Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia scettica
e sensuale era vana impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo,
e senti il maraviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria: ora manca
l'ingenuità e la semplicità, e l'arte non può riprodurre il fantastico
che con un ghigno ironico, volgendolo in gioco. Perciò la sola novella
fantastica che si possa chiamare lavoro d'arte è il Belfegor,
il diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il
diavolo borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia, che è
la leggenda messa in taverna?
Se una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi
una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con
la stessa intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta.
E sono quello che potevano essere, fior di rettorica. D'immaginazione
ce n'era molta, ma di sentimento non ce n'era favilla. Cosa di eroico
o di affettuoso o di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle
accademie, ciascuno sel pensi. Chi desideri esempli di questa rettorica,
vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi
di Adelasia e Aleramo, o nell'Erizzo i lamenti di re Alfonso sulla tomba
di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue,
a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce
e al più volgare. La figliuola di re Tancredi nel Boccaccio è una nobile
creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del Bandello o l'Orbecche
del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono
e non ti agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti
elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche
dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua Lavinella, situazione
comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non e il fantastico e non
il tragico, ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale,
che non va al di là della caricatura e talora è più nella qualità del
fatto che ne' colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più
gentile, soprattutto nell'Erizzo e nel Bandello, come è la novella di
costui della reina Anna; ma in generale, come nelle corti anche più
civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano,
la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno stile nobile
e maestoso, puro artificio meccanico. È un comico che a forza di ripetizione
si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col Berni
e la novella col Lasca.
È il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capitolo è di
cercare i suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte dello spirito
che nella rappresentazione viva della realtà. È lo stesso difetto del
petrarchismo: il Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchisti
sono i suoi imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni
escono in freddure e sottigliezze. Il difetto della novella è la sensualità
prosaica e la vana curiosità: senza ideali e senza colori, e in una
forma spesso pedantesca e sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un
difetto comune, la superficialità, quel lambire appena la esteriorità
dell'esistenza e non cercare più addentro, come se il mondo fosse una
serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non ci fosse natura.
Essendo tutto un giuoco d'immaginazione, a cui rimane estraneo il cuore
e la mente, la forma comica nella quale si dissolve è la caricatura
degradata sino alla pura buffoneria. Lo spirito volge in giuoco anche
quel giuoco d'immaginazione, intorno a cui si travagliarono con tanta
serietà il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano, il Pulci,
il Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico dell'arte
italiana, e traduce l'ironia ariostesca in aperta buffoneria, avvolgendo
in una clamorosa risata tutti gl'idoli dell'immaginazione, antichi e
nuovi. La nuova arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica
e morale del medio evo e rimasta nel vuoto, innamorata di solo se stessa,
come Narciso, va a morire per mano di un frate sfratato, di Teofilo
Folengo: muore ridendo di tutto e di se stessa. La Maccaronea
del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell'arte italiana.
Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie di contenuto è
messa in giuoco, e l'arte cacciata anche dal regno dell'immaginazione
si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si va elaborando dall'intelletto
italiano, e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo interiore,
ricrea una fede non più religiosa, ma scientifica, cercando la base
non in un mondo sopra naturale e sopra umano, ma al di dentro stesso
dell'uomo e della natura. Pomponazzi, negando l'esistenza degli universali,
rigettando i miracoli, proclamando mortale l'anima, e spezzando ogni
legame tra il cielo e la terra, pose obbiettivo della scienza l'uomo
e la natura. Platonici e aristotelici per diverse vie proclamavano l'autonomia
della scienza, la sua indipendenza dalla teologia e dal dogma. La Chiesa
lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena
e a tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la corte di
Leone, ma non potea veder senza inquietudine questo risvegliarsi dell'intelligenza
nelle scuole. Il materialismo pratico, l'indifferenza religiosa era
spettacolo vecchio; ma la spaventava quel materialismo alzato a dottrina,
e l'indifferenza divenuta aperta negazione, con quella ipocrita distinzione
di cose vere secondo la fede e false secondo la scienza. Il concilio
lateranense testimonia la sua inquietudine. Leone decimo proclama eresia
quella distinzione, proibisce l'insegnamento di Aristotile, e sottopone
i libri alla censura ecclesiastica. A che pro? Il materialismo era il
motto del secolo. Leone decimo stesso era un materialista, come fu Lorenzo
con tutto il suo platonismo. Nè altro erano il Pulci, il Berni, il Lasca
e gli altri letterati, ancorachè si guardassero di dirlo. Alcuni manifestavano
con franchezza la loro opinione, come Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare
Scaligero, Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron Speroni, e quel professore
Cremonino da Cento che fe' porre sulla sua tomba: «Hic iacet Cremoninus
totus». Quando gli studenti avevano innanzi un professore nuovo,
e lo vedevano nicchiare, gli dicevano subito: - Cosa pensate dell'anima?
Quando il materialismo apparve, la società era già materializzata. Il
materialismo non fu il principio, fu il risultato. Fino a quel punto
il dogma era stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto.
Era un sottinteso che la ragione non poteva contraddire alla fede, e
quando contraddizione appariva, si cercava il compromesso, la conciliazione.
Così poterono lungamente vivere insieme Cristo e Platone, Dio e Giove:
tutta la coltura era unificata nell'arte e nel pensiero, e non si cercava
con quanta logica e coesione e con quanta buona fede. In nome della
coltura si paganizzavano le forme cattoliche anche da' più pii, come
ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e il Vida; si paganizzò
anche san Pietro, e paganizzava anche Leone decimo. Tutto questo era
arte, era civiltà, e non solo non era impedito, anzi promosso e incoraggiato;
farvi contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto. E
si tollerava pure Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale,
le cui maggiori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In quella corruzione così vasta, soprattutto nel clero, era il caso
di dire: «petimusque damusque vicissim»; e tutti ridevano, e
primi i beffati. Di cose di religione non si parlava, e quando era il
caso, le si faceva di berretto, se ne osservavano le forme e il linguaggio
per l'antica abitudine, senza darvi alcuna importanza. Sotto il manto
dell'indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto immenso non rimaneva
altro in piedi che la coltura come coltura e l'arte come arte. Ed era
appunto la negazione che appariva nell'arte sotto forma comica, e formava
il suo contenuto. Che cosa era quell'arte? Era il ritratto dello spirito
italiano. Era la contemplazione di una forma perfetta nella indifferenza
o negazione del contenuto. La società vagheggiava nell'arte se stessa.
