Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
redivivi omai gl'Itali staranno
in campo audaci...
Al forte fianco sproni ardenti dui,
lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
d 'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: - O vate nostro, in pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età che profetando andavi.
Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di
vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee,
empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo
nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s'impone
a' contemporanei, sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se
quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri,
informava di sè tutta la cultura, era vivo negl'intelletti: una parentela
c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque
Alfieri si sente solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo?
Gli è per questo, che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato
nella sua potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la
sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto
da quelli stessi, che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente
uno sdegno più vivo forse verso i democratici «facitori di libertà»,
che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, «vergine di
lingua, di orecchi e di occhi persino»:
Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio.
E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando
nella posterità:
Ma non inulta l'ombra mia, nè muta
starassi, no: fia de' tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d'ogni empio
veggio la vil possanza al suol caduta,
me forse altrui di liber uomo esempio.
Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la
sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei «profumati barbari»,
balbettanti «una qualche non lor libera idea», per quei ribaldi fortunati,
contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo:
Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.
Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in
sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà torto,
lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, risospinto
dalla società ancora più in se stesso, solo col suo modello, rimane
nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi, dove non
ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi
sono più simili a concetti logici che a cose effettuali, più a generi
e specie che ad individui. Non sono astrazioni, come le chiamano. Potrebbero
vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi
appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è congestione
di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti
nella tragedia la solitudine dell'uomo, che armeggia con se stesso e
produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la
natura, la località, la personalità, e non l'intende e non la tollera,
e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima
individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla
generazione, perchè gli manca l'amore, quel sentirsi due e cercar l'altro
e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli
toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio
torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti
esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo
impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza
e il riposo dell'artista, quel divino riso, col quale segue in tutti
i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta,
è il furore di Oreste, che gl'intorbida l'occhio, sì che investendo
il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i colori, abbozzare le
immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso.
Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni,
chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si
vanta, quella mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa
della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni
strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono, e meno li comprendi.
Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:
Nulla di quanto l'uom scienza chiama
per gli orecchi mai giunto erami al core:
ira, vendetta, libertade, amore
sonava io sol, come chi freme ed ama.
E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertà,
amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l'attica dea, che gli dice:
- O dormi o crea -, ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita,
è buono a creare. Non vale cuore pieno, e «mente ignuda». Manca a lui
la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t'inizia
nelle sue ombre e ne' suoi misteri, e te ne porge tutte le armonie.
Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime,
un certo addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo
scarno e povero, com'è il «Pace» di Nerone, il celebre - Scegliesti?
- Ho scelto -, e il «Vivi, Emon, tel comando», e il «Fui padre», e il
«Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti»: uno stile a fazione di Tacito
e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l'artificio, una vita
a lampi e salti, più dialogo che azione, e sotto forme brevi spesso
prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi
o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata
e che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende perchè fra
tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona,
perchè in quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto,
e perchè fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio,
uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore
negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la forza è con loro e sono
essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà,
amore, si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella
loro intimità e nella loro attività. Ci è il patriottismo, e non la
patria; ci è l'amore, e non l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo:
sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle gradazioni,
nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella, Davide
e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca
alla virtù ogni semplicità e modestia, e nella concitata espressione
senti la povertà del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici
o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio
lo rende profondo. Uno de' personaggi da lui meno stimati e più interessanti
per ricchezza e profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone;
e la scena dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di
Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà,
la dignità, l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il
sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore oscurato nella vita
e nell'arte italiana gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno,
ma dallo studio dell'antico, congiunto col suo ferreo carattere personale.
La sua Italia futura è l'antica Italia, nella sua potenza e nella sua
gloria, o, com'egli dice, «il 'sarà' è l''è stato'». Risvegliare negl'italiani
la «virtù prisca», rendere i suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni,
sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune
con Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò il patriottismo de'
due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e
messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell'uomo nuovo
che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l'espressione
esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il
tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era
la sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano
idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come
sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro
urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente
tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto pathos,
il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto così elevato del
mondo era prematuro, e d'accordo col suo secolo Alfieri non vede di
tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore
o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia, come la
vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che
non potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la
spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico,
e se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: -
Maestro, da voi abbiamo imparato l'arte. - L'uomo che glorificava il
primo Bruto, uccisore de' figli, e l'altro Bruto, uccisore di Cesare
padre suo, l'uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo primo,
vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che
tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze collettive
e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che
l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno,
e che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza.
Ma in questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali,
eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non può avere per
base che la formazione artistica dell'individuo. Se non che il nostro
tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi,
che della loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico
e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica,
ma è la sostanza, e invade e guasta il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno
ho già notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto
esce dalla sua secolare indifferenza, e si pone come esteriore e superiore
all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo
e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno «sproni acuti».
Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua e serena
contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento
estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori
sono crudi e disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo
alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione
delle sue qualità, più simile a violenta reazione contro il passato,
che a quella tranquilla affermazione di sè, paga di un'ironia senza
fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti un nuovo mondo
affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano
senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea meno che quella
esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue
intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò
la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un
mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze,
i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della
pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda, spasso
innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione
politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei, applaudendo
in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero
impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico.
Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l'esagerazione era da
un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della
realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da' disinganni
e impedite nella loro espansione, quegl'ideali tragici così vaghi e
insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e
quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come
un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere.
La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve
all'Italia di avere infine il suo gran tragico pari a' sommi. Ci era
la tragedia, ma non c'era ancora il verso tragico, a sentenza de' letterati.
Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena
di Metastasio. E quando fu rappresentato l'Aristodemo, il problema
parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la
dolcezza virgiliana, «di Dante il core e del suo duca il canto». E in
verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea
Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.
L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè l'impressione,
come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda,
che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non
esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano «libertà»,
bene inteso la «vera libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà
glorificò tutt'i governi. Quando era moda innocente declamare contro
il tiranno, gittò sul teatro l'Aristodemo, che fece furore sotto
gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s'insanguinò, in
nome della libertà combattè la licenza, e scrisse la Basvilliana.
Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone,
e allora in nome della libertà cantò Napoleone, e in nome anche della
libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle,
applicate a tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello
che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli
avvenimenti. I suoi versi suonano sempre «libertà», «giustizia», «patria»,
«virtù», «Italia». E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione,
ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui
stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale di Alfieri,
e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto
conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo
pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di
fare il martire. Fu dunque il segretario dell'opinione dominante, il
poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico,
cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d'animo, che per malignità
o perversità d'indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura,
potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante perchè si dipinge
qual è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo.
Monti raffredda perchè sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità
di Tersite, e più alza la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia
freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d'immagine, qualità
tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco e immaginoso,
che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione,
e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le più alte
qualità dell'artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio
di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un'assoluta
padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote,
macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto
profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l'impulso
morale. Pure i suoi lavori, massime l'Iliade, saranno sempre
utili a studiarvi i misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione.
E la conclusione dello studio sarà, che non basta l'artista quando manchi
il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli,
forza, molto seguito. Un popolo così artistico, come l'italiano, ammirava
quel suo magistero a freddo, quella facilità e quella felicità di armonie.
Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani.
E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio
alla memoria di un uomo, in cui era più da compatire che da biasimare.
Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore
di libertà Monti fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso
furore che l'avevano applaudito.Un giovane scrisse la sua apologia.
L'atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima
e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola
di Plutarco, di Dante e di Alfieri.
L'Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi.
Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti
territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da
motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano
«libertà e indipendenza nazionale»: dietro alle loro baionette ci era
Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa
e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di
vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a' soldati e penetravano
ne' più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni, che
compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo
italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi,
nuovi bisogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato
nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo
profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano,
le sue periodiche eruzioni, finchè non fu soddisfatto.
Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia immatura e impreparata. Non
ancora vi si era formato uno spirito nazionale, non aveva ancora una
nuova personalità, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava
appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, ch'era la classe colta,
trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben
definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non
erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri.
Privi d'iniziativa propria, aspettavano prima tutto da' principi, poi
tutto da' forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro,
rimasero al sèguito de' loro liberatori, come clientela messa lì per
batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passata
la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore
e d'invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.
I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, colà
dove le idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica
e abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea.
Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse
d'immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel
regno memorie e desidèri non potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage
alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il Cuoco,
che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia
aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il convegno de' più
illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano
morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso.
Alfieri, che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America
e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della rivoluzione,
sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire
l'acre umore, e contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come
Parini, nel mondo antico, e studiando il greco, finiva la vita nel riso
sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori,
recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici
insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza
progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei
poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte.
I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere
regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e
gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di
armi.
Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito
dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia.
Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato
al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava
l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe mutatosi in traditore vendeva
Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria,
senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima
nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto:
«O virtù, tu non sei che un nome vano». Le sue illusioni, come foglie
di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è
il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illimitato di Alfieri con
tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo
ancora nella gioventù, non ci è il limite. Illimitate le speranze, illimitate
le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria,
scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa
gestazione appena è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione,
il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia
delle speranze, al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni.
Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della
realtà rivela quella agitazione d'idee astratte ch'era in Italia, venuta
da' libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall'esperienza, e non
giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un sentimento
morboso, una esplosione giovanile e superficiale, più che l'espressione
matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più alla
riflessione astratta, che alla formazione artistica, una immaginazione
povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.
Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti.
Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo,
uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria,
destò curiosità, fu il libro delle donne e de' giovani, che vi pescavano
un frasario amoroso. Ma non vi si die' importanza politica nè letteraria,
anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione
del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica
opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle
disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova
patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita
lo incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggìa dentro
e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno
d'illusioni, appassionato, con tanto «furore di gloria», con tanto orgoglio
al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose,
lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo
gitta violentemente in sè, gli rode l'anima. È la malattia ch'egli chiama
nel suo Ortis con una energia piena di verità «consunzione dell'anima».
Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare,
scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere, far
baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni:
Non son chi fui, perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
In questa malattia di languore s'intenerisce, pensa
alla madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza certi ribollimenti,
che annunziano la vigoria di una forza ròsa, non doma. Alfieri a venti
anni si sfogava correndo Europa, Foscolo si sfogava verseggiando. Le
sue effusioni liriche sono la sua storia da' sedici a' venti anni. Ricomparisce
in quei versi una intimità dolce e malinconica, di cui l'Italia avea
perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra
materna, dal suo sentire greco, dalle «corde eolie maritate alla grave
itala cetra». Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra: a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
L'esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della
repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita
militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini
e All 'amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove
l'anima guarita e gioiosa si espande nella varietà della vita. La sua
fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma
di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione
peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade, emulo di Monti;
scrive un'orazione pei comizi di Lione, con pomposo artificio di stile
e con gravità e arditezza d'idee.
I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto
a' sommi. Fu chiamato per antonomasia «l'autore de' Sepolcri».
E in verità, questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura,
l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva l'uguaglianza de' sepolcri, l'uguaglianza
degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio
de' nobili e de' ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione
delle classi, anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa
comune accanto al ladro, - pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria
spinta fino agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita,
lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall'uomo.
Nè gli entrava quel trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in
sè offeso il poeta e l'uomo. Mancava l'idea religiosa che abbellisce
la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell'obblio. Ma
vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e ne' suoi fini, collegata
con la famiglia, con la patria, con la libertà, con la gloria Di là
cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de' sepolcri: il sublime
di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti
più delicati dell'umanità in un pantheon vivente, perchè opera ancora
su' vivi, desta ricordanze e illusioni, accende a nobili fatti. Sono
illusioni, senza dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità, eterne quanto
essa, parte della sua storia. Il carme è una storia dell'umanità da
un punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti. Senti
un'ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili
inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano
e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro a Foscolo,
che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La storia
è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di forme e
di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del
nulla e dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore
d'uomo, il tutto in una forma solenne e quasi religiosa come di un inno
alla divinità.
La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua via.
Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione
religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde.
La Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo.
Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva
in nome della filosofia, della libertà, dell'economia pubblica. Qui
il tono è altro.
Non può credere il poeta all'immortalità dell'anima; pure vorrebbe crederci.
Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono
felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno
delle idee religiose, non in nome della verità, ma in nome dell'umanità
e della poesia. Senti già Châteaubriand.
Ma se «purtroppo» è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia
solo è immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo
sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di
lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio
delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà
de' defunti è la religione dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi
nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore
del premio e della pena: sia pure, anzi pur troppo è così: «vero è ben,
Pindemonte!». Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all'umanità? e
vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la
sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre
il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro
di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di fermata ne' sentimenti
umani, via a' sentimenti religiosi.
Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota,
il liber uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità, ne' delicati
sentimenti della sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra, il mondo
interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa
profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della
lirica italiana, il lamento di Cassandra, le impressioni di Maratona,
l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così elevato che lo spettacolo
d'Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato
e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di
filosofo, cuore d'uomo e ispirazione di poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca una corda
che vibrava in tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima.
Alla terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione
contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella
serietà del suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima:
bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa,
e non era già una tragedia o un poema, era una composizione lirica,
alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi cantabili e musicali della
metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente,
caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne.
Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche,
vien fuori spezzato in sè, con nuove tessiture e nuovi suoni, e non
è artificio, è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera
di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva
il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico
del mondo morale e religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte sfere
dell'umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell'uomo
interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l'uomo intero,
nella esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella
intimità de' suoi affetti privati, era l'aurora di un nuovo secolo.
Il carme preludeva all'inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
Entrato in questa via, mette mano ad altri carmi, l'Alceo, la
Sventura, l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione:
compone a freddo, letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge
a maturità. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di
artista, ma il poeta quasi non ci è più.
Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le
sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana,
voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica
e il brio francese. È una prosa personale, ancora in formazione, piena
di reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla maestà e alla
forza. Mostra più calore d'immaginazione che vigore d'intelletto.
Il concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato.
Foscolo ti dà la formola della nuova letteratura. La sua forza non è
al di fuori, ma al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo
mondo interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono
di nuova luce. Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio
tecnico, e s'interna nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria
è oltrepassato. Ci avviciniamo all'estetica. Non ci è ancora la scienza,
ma ce n'è il gusto e la tendenza.
E ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche
e storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola
di tutto il passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge
a Vico e Muratori.
Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso
umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico,
l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo
scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel
progresso vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa
e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo
si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme
mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando
avea già moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e s'era
fatto della vita un concetto più reale, e s'era spogliata gran parte
delle sue illusioni, quando stava già con l'un piè nel nuovo secolo;
calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue
contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida
le sue Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano.
Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte Pellico,
Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa era la scuola romantica l'audace
scuola boreale.
Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio
di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo
politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come
se ne veggono le orme anche ne' Sepolcri, e consacrata nel 18
brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la rivoluzione.
Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e cercando
nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale,
che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune
condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone.
Il «terrore bianco» successe al «rosso».
Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico.
I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo, e vi sorse contro
lo spiritualismo portato sino all'idealismo e al misticismo. Al dritto
di natura si oppose il dritto divino, alla sovranità popolare la legittimità,
a' dritti individuali lo Stato, alla libertà l'autorità o l'ordine.
Il medio evo ritornò a galla, glorificato come la culla dello spirito
moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt'i suoi indirizzi.
Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali, divenne
il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso
sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati «pagani»,
e le dottrine liberali furono qualificate senz'altro pretto paganesimo;
gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà, e
il papato potente fattore di libertà e di progresso. Mutarono i criteri
dell'arte. Ci fu un'arte pagana, e un'arte cristiana, di cui fu cercata
la più alta espressione nel gotico, nelle ombre, ne' misteri, nel vago
e nell'indefinito, in un di là che fu chiamato «l'ideale», in un'aspirazione
all'infinito, non capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia
fu battezzata, e detta qualità «cristiana», il sensualismo, il materialismo,
il plastico divenne il carattere dell'arte «pagana»: sorse il genere
cristiano «romantico» in opposizione al genere «classico». «Religione»,
«fede», «cristianesimo», «l'ideale», «l'infinito», lo «spirito», «il
trono e l'altare», «la pace e l'ordine» furono le prime parole del nuovo
secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva
Châteaubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E proprio nel
1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del giovane Manzoni. Storia,
letteratura, filosofia, critica, arte, giurisprudenza, medicina, tutto
prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava
minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era già fittizio e artificiale, sostenuto da penne
salariate, promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi
temporanei. Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne
leggi della storia, al quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e
liberi del nuovo secolo. Movimento esagerato senza dubbio ne' suoi inizi,
perchè mirava non solo a spiegare, ma a glorificare il passato, a cancellare
dalla storia i secoli, a proporre come modello il medio evo. Ma l'una
esagerazione chiamava l'altra. La dea Ragione e la comunione de' beni
avea per risposta l'apoteosi del carnefice e la legittimità dell'Inquisizione.
Ma l'esagerazione fu di corta durata, e la reazione fallì ne' suoi tentativi
di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sè infiniti
nuovi interessi venuti su con la Rivoluzione, interessi materiali, morali,
intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran
parte la monarchia, che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era
interesse de' principi restaurare le maestranze, le libertà municipali,
le classi privilegiate, tutte quelle forze collettive sparite nella
valanga rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere
assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l'assetto
economico-sociale consacrato da' nuovi codici, e la monarchia assoluta
uscì più forte dalla burrasca. Perchè il clero e la nobiltà, un giorno
suoi rivali, divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli
pomposi, e scomparse le forze collettive naturali, potè con facilità
riordinare la società sopra aggregazioni artificiali necessariamente
sottomesse alla volontà sovrana, burocrazia, esercito e clero. La burocrazia
interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava
alla caccia degl'impieghi, e centralizzando gli affari sopprimeva ogni
libertà e movimento locale, e teneva nella sua dipendenza provincie
e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato come cavallette,
ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di
cui era istrumento. L'esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione
dello Stato, fu ordinato a modo di casta, contrapposto ai cittadini,
evirato dall'ubbidienza passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme
che di soldato. Il clero, stretta l'alleanza fra il trono e l'altare,
si recò in mano l'educazione pubblica, vigilò scuole, libri, teatri,
accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne l'ignoranza nelle
moltitudini, trattò la coltura come sua nemica. Motrice della gran mole
era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative,
divenuto spia l'impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione
organizzata, chiamata «governo», o in forma assoluta, o in maschera
costituzionale.
Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte
le idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna,
di Napoli, di Torino, di Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano
la loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col
sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino
co' suoi dritti individuali, co' suoi princìpi d'eguaglianza, con la
sua «carta» dell'Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia
per vivere si trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise
il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti
tutti. Il terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l'Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali
si allargarono. Il censo e la capacità apersero la via a' più alti uffici,
rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al
feudalismo, alla manomorta, a' privilegi. La borghesia trovò largo pascolo
alla sua attività e alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli
comunali e provinciali, nella guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie,
nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono;
si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova
potenza venuta su. Non si diceva più «aristocrazia», si diceva «bancocrazia»,
alimentata dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza, vinceva e
dominava, forza di censo, d'ingegno e di lavoro. L'attività intellettuale,
stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica prosperità faceva miracoli.
All'ombra della pace e della libertà fiorivano le scienze e le lettere.
Anche dove gli ordini costituzionali non poterono vincere, come in Italia,
la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe una parte più larga
alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un modo di vivere meno incivile.
A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il
dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli
scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio;
e venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il
monarcato e il popolo, ma fra il papato e la libertà.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento che aveva aria di reazione,
era in fondo la stessa Rivoluzione, che ammaestrata dalla esperienza
moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi,
un ideale così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo contatto
col reale, tutto questo dovea fare una grande impressione sugli spiriti
e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle
moltitudini, assalito con una violenza, che tirava in suo favore anche
gl'indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore.
L'esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto,
e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l'opera de' secoli.
E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia
preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di Campanella che «le
lingue precedono le spade». Evidentemente la Rivoluzione aveva errato,
esagerato le sue idee e le sue forze, ed ora si rimetteva in via con
minor passione, ma con maggior senso del reale, confidando più nella
scienza che nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo
decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito
del secolo decimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava
nello stadio della riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva
le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtà, creava
la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla
coscienza di sè e prendeva il suo posto nella storia. Châteaubriand,
Lamartine, Victor Hugo Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali
non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch'essi
figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è sempre
la «carta» dell'Ottantanove, il «credo» è sempre «libertà, patria, uguaglianza,
dritti dell'uomo». Il sentimento religioso, troppo offeso si vendica,
offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione.
Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo
decimottavo. Ciò a cui mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma,
come fanno i puri reazionari, co' gesuiti in testa, ma è di conciliarlo
col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il
programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la vecchia
tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di
parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento
religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza
e la sua missione nella storia; ma d'altra parte il cristianesimo ha
bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio
e quelle idee, e odi parlare di una «democrazia cristiana» e di un «Cristo
democratico», a quel modo che i liberali trasferiscono a significato
politico parole scritturali, come l'«apostolato delle idee», il «martirio
patriottico», la «missione sociale», la «religione del dovere». La rivoluzione,
scettica e materialista, prende per sua bandiera: «Dio e popolo», e
la religione, dommatica e ascetica, si fa valere come poesia e come
morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s'impregna di umanismo
e di naturalismo, si avvicina alla scienza prende una forma filosofica.
Lo spirito nuovo raccoglie in sè gli elementi vecchi, ma trasformandoli,
assimilandoli a sè, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza
ancora più. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione
del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione.
E la sua forma politica è la monarchia per la grazia di Dio e per la
volontà del popolo.
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità,
rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come
un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e
dello spirito. Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale, dello
spirito e della natura, o, come disse Vico, la «conversione del vero
col certo». Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza
che era contrastata da Cartesio in qua, li allogava, li legittimava,
li spiritualizzava, dava a quelli un significato e uno scopo, creava
la filosofia della storia; d'altra parte realizzava il divino, togliendolo
alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale, e umanizzandolo.
Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione
ricisa col medio evo, e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una
reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo
decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario dovea condurre
a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto «romantico», in opposizione
al classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo,
come le vere fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e
poetico. Il Rinascimento fu chiamato «paganesimo», e quell'età che il
Rinascimento chiamava «barbarie», risorse cinta di nuova aureola. Parve
agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e
quei cavalieri vestiti di ferro e i tempi e le torri e i crociati. Le
forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso,
l'indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini, riempirono di
ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma.
Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui
storico era Carlo Troya, e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e
Gregorio settimo ebbero ragione contro Dante e Federico secondo. Cronisti
e trovatori furono disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente
le sue memorie, e vi s'internava, vi s'immedesimava, ricreava quelle
immagini e quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni,
vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo, la
legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero
le antichità nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore
e unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l'immaginazione,
animata dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto
sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il senso metafisico
e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e l'alta poesia. Lirica
e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
Ma il romanticismo, come il classicismo, erano forme sotto alle quali
si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo
erano moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico.
Invano cerchi il candore e la semplicità dello spirito religioso: è
un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale
ha lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono più le
passioni ardenti e astiose di quel secolo, ma ci sono le sue idee, la
tolleranza, la libertà, la fraternità umana, consacrata da una religione
di pace e di amore, purificata e restituita nella sua verginità, nella
purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione così fatta
già non è più reazione, è conciliazione, è la rivoluzione stessa vinta,
che non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l'ironia, l'ingiuria, e
trasformatasi in apostolato evangelico prende abito umile e supplichevole
dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo,
e la Bibbia diviene l'«ultima parola di un credente». Lo spirito non
rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma.
Oramai conscio di sè, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e
lo accompagna nella storia. La «divina Commedia» è capovolta: non è
l'umano che s'india, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce,
ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo
solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava alla nuova generazione
il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra il rumore
de' grandi avvenimenti, usciva in luce un libriccino, intitolato Inni,
al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co' Carmi;
Manzoni apriva il suo con gl'Inni. Il Natale, la Passione,
la Risurrezione, la Pentecoste erano le prime voci del
secolo decimonono. Natali, Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia
letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati.
Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e
i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i
templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato
il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore
del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo «concordato».
Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non
riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente.
Mira a trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo.
Non è più un «credo», è un motivo artistico. Diresti che innanzi al
giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si
attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini, se non
pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che sieno
belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la
sostanza dell'arte moderna, chiamata «romantica». La critica entrava
già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di «classico» e di
«romantico», di «plastico» e di «sentimentale» di «finito» e d'«infinito».
L'inno era poesia essenzialmente religiosa, la poesia dell'infinito
e del soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia e
per la forma. Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane classico.
Invano si arrampica tra le nubi del Sinai; non ci regge, ha bisogno
di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro,
plastico, determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche
e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perchè animate da immaginazione
fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno
delle idee religiose non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila,
e vi cerca e vi trova se stesso. Perchè la base ideale di quegl'Inni
è sostanzialmente democratica, è l'idea del secolo battezzata e consacrata
sotto il nome d'«idea cristiana», l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli
in Cristo la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli
oppressi; è la famosa triade, «libertà, uguaglianza, fratellanza», vangelizzata;
è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e penetrato dallo spirito
moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca
nelle sue visioni, semplice e commovente ne' suoi sentimenti, come di
un mondo ideale riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano
le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che
nel suo dolore pensò a tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria, nel cui seno
regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito,
che scende, aura consolatrice ne' languidi pensieri dell'infelice; ivi
è il regno della pace, che il mondo irride, ma che non può rapire; il
povero, sollevando le ciglia al cielo «che è suo», volge i lamenti in
giubilo, pensando a cui somiglia.
