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STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
di Francesco De Sanctis
Parti: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15

Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
redivivi omai gl'Itali staranno
in campo audaci...
Al forte fianco sproni ardenti dui,
lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
d 'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: - O vate nostro, in pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età che profetando andavi.

Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s'impone a' contemporanei, sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri, informava di sè tutta la cultura, era vivo negl'intelletti: una parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo, che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici «facitori di libertà», che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, «vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino»:

Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio.

E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella posterità:

Ma non inulta l'ombra mia, nè muta
starassi, no: fia de' tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d'ogni empio
veggio la vil possanza al suol caduta,
me forse altrui di liber uomo esempio.

Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei «profumati barbari», balbettanti «una qualche non lor libera idea», per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo:

Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.

Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, risospinto dalla società ancora più in se stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi, dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a cose effettuali, più a generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni, come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell'uomo, che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità, e non l'intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli manca l'amore, quel sentirsi due e cercar l'altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell'artista, quel divino riso, col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta, è il furore di Oreste, che gl'intorbida l'occhio, sì che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si vanta, quella mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono, e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:

Nulla di quanto l'uom scienza chiama
per gli orecchi mai giunto erami al core:
ira, vendetta, libertade, amore
sonava io sol, come chi freme ed ama.

E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertà, amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l'attica dea, che gli dice: - O dormi o crea -, ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita, è buono a creare. Non vale cuore pieno, e «mente ignuda». Manca a lui la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi misteri, e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com'è il «Pace» di Nerone, il celebre - Scegliesti? - Ho scelto -, e il «Vivi, Emon, tel comando», e il «Fui padre», e il «Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti»: uno stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l'artificio, una vita a lampi e salti, più dialogo che azione, e sotto forme brevi spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona, perchè in quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto, e perchè fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore, si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività. Ci è il patriottismo, e non la patria; ci è l'amore, e non l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo: sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità e modestia, e nella concitata espressione senti la povertà del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio lo rende profondo. Uno de' personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone; e la scena dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità, l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore oscurato nella vita e nell'arte italiana gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell'antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l'antica Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com'egli dice, «il 'sarà' è l''è stato'». Risvegliare negl'italiani la «virtù prisca», rendere i suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò il patriottismo de' due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l'espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto così elevato del mondo era prematuro, e d'accordo col suo secolo Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia, come la vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che non potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: - Maestro, da voi abbiamo imparato l'arte. - L'uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de' figli, e l'altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo primo, vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno, e che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione artistica dell'individuo. Se non che il nostro tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi, che della loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza, e si pone come esteriore e superiore all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno «sproni acuti». Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi e disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità, più simile a violenta reazione contro il passato, che a quella tranquilla affermazione di sè, paga di un'ironia senza fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l'esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da' disinganni e impedite nella loro espansione, quegl'ideali tragici così vaghi e insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all'Italia di avere infine il suo gran tragico pari a' sommi. Ci era la tragedia, ma non c'era ancora il verso tragico, a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l'Aristodemo, il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, «di Dante il core e del suo duca il canto». E in verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.
L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè l'impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano «libertà», bene inteso la «vera libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt'i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l'Aristodemo, che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s'insanguinò, in nome della libertà combattè la licenza, e scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò Napoleone, e in nome anche della libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre «libertà», «giustizia», «patria», «virtù», «Italia». E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario dell'opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d'animo, che per malignità o perversità d'indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante perchè si dipinge qual è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda perchè sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità di Tersite, e più alza la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d'immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le più alte qualità dell'artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un'assoluta padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l'impulso morale. Pure i suoi lavori, massime l'Iliade, saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello studio sarà, che non basta l'artista quando manchi il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli, forza, molto seguito. Un popolo così artistico, come l'italiano, ammirava quel suo magistero a freddo, quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo, in cui era più da compatire che da biasimare.

Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà Monti fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso furore che l'avevano applaudito.Un giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.
L'Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano «libertà e indipendenza nazionale»: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a' soldati e penetravano ne' più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue periodiche eruzioni, finchè non fu soddisfatto.
Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, ch'era la classe colta, trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria, aspettavano prima tutto da' principi, poi tutto da' forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al sèguito de' loro liberatori, come clientela messa lì per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passata la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e d'invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.
I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, colà dove le idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desidèri non potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il convegno de' più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri, che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l'acre umore, e contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.
Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: «O virtù, tu non sei che un nome vano». Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illimitato di Alfieri con tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventù, non ci è il limite. Illimitate le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze, al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d'idee astratte ch'era in Italia, venuta da' libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall'esperienza, e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale, più che l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più alla riflessione astratta, che alla formazione artistica, una immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.
Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu il libro delle donne e de' giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die' importanza politica nè letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggìa dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d'illusioni, appassionato, con tanto «furore di gloria», con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo gitta violentemente in sè, gli rode l'anima. È la malattia ch'egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità «consunzione dell'anima». Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni:

Non son chi fui, perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.

In questa malattia di languore s'intenerisce, pensa alla madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza ròsa, non doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa, Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia da' sedici a' venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica, di cui l'Italia avea perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo sentire greco, dalle «corde eolie maritate alla grave itala cetra». Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra: a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

L'esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e All 'amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove l'anima guarita e gioiosa si espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade, emulo di Monti; scrive un'orazione pei comizi di Lione, con pomposo artificio di stile e con gravità e arditezza d'idee.
I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a' sommi. Fu chiamato per antonomasia «l'autore de' Sepolcri». E in verità, questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva l'uguaglianza de' sepolcri, l'uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio de' nobili e de' ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle classi, anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro, - pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall'uomo. Nè gli entrava quel trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso il poeta e l'uomo. Mancava l'idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell'obblio. Ma vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e ne' suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertà, con la gloria Di là cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de' sepolcri: il sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti più delicati dell'umanità in un pantheon vivente, perchè opera ancora su' vivi, desta ricordanze e illusioni, accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità, eterne quanto essa, parte della sua storia. Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti. Senti un'ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d'uomo, il tutto in una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla divinità.
La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua via. Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della filosofia, della libertà, dell'economia pubblica. Qui il tono è altro.
Non può credere il poeta all'immortalità dell'anima; pure vorrebbe crederci. Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose, non in nome della verità, ma in nome dell'umanità e della poesia. Senti già Châteaubriand.
Ma se «purtroppo» è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia solo è immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà de' defunti è la religione dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena: sia pure, anzi pur troppo è così: «vero è ben, Pindemonte!». Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di fermata ne' sentimenti umani, via a' sentimenti religiosi.
Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota, il liber uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità, ne' delicati sentimenti della sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra, il mondo interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le impressioni di Maratona, l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così elevato che lo spettacolo d'Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d'uomo e ispirazione di poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca una corda che vibrava in tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella serietà del suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa, e non era già una tragedia o un poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in sè, con nuove tessiture e nuovi suoni, e non è artificio, è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte sfere dell'umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell'uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l'uomo intero, nella esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de' suoi affetti privati, era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all'inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
Entrato in questa via, mette mano ad altri carmi, l'Alceo, la Sventura, l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione: compone a freddo, letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge a maturità. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta quasi non ci è più.
Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana, voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese. È una prosa personale, ancora in formazione, piena di reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla maestà e alla forza. Mostra più calore d'immaginazione che vigore d'intelletto.
Il concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dà la formola della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di nuova luce. Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio tecnico, e s'interna nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo all'estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n'è il gusto e la tendenza.
E ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche e storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge a Vico e Muratori.
Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e s'era fatto della vita un concetto più reale, e s'era spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava già con l'un piè nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida le sue Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano.
Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa era la scuola romantica l'audace scuola boreale.

Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme anche ne' Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il «terrore bianco» successe al «rosso».
Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo portato sino all'idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il dritto divino, alla sovranità popolare la legittimità, a' dritti individuali lo Stato, alla libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo ritornò a galla, glorificato come la culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt'i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati «pagani», e le dottrine liberali furono qualificate senz'altro pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà, e il papato potente fattore di libertà e di progresso. Mutarono i criteri dell'arte. Ci fu un'arte pagana, e un'arte cristiana, di cui fu cercata la più alta espressione nel gotico, nelle ombre, ne' misteri, nel vago e nell'indefinito, in un di là che fu chiamato «l'ideale», in un'aspirazione all'infinito, non capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia fu battezzata, e detta qualità «cristiana», il sensualismo, il materialismo, il plastico divenne il carattere dell'arte «pagana»: sorse il genere cristiano «romantico» in opposizione al genere «classico». «Religione», «fede», «cristianesimo», «l'ideale», «l'infinito», lo «spirito», «il trono e l'altare», «la pace e l'ordine» furono le prime parole del nuovo secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Châteaubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E proprio nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del giovane Manzoni. Storia, letteratura, filosofia, critica, arte, giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era già fittizio e artificiale, sostenuto da penne salariate, promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento esagerato senza dubbio ne' suoi inizi, perchè mirava non solo a spiegare, ma a glorificare il passato, a cancellare dalla storia i secoli, a proporre come modello il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La dea Ragione e la comunione de' beni avea per risposta l'apoteosi del carnefice e la legittimità dell'Inquisizione.
Ma l'esagerazione fu di corta durata, e la reazione fallì ne' suoi tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sè infiniti nuovi interessi venuti su con la Rivoluzione, interessi materiali, morali, intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran parte la monarchia, che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era interesse de' principi restaurare le maestranze, le libertà municipali, le classi privilegiate, tutte quelle forze collettive sparite nella valanga rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l'assetto economico-sociale consacrato da' nuovi codici, e la monarchia assoluta uscì più forte dalla burrasca. Perchè il clero e la nobiltà, un giorno suoi rivali, divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi, e scomparse le forze collettive naturali, potè con facilità riordinare la società sopra aggregazioni artificiali necessariamente sottomesse alla volontà sovrana, burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava alla caccia degl'impieghi, e centralizzando gli affari sopprimeva ogni libertà e movimento locale, e teneva nella sua dipendenza provincie e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato come cavallette, ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di cui era istrumento. L'esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione dello Stato, fu ordinato a modo di casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall'ubbidienza passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato. Il clero, stretta l'alleanza fra il trono e l'altare, si recò in mano l'educazione pubblica, vigilò scuole, libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne l'ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura come sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative, divenuto spia l'impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione organizzata, chiamata «governo», o in forma assoluta, o in maschera costituzionale.
Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di Torino, di Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co' suoi dritti individuali, co' suoi princìpi d'eguaglianza, con la sua «carta» dell'Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia per vivere si trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l'Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la capacità apersero la via a' più alti uffici, rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al feudalismo, alla manomorta, a' privilegi. La borghesia trovò largo pascolo alla sua attività e alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli comunali e provinciali, nella guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie, nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva più «aristocrazia», si diceva «bancocrazia», alimentata dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza, vinceva e dominava, forza di censo, d'ingegno e di lavoro. L'attività intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica prosperità faceva miracoli. All'ombra della pace e della libertà fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove gli ordini costituzionali non poterono vincere, come in Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe una parte più larga alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un modo di vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e il popolo, ma fra il papato e la libertà.