Ma era una società spensierata e accademica, che non si era ancora guardata
al di dentro, non si avea fatto il suo esame di coscienza. E quando
per la prima volta gitta l'occhio entro di sè e domanda: - Che sono
dunque? Onde vengo? Ove vado? - La risposta non poteva essere altra
che questa: - Sono corpo: vengo dalla terra e torno alla terra, l'«alma
parens», la gran madre antica. - Questa risposta dapprima fa rabbrividire:
sembra una scoperta, ed è un risultato. E invade le università e si
attira i fulmini del concilio. Zitto! Grida la borghesia gaudente e
spensierata, che non volea esser turbata nel suo alto sonno. E la cosa
rimase lì. «Intus ut libet, foris ut moris», diceva Cremonino.
Credete come volete, ma parlate come parlano. E le audacie del Valla
e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali. Ci era la cosa,
ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto, nella vita, nelle
lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica, all'uomo
e alla natura. Ma non si chiamava materialismo. Si chiamava coltura,
arte, erudizione, civiltà, bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni,
in altri corta intelligenza. Così si viveva tutti in buon accordo e
allegramente, e quando veniva la bile ci era lo sfogatoio: permesso
di dir male de' preti e anche del papa, e di abbandonarsi a tutt'i piaceri
corporali, andando a messa, facendosi il segno della croce e gridando
contro gli eretici, e specialmente contro i signori luterani che con
le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie.
Pigliare sul serio la teologia! Questo per i nostri letterati era un
tornare indietro di due secoli.
Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla
vista di così vasta corruttela italiana, proclamò la Riforma e regalò
al mondo una teologia purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un
eretico, alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savonarola.
E in verità la sua teologia era in una vera contraddizione con la civiltà
italiana, avendo per base la reintegrazione dello spirito e l'indifferenza
delle forme, cioè a dire negando quella sola divinità che era rimasta
viva nella coscienza italiana, il culto della forma e dell'arte. Una
riforma religiosa non era più possibile in un paese coltissimo, avvezzo
da lungo tempo a ridere di quella corruttela, che moveva indignazione
in Germania e che avea già cancellato nel suo pensiero il cielo dal
libro dell'esistenza. L'Italia avea già valica l'età teologica e non
credeva più che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come
de' nuovi scolastici. Perciò la Riforma non potè attecchire fra noi
e rimase estranea alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi
propri. Affrancata già dalla teologia, e abbracciando in un solo amplesso
tutte le religioni e tutta la coltura, l'Italia del Pico e del Pomponazzi,
assisa sulle rovine del medio evo, non potea chiedere la base del nuovo
edificio alla teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.
Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la società che
guarda in sè e s'interroga e si conosce; è la negazione più profonda
del medio evo, e insieme l'affermazione più chiara de' nuovi tempi;
è il materialismo dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente
in tutte le sue applicazioni alla vita.
Non bisogna dimenticare che la nuova civiltà italiana è una reazione
contro il misticismo e l'esagerato spiritualismo religioso, e, per usare
vocaboli propri, contro l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo:
ciò che dicevasi il medio evo. La reazione si presentò da una parte
come dissoluzione o negazione: di che venne l'elemento comico o negativo,
che dal Decamerone va sino alla Maccaronea. Ma insieme
ci era un lato positivo, ed era una tendenza a considerare l'uomo e
la natura in sè stessi, risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani
e soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal culto de'
classici e dal progresso dell'intelligenza e della coltura. Onde venne
quella tranquillità ideale della fisonomia, quello studio del reale
e del plastico, quella finitezza dei contorni, quel sentimento idillico
della natura e dell'uomo, che diè nuova vita alle arti dello spazio
e che senti ne' ritratti dell'Alberti, nelle Stanze, nel Furioso
e fino negli scherzi del Berni. Questo era il lato positivo del materialismo
italiano, un andar più dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando
a tutte le nebbie teologiche e scolastiche, che parvero astrazioni.
Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in quello che negava
e in quello che affermava è il Machiavelli.
Il concetto del Machiavelli è questo, che bisogna considerare le cose
nella loro verità «effettuale», cioè come son porte dall'esperienza
ed osservate dall'intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo
e la base dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti
rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della Riforma
e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna.
Questo concetto applicato all'uomo ti dà il Principe e i Discorsi,
e la Storia di Firenze e i Dialoghi sulla milizia. E il
Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te lo dà come evidente. Era
la parola del secolo ch'egli trovava e che tutti riconoscevano.
Così nasce la scienza dell'uomo, non quale può o dee essere, ma quale
è; dell'uomo non solo come individuo, ma come essere collettivo, classe,
popolo, società, umanità. L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza
dell'uomo, il «nosce te ipsum», questo primo motto della scienza
quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua indipendenza. Tutti
gli universali del medio evo scompariscono La «divina commedia» diviene
la «commedia umana» e si rappresenta in terra: si chiama storia, politica,
filosofia della storia, la scienza nuova. La scienza della natura si
sviluppa più tardi. Non si crede più al miracolo, ma si crede ancora
all'astrologia. Attendete ancora un poco, e il concetto del Machiavelli
applicato alla natura vi darà Galileo e l'illustre coorte dei naturalisti.
Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle dottrine. Non
fo una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle
lettere. Ed è mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano;
perchè quello solo è vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.
Da quel concetto esce non solo la scienza moderna, ma anche la prosa.
Come nella scienza ci aveva ancora molta parte l'immaginazione, la fede,
il sentimento; così nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici,
poetici, chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole, che dicevasi
forma letteraria, ed era già divenuta maniera, un vero meccanismo. Ma
il Machiavelli spezza questo involucro, e crea il modello ideale della
prosa, tutta cose e intelletto, sottratta possibilmente all'influsso
dell'immaginazione o del sentimento, di una struttura solida sotto un'apparente
sprezzatura.