In questa ricostruzione di un mondo celeste accanto
a una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e sulle cupidigie
mondane, si sviluppa l'epica, quel veder le cose umane dal di sopra
con l'occhio dell'altro mondo. Questa novità di contenuto, di forma
e di sentimento rende altamente originale il Cinque maggio, composizione
epica in forme liriche. L'individuo, grande ch'ei sia, non è che un'«orma
del Creatore», un istrumento «fatale». La gloria terrena, posto pure
che sia vera gloria, non è in cielo che «silenzio e tenebre». Sul mondano
rumore sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna
e consola. La sua mano toglie l'uomo alla disperazione, e lo avvia pe'
floridi sentieri della speranza. Risorge il «Deus ex machina»,
il concetto biblico dell'uomo e dell'umanità. La storia è la volontà
imperscrutabile di Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero
o il miracolo, «chinar la fronte». Meno comprendiamo gli avvenimenti,
e più siamo percossi di maraviglia, più sentiamo Dio, l'incomprensibile.
La storia anche di ieri si muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone
è un gran miracolo, un'orma più vasta di Dio. A che fine? Per quale
missione? L'ignoriamo. È il secreto di Dio. Così volle. Rimane della
storia la parte popolare o leggendaria, quella che più colpisce le immaginazioni;
le battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi
catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall'altezza
e moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del genio, dallo sviluppo
di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe, di cui
ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo mondo,
e te ne viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa
la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo
e rapido dell'ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde
gli avvenimenti, ti dà l'illusione dell'infinito. Le proporzioni sono
ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva nella maggior chiarezza
e semplicità dell'espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti,
le forme tra quella vastità di orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano
audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande
uomo nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua azione storica,
ne' suoi effetti su' contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa
sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati
e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi,
appena frenati dalle rime.
Questo è il primo movimento, epico-lirico, del secolo decimonono. Al
macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero
macchinismo, semplice colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo
nell'immaginazione che ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità
e il cuore dell'uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di
noi. Ritorna la provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella
storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce,
si apre a sentimenti miti: su' disinganni e sulle discordie mondane
spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo, disegnò
Manzoni con un entusiasmo giovanile, riflesso di quell'entusiasmo religioso,
che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione
cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era novella di pace e riposo.
La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni, e mentre il vecchio
Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori
antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso cristiano
e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e resta
il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e restano le sue
idee. Mutata è la cornice, il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque
maggio. La cornice è una illuminazione artistica, una bell'opera
d'immaginazione, da cui non esce alcuna seria impressione religiosa.
Il quadro è la storia di un genio rifatta dal genio. L'interesse non
è nella cornice è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio
è l'assoluto, l'idea; Cristo è l'idea in quanto è realizzata, l'idea
naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole il Verbo;
la trinità teologica diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio
teologico è l'essere nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e
formale, vuoto di contenuto. Dio nella sua verità è lo spirito che riconosce
se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i tre momenti
della sua esistenza, la sua storia, una storia dove niente è incomprensibile
e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato, dovea essere.
La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i colpi di Stato
non sono fatti arbitrari, sono fenomeni necessari dello spirito nella
sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia
del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a
priori. Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni
dello spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si ripete, niente
muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi
dell'idea, una coscienza sempre più chiara di sè, una maggiore realtà.
In queste idee codificate da Hegel ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella,
soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi, che egli
traeva da' fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura
stessa dello spirito. Nasce un'appendice della Scienza nuova,
la sua metafisica sotto nome di «logica», compariscono vere teogonie,
o epopee filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la filosofia delle
religioni, la storia della filosofia, la filosofia dell'arte, la filosofia
del dritto, la filosofia della storia, illuminate dall'astro maggiore,
la logica, o, come dice Vico, la «metafisica». Tutto il contenuto scientifico
è rinnovato. E non solo nell'ordine morale, ma nell'ordine fisico. Hai
una filosofia della natura, come una filosofia dello spirito. Anzi non
sono che una sola e medesima filosofia, momenti dell'Idea nella sua
manifestazione.
Il misticismo, fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato
dal sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema
piace alla colta borghesia, perchè da una parte, rigettando il misticismo,
prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il
materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee
di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile, fondato
sullo sviluppo pacifico della coltura: alla parola «rivoluzione» succede
la parola «evoluzione». Non si dice più «libertà», si dice «civiltà»,
«progresso», «coltura». Sembra trovato oramai il punto, ove s'accordano
autorità e libertà, Stato e individuo, religione e filosofia, passato
e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le nazioni. E il
sistema diviene ufficiale sotto nome di «ecletismo». La rivoluzione
gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto il
vessillo tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme
costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo,
e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro
di Europa e divennero il «credo» delle classi colte. La parte liberale
si costituì come un centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria,
che essa chiamava i «partiti estremi». Luigi Filippo realizzò questo
ideale della borghesia, e l'ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga
gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il bandolo era
trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione
e alla rivoluzione. Regnava il progresso pacifico e legale, governava
la borghesia sotto nome di «partito liberale-moderato». Teneva in iscacco
la dritta, perchè, se combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava
il cristianesimo, divenuto nel nuovo sistema l'idea rifiessa e consapevole,
lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma
lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino, ma alzava
alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione,
e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i cristiani
liberali e patrioti, e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco
la sinistra rivoluzionaria, perchè se respingeva i suoi metodi, se condannava
le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee,
confidando più nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione e dell'educazione,
che nella forza brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto aspetto
di conciliazione si rendeva accettabile a' più, e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le
vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch'ella gridò «libertà»
nel secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità,
acquistò una certa indipendenza di giudizio, illuminata ne' migliori
dal buon senso e dal buon gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo
si volse alla forza produttiva, cercando i motivi e il significato della
composizione nelle qualità dello scrittore; l'arte ebbe il suo «cogito»
e trovò la sua formola nel motto: «Lo stile è l'uomo». Ma era una critica
d'impressioni più che di giudizi, di osservazioni più che di princìpi.