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento che aveva aria di reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione, che ammaestrata dalla esperienza moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo contatto col reale, tutto questo dovea fare una grande impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle moltitudini, assalito con una violenza, che tirava in suo favore anche gl'indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore. L'esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto, e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l'opera de' secoli. E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di Campanella che «le lingue precedono le spade». Evidentemente la Rivoluzione aveva errato, esagerato le sue idee e le sue forze, ed ora si rimetteva in via con minor passione, ma con maggior senso del reale, confidando più nella scienza che nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava nello stadio della riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtà, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sè e prendeva il suo posto nella storia. Châteaubriand, Lamartine, Victor Hugo Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch'essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è sempre la «carta» dell'Ottantanove, il «credo» è sempre «libertà, patria, uguaglianza, dritti dell'uomo». Il sentimento religioso, troppo offeso si vendica, offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma, come fanno i puri reazionari, co' gesuiti in testa, ma è di conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma d'altra parte il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di una «democrazia cristiana» e di un «Cristo democratico», a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali, come l'«apostolato delle idee», il «martirio patriottico», la «missione sociale», la «religione del dovere». La rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera: «Dio e popolo», e la religione, dommatica e ascetica, si fa valere come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s'impregna di umanismo e di naturalismo, si avvicina alla scienza prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo raccoglie in sè gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sè, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza ancora più. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia per la grazia di Dio e per la volontà del popolo.
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello spirito. Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale, dello spirito e della natura, o, come disse Vico, la «conversione del vero col certo». Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un significato e uno scopo, creava la filosofia della storia; d'altra parte realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale, e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione ricisa col medio evo, e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto «romantico», in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo, come le vere fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il Rinascimento fu chiamato «paganesimo», e quell'età che il Rinascimento chiamava «barbarie», risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e i tempi e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso, l'indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini, riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui storico era Carlo Troya, e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione contro Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e vi s'internava, vi s'immedesimava, ricreava quelle immagini e quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo, la legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero le antichità nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l'immaginazione, animata dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e l'alta poesia. Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
Ma il romanticismo, come il classicismo, erano forme sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la semplicità dello spirito religioso: è un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono più le passioni ardenti e astiose di quel secolo, ma ci sono le sue idee, la tolleranza, la libertà, la fraternità umana, consacrata da una religione di pace e di amore, purificata e restituita nella sua verginità, nella purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione così fatta già non è più reazione, è conciliazione, è la rivoluzione stessa vinta, che non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l'ironia, l'ingiuria, e trasformatasi in apostolato evangelico prende abito umile e supplichevole dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la Bibbia diviene l'«ultima parola di un credente». Lo spirito non rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai conscio di sè, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo accompagna nella storia. La «divina Commedia» è capovolta: non è l'umano che s'india, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra il rumore de' grandi avvenimenti, usciva in luce un libriccino, intitolato Inni, al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co' Carmi; Manzoni apriva il suo con gl'Inni. Il Natale, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo «concordato». Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Non è più un «credo», è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che sieno belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la sostanza dell'arte moderna, chiamata «romantica». La critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di «classico» e di «romantico», di «plastico» e di «sentimentale» di «finito» e d'«infinito». L'inno era poesia essenzialmente religiosa, la poesia dell'infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia e per la forma. Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane classico. Invano si arrampica tra le nubi del Sinai; non ci regge, ha bisogno di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perchè animate da immaginazione fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno delle idee religiose non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso. Perchè la base ideale di quegl'Inni è sostanzialmente democratica, è l'idea del secolo battezzata e consacrata sotto il nome d'«idea cristiana», l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade, «libertà, uguaglianza, fratellanza», vangelizzata; è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e commovente ne' suoi sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel suo dolore pensò a tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice ne' languidi pensieri dell'infelice; ivi è il regno della pace, che il mondo irride, ma che non può rapire; il povero, sollevando le ciglia al cielo «che è suo», volge i lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia.