E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita,
e perciò dell'arte. L'uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base
fuori di sè, nell'altra vita; le loro forze motrici sono personificate
sotto nome di universali ed hanno un'esistenza separata. Questo concetto
della vita genera la Divina Commedia. La macchina della storia
è fuori della storia ed è detta «la provvidenza». Questa macchina è
nel mondo boccaccesco il caso o la fortuna. Non ci è più la provvidenza,
e non ci è ancora la scienza. Il maraviglioso non è più detto miracolo,
anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo, nodo, accidente
straordinario. Le passioni, i caratteri, le idee non sono forze che
regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo fato, la volubile e capricciosa
fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la provvidenza,
e cerca nell'uomo stesso le forze e le leggi che lo conducono. Il suo
concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che ciascuno è a
se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna. Questo concetto dovea
profondamente trasformar l'arte.
La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni ingombro allegorico
e scolastico, ma insieme vuota di ogni contenuto, forma pura. Il suo
vero contenuto è negativo, cioè a dire è il ridere del suo contenuto,
considerarlo come un giuoco d'immaginazione, un esercizio dello spirito.
Questo doppio elemento dell'arte è detto dal Cecchi il «ridicolo» e
il «grupposo», intendendo per grupposo il nodo, l'intreccio, la varietà
e novità de' casi. Di questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo
ti dà il Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella,
il romanzo, la commedia sono il teatro naturale di questa poesia, la
Divina Commedia dell'arte nuova. Ma nel concetto del Machiavelli
la vita non è una farsa della provvidenza, e non è il giuoco capriccioso
della fortuna, ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali. Perciò
la base dell'arte non è l'avventura o l'intrigo, ma il «carattere»;
e se volete vedere quello che sarà, guardate quali sono gli attori e
quali le forze che mettono in giuoco. L'arte non può starsi contenta
alla semplice esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un accozzo
fortuito di casi straordinari, ma dee forare la superficie e cercare
al di dentro dell'uomo quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali.
Così l'arte non è un vano e ozioso gioco d'immaginazione, ma è rappresentazione
seria della vita nella sua realtà non solo esteriore, ma interiore.
E quest'arte, che cerca la sua base nella scienza dell'uomo, ti dà la
Mandragola e la Storia di Firenze, e più tardi la Storia
d'Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.
A questo modo si realizza questa grand'epoca, detta il «Risorgimento»,
che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto.
Da una parte, mancati tutti gl'ideali, religioso, politico, morale,
e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l'amore della coltura
e dell'arte, il contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene
una materia qualunque trattata a libito dall'immaginazione, che ne fa
la sua creatura e spesso anche il suo gioco, un gioco che ha la sua
idealità nell'ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzione nella caricatura
della Maccaronea. Mentre l'arte produce i suoi miracoli nella
piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo contenuto
si forma e penetra nella coscienza, uno studio dell'uomo e della natura
in sè stessi, che cerca la sua base nell'esperienza, e non nell'immaginazione
e non nelle vane cogitazioni. Questo senso profondo del reale ti crea
la scienza e la prosa, e ti segna nella Mandragola un nuovo indirizzo
dell'arte.
Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dobbiamo cercarne i segreti
ne' due grandi, che ne sono la sintesi, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
XIII - L' ORLANDO FURIOSO
Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo,
il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino,
i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo
scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove,
il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell'ottantadue, e nel novantaquattro
il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
Nel novantotto, proprio l'anno che il Machiavelli era eletto segretario
del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie.
L'uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in
Italia e in Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica
del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo;
l'altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie,
capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.
Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi;
finchè, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle
lettere, e tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto,
Terenzio, cominciò a far versi latini e italiani, come tutti facevano,
elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami,
carmi.
Nel '94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico
scrive un'ode oraziana a Filiroe, nome ch'egli appicca ad una contadinella.
Carlo minaccia
... ... asperi
furore militis tremendo,
turribus ausoniis ruinam.
E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla
sua Filiroe scrive:
Rursus quid hostis prospiciat sibi,
me nulla tangat cura, sub arbuto
iacentem aquae ad murmur cadentis...
Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita:
e che importa? sol che possa andar pe' campi, seguire Lida, Licori,
Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra mihi placeant potius montesque supini,
vividaque irriguis gramina semper aquis ...
Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones ...
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano
di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere
et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae,
imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato
di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,
... ... si furor, Alpibus
saevo flaminis irmpetu
... ... iam spretis, quatiat celticus ausones?
Che importa servire a re gallo o latino,
si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub
moribus?
Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando:
«Improba secli conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim
pressa quibus nostro colla fuere iugo,
svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in
Orazio e Catullo. L'anno appresso alla calata di Carlo ottavo l'Ariosto
recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De
laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti,
canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre
a diciannove anni, scrive un'elegia per la morte di Leonora d'Aragona,
moglie del duca di Ferrara. Nell'introduzione si scopre ancora lo studente
e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate il miserabil core
in altro stil che in amorose tempre:
che or giustamente da mostrar dolore
abbiamo causa, ed è sì grave il danno
che appena so s'esser potria maggiore.
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca;
in latino sono sensuali, all'oraziana. In latino tiene Megilla tra le
braccia, e non può credere a' suoi occhi, e dice:
An haec vera Megilla
cuius detineor sinu?
Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,
mi anceps anime: en sume cupita iam
mellita oscula, sume
expectata diu bona.
Ma in italiano Megilla è «l'alta beltade», che «col
suo beato lume illustra e imbianca l'occaso», e l'amante e «nel dir
lento e restio» e non descrive, perchè «chi descriver puote a pieno
il sole?».
Non è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o
Teocrito gli avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia:
perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino,
non pensò per allora al greco:
Che 'l saper nella lingua degli Achei
non mi reputo onor, s'io non intendo
prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e differendo
vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine ed io nol prendo.
Morì il padre, ch'egli aveva soli ventott'anni, e lo
lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare
Omero nel libro de' conti:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;
ch'io muti in squarci ed in vacchette Omero.
Nè potè avere più agio e modo d'intendere «nella propria
lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore,
e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive
donar sì dolci lingue e sì faconde»; perchè venuto in corte fu mandato
qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d'Este:
E di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo.
Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria,
una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina,
e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano
quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse
succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell'arte poetica
e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s'imitava quel meccanismo,
ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane,
padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che
trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo
di Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società in
mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una
creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni
e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che
viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme
allo spirito comico, quale s'era sviluppato a Firenze, e si sentiva
nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma l'Ariosto vive fuori
di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol
essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè, essendo quello un mondo
di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona,
e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne' viluppi, negl'intrighi,
negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico,
che spesso stanca l'attenzione. Ma l'intrigo non basta a sostenere l'interesse,
quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l'intrigo non si trasformi
in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono
esseri insignificanti, nè dall'intreccio esce alcuna scena fondamentale,
dove si raccolga l'interesse. Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi
a farle in versi sdruccioli, per rendere l'imitazione latina perfetta,
parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa
forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio
la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella
società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza
più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue
bugie cava quattrini da' gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato
allora da tutt'i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete
o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte
di scroccone e giuntatore era rappresentata dall'astrologo. Il nome
era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio
ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione
e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze, dove lo speziale
arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante
ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone,
rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la studia
su' libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda
facile de' birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale,
ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita
la malizia de' servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l'Ariosto
l'avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a
pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo
mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni
e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono
e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il protagonista,
non è proprio un astrologo, com'è nel Lasca, e come il prete è prete
nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l'astrologo senza
crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia
messa in burla: qui l'astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono
i mezzi d'azione. Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un
vero astrologo, che mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori,
il concetto sarebbe così spiritoso, com'è nell'astrologo del Lando,
di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l'asina del contadino.
Ma qui l'astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo
servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione
di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
e sa di queste e dell'altre scienzie
che sa l'asino e il bue di sonar gli organi.
Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra
maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono
i servi, dall'altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell'autore
un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo
le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del
padrone, ed è in ultimo colui che l'accocca a tutti. Cinzio l'assicura
gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dì, nè miracolo
è cotesto . .
Non vedete voi che subito
un divien potestade, commissario,
provveditore, gabelliere, giudice,
notaio, pagator degli stipendii,
che li costumi umani lascia, e prendeli
o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?
- Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza che hai
del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e' possa scongiurare
gli spiriti? - E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
nè meno crederei; ma li grandi uomini,
e principi e prelati, che vi credono,
fanno col loro esempio ch'io, vilissimo
fante, vi credo ancora.
Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano ignorante
che col suo naturale buon senso si prende spasso de' grandi uomini.
Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio,
a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete, ditemi,
qual mangerete?
ASTROLOGO
Vedraimi ir beccandole
ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla più grassa, e tutta divorarmela.
NIBBIO
Eccoven'una, e la miglior: mettetevi,
se avete fame, a piacer vostro a tavola.
ASTROLOGO
Chi è? Camillo?
NIBBIO
Si.
ASTROLOGO
Si ben; mangiarmelo
voglio, che l'ossa non credo ci restino.
E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell'astrologo,
egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio dell'asino,
e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale
e superficiale, e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti.
L'autore vi mostra un'attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere,
che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto
in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si trova
noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell'aspettazione.
Ludovico era di coltura al di sotto de' tanti dotti di quel tempo, ed
anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno
i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre
un utile dal nostro poeta, ne fece un «cavallaro», mandandolo qua e
là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone
decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo
papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole.
Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda
impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta
in quell'occasione:
A veder pien di tante ville i colli
par che 'l terren ve le germogli,
come vermène germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè
il cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari amici e spintolo
in quel «rincrescevole laberinto». Da ultimo il cardinale volea trarselo
appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara
che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta
bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io stando qui, farò con chiara tromba
il suo nome sonar forse tanto alto,
che tanto mai non si levò colomba.
E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente
in latino:
Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?
Mystica quis casto castius Hyppolito?
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo
e non poeta:
Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercè si pona:
di mercè degno è l'ir correndo in posta...
S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,
dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio:
più grato fòra essergli stato appresso.
Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere
de' più comici, e se, rappresentando un mondo convenzionale, è riuscito
nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso
alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama
i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo
il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene a casa
fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto
è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico,
non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; «gli sapeva meglio
una rapa» in casa sua che t«ordo o starna o porco selvaggio »all'altrui
mensa:
E così sotto una vil coltre,
come di seta o d 'oro ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che agli sciti
sien state, agl'indi, agli etiopi, e oltre.
Degli uomini son vari gli appetiti;
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare attorno, attorno vada;
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
l'Italia, e un mare e l'altro che la bagna.
Questo mi basta: il resto della terra,
senza mai pagar l'oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Ma non è lasciato vivere, e ha tra' piedi il cardinale,
e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara
volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:
Apollo, tua merce, tua mercè, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.
... ...
Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro
cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
renderli, e tôr la libertà mia prima.
... ...
Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, nè sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,
mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch'io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
non gli lasciate aver questa credenza:
ditegli che più tosto ch'esser servo,
torrò la povertade in pazienza.
Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d'animo
o cupido d'onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità
per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la catena
una buona volta, e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il
mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza
e de' don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale
è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell'amico Leone. Come lo
accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino
all'insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede:
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.
Indi, col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la
cupidità ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire:
- E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro
mitre, ne val poi la pena? -
Sia ver che d'oro m'empia la scarsella
e le maniche e il grembo, e se non basta,
m'empia la gola e il ventre e le budella;
in che util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? Meglio fora
starmi in riposo, o affaticarmi manco.
Ora ha aria di scusare il papa. - Poerino! Parenti,
cardinali che gli diedero «il più bel di tutt'i manti,» amici che lo
aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano, aspetto a trarme
la volontà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d 'acqua veder parme,
meglio è star nella solita quiete.
Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza
di motivi e di gradazioni, con una perfetta varietà di caratteri, e
con un'ironia tanto più pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria.
Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto
stizzoso de' suoi amministrati, e deplora il tempo sciupato intorno
ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda
a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietà,
i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione
delle anime fiacche, che significa: - Ma che ci è a fare? Pazienza!
- E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt'i suoi difetti,
come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa bello della sua poltroneria;
ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si
dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca
l'effetto e più l'ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po'
a sue spese, e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo
così artificiato, dove per soverchio studio d'imitazione o per conseguire
certi effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico,
che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in
un mondo convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto
Cellini, crea un carattere comico de' più interessanti, perchè non è
solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo
nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in
Lombardia, ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto
Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi
piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi
privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto che l'Italia
era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto,
spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre
brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo «fuge rumores».