Con la nuova filosofia il bello prese posto accanto al vero e al buono,
acquistò una base scientifica nella logica, divenne una manifestazione
dell'idea, come la religione, il dritto, la storia: avemmo una filosofia
dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso ideale della umanità, l'arte
entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni
dello spirito, e prese dalla qualità dell'idea la sua essenza e il suo
carattere. Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto:
le qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea «orientale»,
l'idea «pagana» o «classica», l'idea «cristiana» o «romantica» nella
religione, nella filosofia, nello Stato, nell'arte, in tutte le forme
dell'attività sociale, uno sviluppo storico a priori, secondo
la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell'idea divenne un
antecedente obbligato di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo
dello scibile; e il problema fondamentale dell'arte fu cercare l'idea
in ogni lavoro dell'immaginazione, e misurarlo secondo quella. Rivenne
su il concetto cristiano-platonico dell'arte, espresso da Dante, ristaurato
dal Tasso. La poesia fu il vero «sotto il velo della favola ascoso»,
o il «vero condito in molli versi». Divenuta la favola un velo dell'idea,
ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni
artistiche si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina Commedia,
materia d'infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust.
Venne in moda un certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori,
anche presso Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne
il frontispizio obbligato della critica, trattandosi di coglier l'idea
non nella sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni
storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni,
su' costumi, sulle tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere
d'arte, sulla formazione successiva della materia artistica; al motto
antico: «Lo stile è l'uomo», successe quest'altro: «La letteratura è
l'espressione della società». Ne uscì un doppio impulso: sintetico e
analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria
di fatti, ma la manifestazione progressiva e razionale dell'idea, una
dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla sintesi, e costruirono
vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo
fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio metafisico,
e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie, istituzioni politiche,
leggi, la vita intellettuale, morale e materiale de' popoli. Questo
fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore
dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo
morale. Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate
de' problemi più delicati urtavano alcuna volta co' dati positivi della
storia e delle singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune,
i raccozzamenti disparati, le interpretazioni forzate, gli artifici
involontari. Accanto a quelle vaste costruzioni ideali sorse la paziente
analisi; il metodo di Vico parve più lungo e più arduo, ma più sicuro,
e si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo spirito
nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello scibile. Il movimento
di erudizione e d'investigazione, interrotto in Italia dalla invasione
delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo decimottavo,
tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo disdegno di citazioni,
di esempli, di ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della scolastica,
ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime in
Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava
lo spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo
delle scienze, e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto
nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche.
La materia della coltura, stata prima poco più che greco-romana, guadagnò
di estensione e di profondità. Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il
Rinascimento. È con tale attività di ricerca e di scoperta, che lo scibile
ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una ideale, l'altra storica.
Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri
per via di osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola
ontologica teneva molto conto dei fatti, e proclamava che il vero ideale
è storia, è l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della
storia nel regno de' princìpi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica
non è altro che un progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola
storica era tutt'altro che empirica, ed usciva dalla cerchia de' fatti,
ed aveva anch'essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più audace
speculazione si maritava con la più paziente investigazione. Le due
forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva, posero in
moto tutte le facoltà dello spirito, e produssero miracoli nelle teorie
e nelle applicazioni. Al secolo de' lumi succedette il secolo del progresso.
Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con
fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi italiani
i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la
sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate
tutte le forze del secolo: la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione.
Di là partiva quell'alta imparzialità di filosofo e di storico, quella
giustizia distributiva ne' giudizi, che fu la virtù del secolo. Passato
e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso
fatale della storia. E contro al fato non val collera, non giova dar
di cozzo. Il dommatismo con la sua infallibilità e lo scetticismo con
la sua ironia cessero il posto alla critica, quella vista superiore
dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non
si adira contro se stesso.
La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia
diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera d'arte non
è considerata più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno
nell'immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un prodotto più
o meno inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua
esistenza. L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze
collettive, il cui complesso costituisce l'individualità di una società
o di un secolo. L'idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno
a sè, nella società dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione
e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea, salvo che
di quella è in lui più sviluppata l'intelligenza e il sentimento. La
sua forza è di unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale dello
scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto
non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le
sue ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista, mutati i
criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica
e convenzionale, e l'uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali
tutti di un pezzo, ch'erano decorati col nome di «classici», furono
giudicati una contraffazione dell'ideale, l'idea nella sua vuota astrazione,
non nelle sue condizioni storiche, non nella varietà della sua esistenza.