In questa ricostruzione di un mondo celeste accanto a una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e sulle cupidigie mondane, si sviluppa l'epica, quel veder le cose umane dal di sopra con l'occhio dell'altro mondo. Questa novità di contenuto, di forma e di sentimento rende altamente originale il Cinque maggio, composizione epica in forme liriche. L'individuo, grande ch'ei sia, non è che un'«orma del Creatore», un istrumento «fatale». La gloria terrena, posto pure che sia vera gloria, non è in cielo che «silenzio e tenebre». Sul mondano rumore sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna e consola. La sua mano toglie l'uomo alla disperazione, e lo avvia pe' floridi sentieri della speranza. Risorge il «Deus ex machina», il concetto biblico dell'uomo e dell'umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero o il miracolo, «chinar la fronte». Meno comprendiamo gli avvenimenti, e più siamo percossi di maraviglia, più sentiamo Dio, l'incomprensibile. La storia anche di ieri si muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un'orma più vasta di Dio. A che fine? Per quale missione? L'ignoriamo. È il secreto di Dio. Così volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria, quella che più colpisce le immaginazioni; le battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall'altezza e moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del genio, dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe, di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo mondo, e te ne viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo e rapido dell'ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti, ti dà l'illusione dell'infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità dell'espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme tra quella vastità di orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua azione storica, ne' suoi effetti su' contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati dalle rime.
Questo è il primo movimento, epico-lirico, del secolo decimonono. Al macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo, semplice colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo nell'immaginazione che ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità e il cuore dell'uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre a sentimenti miti: su' disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo giovanile, riflesso di quell'entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni, e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e resta il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e restano le sue idee. Mutata è la cornice, il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La cornice è una illuminazione artistica, una bell'opera d'immaginazione, da cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di un genio rifatta dal genio. L'interesse non è nella cornice è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l'assoluto, l'idea; Cristo è l'idea in quanto è realizzata, l'idea naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole il Verbo; la trinità teologica diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di contenuto. Dio nella sua verità è lo spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i tre momenti della sua esistenza, la sua storia, una storia dove niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato, dovea essere. La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i colpi di Stato non sono fatti arbitrari, sono fenomeni necessari dello spirito nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a priori. Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si ripete, niente muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell'idea, una coscienza sempre più chiara di sè, una maggiore realtà.
In queste idee codificate da Hegel ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi, che egli traeva da' fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce un'appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto nome di «logica», compariscono vere teogonie, o epopee filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la filosofia delle religioni, la storia della filosofia, la filosofia dell'arte, la filosofia del dritto, la filosofia della storia, illuminate dall'astro maggiore, la logica, o, come dice Vico, la «metafisica». Tutto il contenuto scientifico è rinnovato. E non solo nell'ordine morale, ma nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura, come una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia, momenti dell'Idea nella sua manifestazione.
Il misticismo, fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato dal sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta borghesia, perchè da una parte, rigettando il misticismo, prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico della coltura: alla parola «rivoluzione» succede la parola «evoluzione». Non si dice più «libertà», si dice «civiltà», «progresso», «coltura». Sembra trovato oramai il punto, ove s'accordano autorità e libertà, Stato e individuo, religione e filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di «ecletismo». La rivoluzione gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto il vessillo tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo, e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e divennero il «credo» delle classi colte. La parte liberale si costituì come un centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava i «partiti estremi». Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia, e l'ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso pacifico e legale, governava la borghesia sotto nome di «partito liberale-moderato». Teneva in iscacco la dritta, perchè, se combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo sistema l'idea rifiessa e consapevole, lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino, ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione, e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i cristiani liberali e patrioti, e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco la sinistra rivoluzionaria, perchè se respingeva i suoi metodi, se condannava le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee, confidando più nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione e dell'educazione, che nella forza brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto aspetto di conciliazione si rendeva accettabile a' più, e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch'ella gridò «libertà» nel secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità, acquistò una certa indipendenza di giudizio, illuminata ne' migliori dal buon senso e dal buon gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva, cercando i motivi e il significato della composizione nelle qualità dello scrittore; l'arte ebbe il suo «cogito» e trovò la sua formola nel motto: «Lo stile è l'uomo». Ma era una critica d'impressioni più che di giudizi, di osservazioni più che di princìpi. Con la nuova filosofia il bello prese posto accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica, divenne una manifestazione dell'idea, come la religione, il dritto, la storia: avemmo una filosofia dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso ideale della umanità, l'arte entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni dello spirito, e prese dalla qualità dell'idea la sua essenza e il suo carattere. Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto: le qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea «orientale», l'idea «pagana» o «classica», l'idea «cristiana» o «romantica» nella religione, nella filosofia, nello Stato, nell'arte, in tutte le forme dell'attività sociale, uno sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell'idea divenne un antecedente obbligato di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale dell'arte fu cercare l'idea in ogni lavoro dell'immaginazione, e misurarlo secondo quella. Rivenne su il concetto cristiano-platonico dell'arte, espresso da Dante, ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero «sotto il velo della favola ascoso», o il «vero condito in molli versi». Divenuta la favola un velo dell'idea, ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni artistiche si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina Commedia, materia d'infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in moda un certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori, anche presso Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il frontispizio obbligato della critica, trattandosi di coglier l'idea non nella sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni, su' costumi, sulle tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere d'arte, sulla formazione successiva della materia artistica; al motto antico: «Lo stile è l'uomo», successe quest'altro: «La letteratura è l'espressione della società». Ne uscì un doppio impulso: sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione progressiva e razionale dell'idea, una dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla sintesi, e costruirono vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio metafisico, e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie, istituzioni politiche, leggi, la vita intellettuale, morale e materiale de' popoli. Questo fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale. Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate de' problemi più delicati urtavano alcuna volta co' dati positivi della storia e delle singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti disparati, le interpretazioni forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di Vico parve più lungo e più arduo, ma più sicuro, e si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello scibile. Il movimento di erudizione e d'investigazione, interrotto in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo decimottavo, tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo disdegno di citazioni, di esempli, di ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della scolastica, ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo delle scienze, e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della coltura, stata prima poco più che greco-romana, guadagnò di estensione e di profondità. Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il Rinascimento. È con tale attività di ricerca e di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una ideale, l'altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto dei fatti, e proclamava che il vero ideale è storia, è l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia nel regno de' princìpi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro che empirica, ed usciva dalla cerchia de' fatti, ed aveva anch'essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più audace speculazione si maritava con la più paziente investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva, posero in moto tutte le facoltà dello spirito, e produssero miracoli nelle teorie e nelle applicazioni. Al secolo de' lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi italiani i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate tutte le forze del secolo: la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione. Di là partiva quell'alta imparzialità di filosofo e di storico, quella giustizia distributiva ne' giudizi, che fu la virtù del secolo. Passato e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non val collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla critica, quella vista superiore dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si adira contro se stesso.
La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera d'arte non è considerata più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno nell'immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un prodotto più o meno inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua esistenza. L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui complesso costituisce l'individualità di una società o di un secolo. L'idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno a sè, nella società dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea, salvo che di quella è in lui più sviluppata l'intelligenza e il sentimento. La sua forza è di unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista, mutati i criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale, e l'uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali tutti di un pezzo, ch'erano decorati col nome di «classici», furono giudicati una contraffazione dell'ideale, l'idea nella sua vuota astrazione, non nelle sue condizioni storiche, non nella varietà della sua esistenza. Cadde la rettorica con le sue vuote forme, cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne su il vecchio motto di Goldoni: «Ritrarre dal vero, non guastar la natura.» Il più vivo sentimento dell'ideale si accompagnò con la più paziente sollecitudine della verità storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le romanze, le fantasie e gl'inni. La naturalezza, la semplicità, la forza, la profondità, l'affetto furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza, come quelle che sono intimamente connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon, Ariosto, reputati i più lontani dal classicismo, divennero gli astri maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all'elegante storico, e il canto popolare alla poesia solenne. Il contenuto nella sua nativa integrità valse più che ogni artificiosa trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi fantastici e poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l'imitazione classica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa, imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.