Ci è in questo ritratto un po' di Orazio, ma l'imitazione è qui natura,
è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo,
perchè senti che l'uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo,
ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il
capitolo e non la satira, perchè quell'uomo non si propone di berteggiare
nè di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello
o l'amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie,
motti, proverbi, movimenti stizzosi d'immaginazione, tratti e pitture
satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori.
La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio
della Divina Commedia e de' Trionfi, in questa profonda
trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro
del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che
arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell'Ariosto,
dove la terzina è profondamente modificata, e prende forma pedestre,
aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e
tradizionale. L'ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti
e ne' canti popolari, era il linguaggio de' romanzi, delle narrazioni
e delle descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio
di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e
la canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l'Ariosto non
le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme
al tempo. L'ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava,
satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.
Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l'Orlando
furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato
in quelle «corbellerie» il tempo destinato al suo «servizio». Il Boiardo
interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava
le Alpi Carlo ottavo per andar «non so in che loco». Morì qualche anno
dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie,
rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell'Omero
ferrarese spronò l'Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò
in terza rima una storia epica de' fasti estensi, ma smise subito, disacconcio
il metro alla sua larga vena. E si risolse senz'altro di continuar la
storia di Orlando, ripigliandola là dove l'avea lasciata il Boiardo.
Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in
latino. L'Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l'Orlando
innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto, che di quella lettura facea
sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse
forme. Così cansò l'imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo
ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi
si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a
emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non
se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua
distrazione. Che cosa c'era dunque nella sua testa? C'era l'Orlando
furioso. Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.
E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale
o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro
sentimento dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è
ne' suoi fini il desiderio un po' di secondare il gusto del secolo,
e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po' di tessere la
storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este. Ma sono fini che rimangono
accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima
e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralità
e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica.
E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle sue creazioni
l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di lavoro
uscì l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità
riverita ancora in Italia, l'Arte.
Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti
l'uno e l'altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono
le sintesi, in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce
il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista:
all'artista nocquero la scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa
grandezza ed energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo
reale troppo vivo e appassionato e resistente, perchè l'arte potesse
dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme
così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non potè sempre penetrarvi
e attingerlo nel suo immediato.
Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà
e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non
ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l'artista, che si foggia il
mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede
e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio
l'arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme. Già
su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del
Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità
annunziata da Orfeo, tra' profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non
ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro,
e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente.
Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e
gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui
che un interesse molto mediocre. Buona pasta d'uomo, con istinti gentili
e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie
nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con
intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore.
Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un
accessorio, e la sua occupazione era l'arte. Andate a vedere quest'uomo
mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo, nella
sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare
la libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato
tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per
le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando
fantastica e compone. Il suo sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata,
si sente un iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo
in Italia: l'artista.
Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non
era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano.
E quando ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale
di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse
sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l'idillio, i due
mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo
cavalleresco c'era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e
per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali,
ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine vicina
di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile
e gentile e umano che fu detto «cortesia», e dove spesso si davano spettacoli
che richiamavano alla mente quelle forme e que' costumi. Ci era dunque
nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo
plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de' sentimenti;
un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice,
ma dall'essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: «in
fè di gentiluomo». Ci era il codice dell'onore e dell'amore, che comprendeva
gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell'amore,
la devozione al suo signore, l'osservanza della parola, la difesa de'
deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di
quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d'onore.
Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce
come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità
Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi
sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di
tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara,
di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell'apparenza
che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con
l'eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come
in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque
parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini
di onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l'onore
fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano
inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità
osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava
quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell'esclamazione
del poeta:
O gran bontà de' cavalieri antichi!
Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco,
che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni
sentimento religioso, morale e politico, l'onore rimaneva senza base,
e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più
brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano
del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo
religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo
d'immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità,
la varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato
era serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati
tutt'i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie
non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare
l'immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco
le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa
e curiosa l'attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo,
intramettendo, ripigliando co' passaggi più bruschi, e portando l'incoerenza
fino nell'esterna orditura del racconto.
Già cominciava a spuntare una scienza dell'uomo e della natura. L'invenzione
della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo
Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli,
la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la
Francia, l'Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia
del mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo
moderno, il mondo dell'uomo e della natura, o, per dirlo in una parola,
la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori, che non danno
via a' suoi raggi. E i vapori erano il mondo popolare dell'immaginazione,
che suppliva alla scienza, riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie
di soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo de' cristiani,
il prodigio de' pagani, gl'incanti de' maghi e delle fate, le imposture
degli astrologi. L'uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata
era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo,
ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato
all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e che
non si ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto superficie,
tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto
anch'esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata
e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di «carattere» e
di «autonomia».
Nondimeno l'Italia era il paese, dove l'uomo, come intelligenza, era
più adulto, più formato dall'educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale
sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica,
un gioco d'immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era
ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo
legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di
pura immaginazione.
Ludovico era tutt'altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico.
E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un
pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa
o una fata, pur di dipingerla bene. Molti chiedono: - Quale fu lo scopo
dell'Ariosto? - Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della
cavalleria. Omero canta l'ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante
canta la redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa di Agramante
o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante:
l'impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale
si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo
nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le
cortesie e le audaci imprese che furono «a quel tempo» che Agramante
venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non
episodi, appunto perchè non ci è un'azione unica e centrale, ma parti
importanti di quell'immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco.
L'unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio,
ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo
e nel tal tempo. Se l'impresa di Agramante fosse non il semplice materiale
dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria azione,
lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest'azione,
il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina
Commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi
episodi che invadono l'azione e la soperchiano! Bella quest'azione che
ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del
Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale
se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo
sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica,
e finita essa, continua senza di essa! Unità d'azione ed episodi sono
un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe
cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perchè l'essenza
di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza
di serietà, di ordine, e di persistenza in un'azione unica e principale,
sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono erranti.
Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo spirito
di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere
organizzare questo mondo co' precetti di Orazio e di Aristotile è un
volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità.
Come l'unità del mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito
o nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta rappresentazione è nello
spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell'iniziativa
individuale; e ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i
cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che
un par di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di
nuovo dietro a' fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta,
da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa
impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch'essa
una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi
è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo
e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori,
vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno
dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si
vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli.
Perchè al di sopra di quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno
e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e
sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l'attenzione, cansare in
tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l'imbroglio, ricondurti
innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati,
e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo
tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti.
Parigi è il principal nodo dell'ordito, è come un faro, che di tanto
in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi,
appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E
allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte
vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica,
e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in pieno mondo
cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono,
Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge
il terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l'incendio,
e Rinaldo guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà
i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono
anche erranti. Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l'elmo;
Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca
Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano
tra loro. Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di
Doralice, che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani.
Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani. Mandricardo
è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo;
e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani, Ruggiero tra' pagani. Un duello
tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe
i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da' nemici e da' venti,
e vede di lungi la sua patria arsa da' cristiani. Il poema cominciato
a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di
Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l'anima
o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione
degli appetiti, l'amore, o il punto d'onore, o il maraviglioso, che
tirasi appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze
soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza,
senza personalità; e forze sono e non persone Michele e il demonio e
la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale privo di ogni
aureola e prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi incantati,
e gli anelli fatati, e gl'ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il corno
di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda l'immaginazione
del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta
dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide
se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non
è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta,
come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo
soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva,
nelle varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino
al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore, e che
rappresenta la civiltà e il progresso nella comune barbarie.
I motivi spirituali di questo mondo, l'amore, l'onore e il maraviglioso
o lo spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell'ultimo punto
che confina col ridicolo: l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia
Rodomonte; il punto d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani
effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico
è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce
sino alla soglia dell'inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della
Luna. Il mondo cavalleresco ne' suoi motivi interni è spinto all'ultima
punta. Se l'elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare
quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica,
vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati
da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita
nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni
estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un
povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella
Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta,
e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo
e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da
Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del
castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il più perfetto
modello di cavaliere. Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano
fatti minori, che danno il finito e il contorno a questo mondo nelle
sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il lamento d'Isabella,
Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure
di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina
e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori
dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del suo
tempo, pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa
l'immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una
vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco,
rappresentare un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza.
Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all'assurdo;
ma una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene profondamente
umano e naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto
Orlando sino a perdere il senno, con che scala intelligente è rappresentato
il dolore di Olimpia, o la discordia de' pagani nel campo di Agramante.
Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli
più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte,
Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non s'intromette niente nella
sua storia, e più che attore, è spettatore che gode alla vista di quel
mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione.
Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco,
che è stata detta chiarezza omerica. L'arte italiana in questa semplicità
e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due
qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti»
e non «poeti». Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro
gioco d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione,
e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo
particolare, che non tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime
finitezze. Appunto perchè l'interesse è non nella cosa, ma nella sua
forma, la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata, e non
hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dà
il periodo, qui te lo dà l'ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata
a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo
sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il legame all'immaginazione:
l'Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e proporzionato che
pare una persona. E l'effetto è non solo in quella ossatura materiale
così solida e bene ordinata, ma in quell'onda musicale, in quella superficie
scorrevole e facile, che ti fa giungere all'anima insieme coi fatti
i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de' grandi pittori, quando
l'immaginazione italiana mirava a dare all'immagine tutta la sua finitezza,
l'Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l'oggetto finchè non
ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia
straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione,
o di pretensione; ci è l'oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente.
Il poeta fissa l'esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata
così o così per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette,
non la scruta, non l'interroga, non cerca al di dentro, non la palpa,
non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo
viene a turbare l'obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale.
Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi
la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena
chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la «divinità»
dell'Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua
vista rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e complicati movimenti
d'insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli,
paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge
le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più
nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata
e si vede l'intenzione dell'eleganza. Qui la superficie è così naturalmente
piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti.
Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra, che in dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla civettuola,
che prende questa o quell'attitudine per parer vezzosa. L'«incappellarsi»,
lo «sportello», quell'«ardere in dolce foco», sono immagini appiccatele
da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata,
ma come pare all'uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l'orna
e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata.
Vedi ora nell'Ariosto, la rosa,
che in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
nè gregge nè pastor se le avvicina;
l'aura soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
gioveni vaghi e donne innamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di
descrivere, ma di raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità
naturale, sì che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato.
L'«alba rugiadosa», il «ceppo verde», la «nativa spina», i «gioveni
vaghi», le «donne innamorate», i «seni e le tempie», il «gregge e il
pastore» sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive,
prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo.
E guarda alla movenza dell'ottava, con tanta semplicità che l'ultimo
verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è cascata
la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza, armonia,
colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la
forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la
loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate
con la stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e
incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè
ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato.
Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore
dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto,
condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne' suoi preconcetti
è limitato, e produce la «maniera», che ti pone innanzi non la cosa
vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò facilmente imitabili
sono i poeti subbiettivi, ne' quali prevale la maniera, come il Petrarca,
il Tasso, il Marino, e simili. Al contrario inimitabile è l'Ariosto
che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e calato nelle cose, e non
ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia,
un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si
presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che
riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità,
senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno
è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo
la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien
fuori l'eroico, il tragico, il comico, l'idillico, il licenzioso, come
qualità naturali delle cose, anzi che del suo spirito. Di che viene
l'evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà,
e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti. L'evidenza
è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi
tutti gli accessorii essenziali, anch'essi in azione, cioè come movimenti,
attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si
sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E perchè gli oggetti sono
còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e
appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l'uomo e la natura
nel loro stato d'immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture
e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati
brevemente, e l'azione colta nel momento più interessante e condotta
innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d'impaludare
o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio
o di tempo, così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in
acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci
sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all'effetto,
ora serio ora comico. L'effetto è quale te lo può dare un mondo di sola
immaginazione, al quale il poeta non prende altra partecipazione che
artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi
sentimenti. L'effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata
spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli
piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione.
Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente:
è un dolce ozio dell'immaginazione. È un flutto d'immagini così vive
e limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non
ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore,
tra colori e tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente
nell'orecchio. Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla con linguaggio
tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato.
L'impressione non è così profonda che oltrepassi l'immaginazione e colpisca
il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento.
La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta
nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette
leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei
che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati.