«Tutto questo fu detto «romanticismo», «letteratura de' popoli moderni». La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee religiose, una condanna dell'aborrito Rinascimento, soprattutto del più aborrito secolo decimottavo. I liberali, non potendo pigliarsela co' governi, se la pigliavano con Aristotele e co' classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era così vasto e vi si mescolavano idee e tendenze così diverse, che ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua, diverbii letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e lassisti, di classici e romantici. Il giornalismo, mancata la materia politica, vi cercò il suo alimento. Il centro più vivace di quei moti letterari era sempre Milano, dove erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E là s'inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo d'Azeglio, divenuto sposo di Giulia Manzoni, e anello fra la Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso giro d'idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d'Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto a Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della Costituzione, il giovane Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni, Felice Bellotti, Andrea Maffei, il traduttore di Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi i critici, dilettanti pure di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti, Giovanni De Cristoforis, Samuele Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta, Niccolò Tommaseo, i fratelli Cesare e Ignazio Cantù, e Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano così alto la voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione, s'inchinavano appena al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unità, e delle regole si curavano poco, e non curvavano il capo che innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Nè parea ragionevole che Aristotele, detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi si mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti. E dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese, si venne in tale confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il romanticismo, e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche, e altri che Manzoni con pretensioni romantiche era in verità un classico. Si cominciò a vedere chiaro, quando fu posta da parte la parola «romanticismo», materia del litigio, e si badò alla qualità della merce e non al suo nome. Al romanticismo, importazione tedesca, si sostituì a poco a poco un altro nome, letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli Schlegel e da' Tieck, in quella forma esagerata che prese in Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica, e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertà dell'arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi sostituivano il gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l'altra. Ciò che era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo in questa sua esagerazione tedesca e francese non attecchì in Italia, e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti, quando poterono gittar via quel nome d'imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario, riuscì sotto nome di «letteratura moderna» nell'ecletismo, nella conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i princìpi superiori dell'estetica, o della filosofia dell'arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si affermava come distinto, anzi in contraddizione col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di quel secolo appunto, contro il quale armeggiava. In Germania l'idea romantica sorse in opposizione all'imitazione francese così alla moda sotto il gran Federico. Era una esagerazione, ma in quell'esagerazione si costituivano le prime basi di una letteratura nazionale, dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea romantica s'affacciò in Italia, già in Germania era scaduta, trasformatasi in un concetto dell'arte filosofico e universale. Goethe era già alla sua terza maniera, a quel suo spiritualismo panteistico, che produceva il Faust. Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi dell'eghelismo. parve a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto strombazzata, non cominciava, ma continuava. Essa era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La differenza era questa, che la Germania reagiva contro l'imitazione francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove l'Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della coltura europea, e vi prendea il suo posto, cacciando via da sè una parte di sè, il seicentismo, l'Arcadia e l'accademia; la Germania al contrario iniziava la sua riforma intellettuale, rimovendo da sè la coltura francese, e riannodandosi alle sue tradizioni. L'influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento di continuità della vita tedesca, movimento fortificato nella lotta d'indipendenza, e che portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con progresso rapido, con intima consonanza in tutt'i rami dello scibile, non ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di «romanticismo», la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti, e conciliò tutti gli elementi della storia in una vasta unità, della quale rimane monumento colossale la Divina Commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme, si danno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane, sottoposte alle stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola idea, già inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall'occhio ironico della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che fu detto lo «scetticismo» di Goethe, ed era la serenità olimpica di una intelligenza superiore, la tolleranza di tutte le differenze riconciliate e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell'arte. Così il misticismo romantico si trasformava nell'idealismo panteistico, l'idea cristiana nell'idea filosofica, il Cristo del Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s'inabissava nella filosofia, il domma e il dubbio si fondevano nella critica, e il famoso «cogito» trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sè, come spirito del mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all'Impero, e dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di là gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni; Cousin lo chiamava il suo «amico», Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte si allargò, vide nuovi mondi, e reagì contro la sua educazione letteraria, contro le sue adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il regno d'Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani, e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Così, mentre la Germania, percorso il ciclo filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno all'applicazione in tutte le sue scienze sociali o naturali, in Italia si disputava ancora de' princìpi. Naturalmente, nè Manzoni nè altri poteva assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller, Goethe, Herder, Kant, Fichte, Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi e letterati, e di quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi e giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneità, ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con argomenti e metodi propri; e ne uscì un romanticismo locale, puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere, accomodato allo stato della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo così fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura sorta col Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi colori prettamente italiano.
In effetti, i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col movimento iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta continuata con tanto furore e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici che l'Italia lasciasse i temi classici? E già n'era venuto il fastidio, e avevi l'Ossian, il Saul, la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che i personaggi fossero presi dal vero? E che le forme fossero semplici e naturali? Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri e Foscolo, e appunto la risurrezione del contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere della nuova letteratura. Cosa erano le tre unità e la mitologia, pomo della discordia, se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne' Sepolcri di Foscolo e d'Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per il suo nome, per le sue relazioni, pe' suoi studi, e per le sue impressioni si legava a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo scuola italiana per il suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato, che dopo le grandi illusioni e i grandi disinganni ritornava a' suoi princìpi, alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini. Erano di quella scuola più i romantici, i quali avevano aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente declinando sotto il regno d'Italia, e non avendo più novità di contenuto, si girava in se stessa, divenuta sotto nome di «purismo» un gioco di frasi, intenta alla purità del Trecento e all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e i retori; ripullulava sotto altro nome l'Arcadia e l'accademia. Così fu possibile la Storia americana di Carlo Botta, uscita a Parigi quando appunto uscirono gl'Inni; e fu tal cosa che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che, insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono la sua vernice classica e mitologica, l'accostarono a forme semplici, naturali, popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie abitudini letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di reazione, essi erano la stessa rivoluzione, che moderandosi e disciplinandosi ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; così, sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava una coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando gl'ideali rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.
Questo sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era più il popolo accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e all'Aristodemo e applaudiva all'Italia ne' sonetti e nelle canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme, nelle sue illusioni, nelle sue promesse, ne' suoi disinganni, nelle sue esagerazioni. Il regno d'Italia, la spedizione di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d'indipendenza della Spagna e della Germania, l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti cospiravano nelle società secrete, contro le quali si ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era, che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza de' mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse più rivoluzione, si disse «progresso». E fu il maestoso cammino dell'idea nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare, perchè cacciava quella maledetta parola che era la «rivoluzione», e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò, «libertà», «rivoluzione» indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi, dove progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato, promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali, che parevano innocui, com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a gas, i telegrafi, la libertà del commercio, gli asili d'infanzia, i congressi scientifici, i comizi agrarii. A poco a poco i liberali tornarono là ond'erano partiti, e non potendo vincere i governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi, anche del papa, rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po' quell'arcadia. Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all'Idea, dovea condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del Trentuno, i vari tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento delle nazioni liberali, la potenza riputata insuperabile dell'Austria, la forza e la severità de' governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte, disponevano gli animi ad uno studio più attento de' mezzi, li piegavano a' compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano impopolare la dottrina del «tutto o niente». Lo stesso Mazzini, ch'era all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell'accento di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia e nelle lettere, e che lo chiariva uomo del secolo, e mostravasi anche lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione, e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così, rammorbidite le passioni, confidenti nel progresso naturale delle cose, e persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione, i più smessero l'azione diretta e si diedero agli studi: fiorirono le scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto. In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l'Adelchi e i Promessi sposi, la Pia del Sestini; la Fuggitiva, l'Ildegonda, i Crociati e il Marco Visconti del Grossi, la Francesca da Rimini del Pellico, la Margherita Pusterla del Cantù, l'Ettore Fieramosca e più tardi il Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio. Ultime venivano con più solenne impressione le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico, un romanticismo italiano, che facea vibrare le corde più soavi dell'uomo e del patriota, con quella misura, con quell'ideale internato nella storia, con quella storia fremente d'intenzioni patriottiche, con quella intimità malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore semplicità de' motivi, che rivelava uno spirito venuto a maturità e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte più crude e con intenzioni più ardite comparivano l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di Firenze.
Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni, le più lontane somiglianze erano còlte a volo da un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la serietà del suo contenuto; la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non fu più materia trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l'involucro de' nostri ideali, l'espressione abbastanza trasparente delle nostre speranze. Si sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico, come era la Lega lombarda, trasformata in lotta italiana contro la Germania. Massimo d'Azeglio, che segna il passaggio dalla maniera principalmente artistica de' romantici ad una rappresentazione più svelatamente politica, volgeva in mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia la Lega lombarda. Il pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni e il Cinque maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro, fu l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo, filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze, alle arti, gl'inni di guerra. Rimasero madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all'intimo spirito della composizione, o puramente arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi del Berchet. E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell'Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in una lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un'Italia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità dell'espressione. Si era trovata una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari erano detti «oscurantisti». I principi facevano bocca da ridere; promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a' ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva più? I liberali, con quel senso squisito dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio, inneggiavano a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a' gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un'opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore della religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all'autocrazia dell'ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione sostituita al divenire egheliano rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L'impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse alfine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati a' popoli, Il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall'equivoco, e crollato al primo urto de' fatti. Questa era la faccia della società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano «paternostri», e i gesuiti biascicavano «progresso e riforme». La situazione in fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre secoli, non aveva più in mano l'indirizzo letterario d'Italia. Si era addormentata col riso del Berni sul labbro. La Crusca l'aveva inventariata e imbalsamata. Resistè più che potè nel suo sonno, respingendo da sè gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì il bisogno di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo l'andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione più naturale: cercarla colà dove era parlata, cercarla in Toscana. La rivoluzione avea ravvicinati gl'italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d'Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello di Milano. Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva. Gl'italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove l'elemento locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la sua forza con la coscienza della sua vitalità. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici che gittasse una occhiata ironica sulla società quale l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l'ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica in lotta con la teologia si era esaurita in questo tentativo di conciliazione. La moltiplicità de' sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo scetticismo che non colpiva più solo la religione o il soprannaturale, colpiva la stessa ragione. La metafisica era tenuta come una succursale della teologia. L'idea sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell'umanità, del dritto avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria. L'abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L'ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L'apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la fede nella stessa filosofia. Ricompariva ii mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero, del reale. I suoi Canti sono le più profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa che si chiamava «secolo decimonono». Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che ha importanza, non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle «sorti progressive» dell'umanità. Ciò che ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno, virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non vogliono morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità di Leopardi, e dà al suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un quarto d'ora quello in cui vibra un così energico sentimento del mondo morale. Ciascuno sente lì dentro una nuova formazione.
L'istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell'ecletismo. Il secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione: l'idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell'analisi. Ritorna a splendere sull'orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all'Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è più solo «libertà», ma «giustizia», la parte fatta a tutti gli elementi reali dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c'è più nè bello, nè brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito. L'idea non si stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell'arte, nella storia. È un'ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama oggi ed è la «letteratura moderna».
L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d'idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a' suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare. L'ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita, ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia e arcadia è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario. Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell'Armando. Vedete la Storia universale di Cesare Cantù. Erede dell'ontologia è la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non esca da una serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti più allo stato reale dello spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L'Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore. L'ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn'intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt'i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne' nostri costumi, nelle nostre idee, ne' nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, «esplorare il proprio petto» secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti.

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