Eccone qualche esempio:
- Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi... -
ma dir non puote «ligi», e qui finìo...
Stese la mano in quella chioma d'oro,
e strascinollo a se' con violenza;
ma come gli occhi in quel bel volto mise,
gli ne venne pietade e non l'uccise.
Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni,
quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel
tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora «sentimento»,
quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità
della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell'Ariosto è
Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel
nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua
Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la
lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela
d'argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento.
La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo
straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china
sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:
rosa non còlta in sua stagion, sì ch'ella
impallidisca in su la siepe ombrosa.
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo
sguardo pieno di passione all'amata:
per queste bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui...
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal
sentimentale ti gitta nell'immagine:
e straccia a torto l'auree crespe chiome.
A quest'ufficio adempiono specialmente i paragoni,
che nel più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un
altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla
rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che
abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all'empia fera in bocca.
L'«impasto leone», l'«uscito di tenebre serpente»,
l'«orsa assalita nella petrosa tana», il «vase a bocca stretta e a lungo
collo, onde l'acqua esce a goccia a goccia», e simili spettacoli, non
nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e movenze
vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono
la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi
nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera
canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell'occhio vagante,
che cerca se stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde
nasce quel tono generale del sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico
che all'eroico e al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura
impressionabile e tenera del poeta, ma alla stessa tendenza dell'arte,
dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane tutta al di fuori e non
ti cerca l'anima, com'è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre.
Ci è l'immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar che per le
liete piagge v'avea l'aura dipinti...
Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,
murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni?
Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non
gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto
di una gemma
più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra! O dedalo architetto!
Non hai dunque il sentimento della natura, come non
hai il sentimento della patria, della famiglia, dell'umanità, e neppure
dell'amore, dell'onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale,
che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato
in bei versi, come:
il miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:
Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l'invisibil fa vedere Amore.
Che non può far di un cor che abbia suggetto
questo crudele e traditore Amore?...
Che lietamente in sul principio applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.
... ... Amor che sempre
d'ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale...
Io dico e dissi e dirò finch'io viva
che chi si trova in degno laccio preso
pur che altamente abbia locato il core
pianger non dee, se ben languisce e muore.
Chi mette il piè sull'amorosa pania,
cerchi ritrarlo e non v'inveschi l'ale:
chè non è in somma amor se non insania,
a giudizio de' savi universale.
Oh gran contrasto in giovenil pensiero
desir di lauda ed impeto d'amore!
Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,
chè resta or questo, or guel superiore.
Amor sempre rio non si ritrova:
se spesso nuoce, anche talvolta giova.
La lunga absenzia, il veder vari luoghi,
praticare altre femmine di fuore,
par che sovente disacerbi e sfogli
dell'amorose passïoni il core.
Amor dee far gentile un cor villano,
e non far d'un gentil contrario effetto.
Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali,
ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio
di sè. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in
una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali,
come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte,
o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed
elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati
sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia e di passione,
che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde
e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando,
che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un'agnella smarrita,
e ci fa intorno de' ricami.
In una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e
così ricca d'immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire
quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La
nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone
si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita
nella sua rapida vicenda è così palpabile e così limpida «Procul
este, profani.» Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del presente,
nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa
danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli
dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia, al secolo,
al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando
dalla lunga via ritorna, si circonda, come d'una corona, di poeti e
di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell'arte,
a cui egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso
nell'altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co'
suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo,
come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa
tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero:
«Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo così bene qua dentro,
uscirà così sulla tela?». E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento,
inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare,
sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto
nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della
storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare
in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel
secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le
qualità da ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed
emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l'anima
tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra
nella produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo
spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel
mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile.
Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea,
questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna,
tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo, e illuminato
sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito
dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico.
Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato
il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel
contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all'arte. E l'Ariosto
le dava questo mondo dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo
sopra la mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare
non ci sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le
mille voci della natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano
le tue voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso
medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è vita della tua vita,
è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione,
e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il sentimento
che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima, quando ti svegli
di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non
ci è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L'elemento dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto
il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio,
il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso
della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo
il lato comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria,
come fece il Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici,
e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa
indifferenza che s'incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il
suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile
per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo
Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni
qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un
sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore
della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli
non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne
fa il suo mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda.
Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione
se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone
e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti
gli elementi, e che atteggia e configura a suo genio. La materia, in
Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte,
e come cera, riceve tutte le impressioni. L'immaginazione le si accosta
sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi
si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è
scomparso nella creatura. L'obbiettività è perfetta. Ma guarda bene,
e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente
di colui che l'ha creata, e che in certi momenti pare si burli della
tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o
della sua creatura, e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti
un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della
rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un istante le
creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni
più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco
nel quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente scomparso
nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento
metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività
omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo
e negativo.
Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue
varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato,
rifatto dall'immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro
quel sentimento dell'arte, quel culto della forma e della bellezza,
quella obbiettività di una immaginazione giovane, ricca, analitica,
pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli
della pittura e dell'architettura, e che lì giunge alla sua perfezione,
congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima semplicità e naturalezza
di disegno. E c'è insieme quell'intimo senso dell'uomo e della natura,
o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando
ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell'uomo,
generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri;
tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel
mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella
che gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo.
Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e
formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere
l'uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: - Sono soldati
e castelli di carta. - La cultura è nel suo fiore, l'immaginazione è
nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più grandi miracoli
dell'arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e realista, incredulo,
ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento
dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà, ma
come arte, e, appunto perchè semplice gioco d'immaginazione o arte pura,
lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco,
è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto
del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa unità
superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell'uno
e ciò che è troppo grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con
gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore
fin dal principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o
stonature, e niente ti urta, perchè il poeta opera senza coscienza o
intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo
l'unità che comunica al suo mondo.
Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando
matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già
una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione.
Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito,
che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza
della natura umana nelle sue più fine gradazioni. È un «crescendo» di
particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così
straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle
risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza
comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come
Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le
tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro
mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza
questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione
che ciò che si perde in terra, si ritrova nell'altro mondo. Di qui il
viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro mondo, che è una vera parodia
del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno;
ma all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la
soverchia crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da
Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre,
e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed
Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada
il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
scusa non sono i due primi parenti
se per quei fur sì poco ubbidienti.
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e «tutt'i comodi».
È il paradiso terrestre materializzato. Di là, «uscito del letto», con
san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica,
senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in
terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che
la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee
popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che
«sta nel regno della luna». Là si trova in varie ampolle un liquore
sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
e di poeti ancor ve n'era molto.
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con
gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno,
egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:
e vi son tutte l'occorrenze nostre;
sol la pazzia non v'è poca, nè assai,
chè sta qua giù, nè se ne parte mai.
L'ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del
maggior re del Levante, l'amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante,
di Ferraù, che finisce moglie di un «povero fante». La scena comincia
nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria, giostre,
tornei, duelli, con Carlomagno circondato de' suoi paladini, tra il
fiore de' cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d'Inghilterra,
tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e va
a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel
Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie
di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una
concezione ironica.
Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica
del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico
della cavalleria è l'individualità, quella forza d'iniziativa che fa
di ogni cavaliere l'uomo libero, che trova il suo limite in se stesso,
cioè a dire nelle leggi dell'amore e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente.
Togli il limite, e l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia,
l'eroico divien comico. Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti
e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono collisioni
e attriti del più alto effetto comico. Il concetto è già adombrato con
brio nel ritratto della Discordia, capitata da san Michele in un convento
di frati, «tra santi ufficii e messe»:
avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati
notai, procuratori ed avvocati.
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio,
la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di concezione
e fusione di colori:
Dovunque drizza Michelangel le ale,
fuggon le nubi e torna il ciel sereno,
gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiam di notte lampeggiar baleno.
Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin
nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora
più efficace, perchè non ci è apparenza d'intenzione satirica, anzi
ci si rivela una bonomia, un'aria senza malizia, dov'è la finezza dell'ironia
ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena
nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov'è il vero scioglimento
dell'azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta
dell'esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più nelle
cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle
impressioni e degl'istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge
i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere
di questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e di coraggio
e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità
e sciocchezza nel fatto d'Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando,
la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi,
che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico,
materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto
è Ruggiero, «di virtù fonte», nel quale il poeta ha voluto rappresentare
la parte seria ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella
sua concezione ci entra un po' l'Achille omerico, un po' Damone e Pizia,
Quinzio e Flaminio, collisioni tra l'onore e l'amore, tra l'amore e
l'amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato
un po' Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l'uomo è al
di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi
figure eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto
semplicità e naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico e nell'idillico.
Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo,
gli eroi dell'antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore
di casa d'Este, l'interesse è assai più per Orlando e Rodomonte, creazioni
geniali e originali.
L'ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli
accessorii cavallereschi. L'amore di Orlando verso Angelica è stato
perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua
mano, non le ha tolto l'onore, «almeno» secondo che Angelica ne assicura
Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere «così sciocco».
Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna,
andrebbe «forse» a stringer la mano a Ruggiero:
Io dico «forse», non ch'io ve l'accerti,
ma potrebbe esser stato di leggiero...
Per lei buono era vivo Mandricardo;
ma che ne volea far dopo la morte?
Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche
e sui grandi colpi de' cavalieri, quei gran colpi «ch'essi soli sanno
fare». Una frase, un motto scopre l'ironia sotto le più serie apparenze.
È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà
della fisonomia.
Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non
si propaga sulla faccia, e non degenera che assai di rado in aperta
e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta
l'apparenza e l'illusione della realtà nelle cose più strane e assurde,
tutto questo, fuso insieme senz'aria d'intenzione e di malizia e con
perfetta bonarietà, ti mostra la concezione come un corpo in movimento
e cangiante, che non puoi fissare e definire, più simile a fantasma
che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè,
mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso,
e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili
col risolino intelligente di un secolo adulto.
Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione,
non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore
e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione
che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo
una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di
un'alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come
un esercizio serio della vita nello scopo e ne' mezzi, ma come una docile
materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione.
Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente,
come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme
la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal punto
di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito,
una «corbelleria». E sarebbe stato una corbelleria, se l'autore avesse
voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera
epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità,
perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di
beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e
tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo
non altrimenti che un arsenale d'immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio»
e «umore». Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione,
e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce
che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in una
atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono
i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi
e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza
di esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via
da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione
e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione,
dove si rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza
di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera
il mondo moderno. E perchè questo è fatto senza espressa intenzione,
anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella
guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes,
ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la rappresentazione artistica
dell'un mondo con sópravi l'impronta dell'altro. In questa fusione più
sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un solo
mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua
giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di
pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per il
profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia
dello spirito umano.
XIV - LA MACCARONEA
Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara,
Girolamo Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio.
Era di Cipada, villaggio mantovano, di famiglia nobile e agiata. Strinse
conoscenza con Ludovico. Comparivano allora in istampa la Spagna,
il Buovo, la Trebisonda, l'Ancroia, il Morgante,
il Mambriano del Cieco di Ferrara, l'Orlando innamorato.
Avea il capo pieno di romanzi più che di grammatica, e pensò rifare
l'Orlando innamorato, ma saputo del Berni, smise per allora.
Andato in istudio a Bologna, fu discepolo del Pomponazzi, che dava bando
al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava il più aperto naturalismo.
Gli studenti erano ordinati a modo di casta, con le loro leggi e privilegi,
capi i più arrischiati e baldanzosi, tra' quali era un giovane mantovano,
chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova,
che lo tenne a battesimo. Vive erano tra loro le reminiscenze cavalleresche,
rinfrescate dalla lettura; e duelli, sfide, avventure, imprese amorose
erano una parte della loro vita, più interessante che le lezioni accademiche.
Fra tanti capi ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si
fe' mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre,
sicchè finì frate in Brescia, ribattezzatosi Teofilo. Ma ne fuggì con
una donna, e ricomparso nel secolo, per campare la vita si die' a scriver
romanzi, sotto il nome di quel tal Cocaio, postogli a' fianchi, Cassandra
inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre mago de' romanzi di
cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini pochi, e Merlino il «pitocco», come
si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita errante, si rifece
frate, scrisse poesie sacre, e morì pentito e confesso e da buon cristiano,
come il Boccaccio.
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