Cadde la rettorica con le sue vuote forme, cadde la poetica con le sue
regole meccaniche e arbitrarie, rivenne su il vecchio motto di Goldoni:
«Ritrarre dal vero, non guastar la natura.» Il più vivo sentimento dell'ideale
si accompagnò con la più paziente sollecitudine della verità storica.
L'epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma. E nella lirica
brillarono in nuovi metri le ballate, le romanze, le fantasie e gl'inni.
La naturalezza, la semplicità, la forza, la profondità, l'affetto furono
qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza, come quelle
che sono intimamente connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon,
Ariosto, reputati i più lontani dal classicismo, divennero gli astri
maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici
o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito
all'elegante storico, e il canto popolare alla poesia solenne. Il contenuto
nella sua nativa integrità valse più che ogni artificiosa trasformazione
di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi
fantastici e poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l'imitazione
classica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa, imitò
il linguaggio parlato e le forme popolari.
«Tutto questo fu detto «romanticismo», «letteratura
de' popoli moderni». La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva
un ritorno del medio evo e delle idee religiose, una condanna dell'aborrito
Rinascimento, soprattutto del più aborrito secolo decimottavo. I liberali,
non potendo pigliarsela co' governi, se la pigliavano con Aristotele
e co' classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in letteratura
rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era così vasto e vi
si mescolavano idee e tendenze così diverse, che ciascuno potea vederlo
con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I governi lasciavan
fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti
dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della
servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua,
diverbii letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta
e il Sermone all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti
che succedevano alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi
e lassisti, di classici e romantici. Il giornalismo, mancata la materia
politica, vi cercò il suo alimento. Il centro più vivace di quei moti
letterari era sempre Milano, dove erano più vicini e più potenti gl'influssi
francesi e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo.
E là s'inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono.
Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si
chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet e gli ospiti di casa Manzoni,
Tommaso Grossi e Massimo d'Azeglio, divenuto sposo di Giulia Manzoni,
e anello fra la Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso
giro d'idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione
s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d'Italia,
Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani. Dirimpetto
a Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e di cuore; e
mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della Costituzione,
il giovane Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle
idee. Spuntavano Camillo Ugoni, Felice Bellotti, Andrea Maffei,
il traduttore di Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi
i critici, dilettanti pure di poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti,
Giovanni De Cristoforis, Samuele Biava. Nelle stesse file militavano
Carlo Porta, Niccolò Tommaseo, i fratelli Cesare e Ignazio Cantù, e
Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano così alto la voce nel Conciliatore?
Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione, s'inchinavano
appena al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto
inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unità,
e delle regole si curavano poco, e non curvavano il capo che innanzi
alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla
letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità.
I classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione,
erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Nè parea ragionevole
che Aristotele, detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere
sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca
italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi si
mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti.
E dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese,
si venne in tale confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa
era il romanticismo, e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo.
Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze
classiche, e altri che Manzoni con pretensioni romantiche era in verità
un classico. Si cominciò a vedere chiaro, quando fu posta da parte la
parola «romanticismo», materia del litigio, e si badò alla qualità della
merce e non al suo nome. Al romanticismo, importazione tedesca, si sostituì
a poco a poco un altro nome, letteratura nazionale e moderna. E su questo
convennero tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia
legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli Schlegel
e da' Tieck, in quella forma esagerata che prese in Francia, capo Victor
Hugo. Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il medio evo. Rifiutavano
la mitologia classica, e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano
la libertà dell'arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano
il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi sostituivano il
gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio
e il convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie
e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico
idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l'altra. Ciò che
era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano,
grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza
di concepire e di sentire. Il romanticismo in questa sua esagerazione
tedesca e francese non attecchì in Italia, e giunse appena a scalfire
la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare
la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti, quando
poterono gittar via quel nome d'imprestito, fonte di tanti equivoci
e litigi, e prendere un nome accettato da tutti. Anche in Germania il
romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della filosofia,
e, spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario,
riuscì sotto nome di «letteratura moderna» nell'ecletismo, nella conciliazione
di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i princìpi superiori
dell'estetica, o della filosofia dell'arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si affermava
come distinto, anzi in contraddizione col secolo scorso, e movea guerra
ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu
di non accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma
la conseguenza di quel secolo appunto, contro il quale armeggiava. In
Germania l'idea romantica sorse in opposizione all'imitazione francese
così alla moda sotto il gran Federico. Era una esagerazione, ma in quell'esagerazione
si costituivano le prime basi di una letteratura nazionale, dalla quale
uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller
fu contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea romantica s'affacciò in Italia,
già in Germania era scaduta, trasformatasi in un concetto dell'arte
filosofico e universale. Goethe era già alla sua terza maniera, a quel
suo spiritualismo panteistico, che produceva il Faust. Il romanticismo
veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi dell'eghelismo. parve
a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva già oltrepassato
e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto strombazzata, non
cominciava, ma continuava. Essa era cominciata nel secolo scorso. Era
appunto la nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo
stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca.
La differenza era questa, che la Germania reagiva contro l'imitazione
francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove
l'Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua solitudine
e la sua stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della
coltura europea, e vi prendea il suo posto, cacciando via da sè una
parte di sè, il seicentismo, l'Arcadia e l'accademia; la Germania al
contrario iniziava la sua riforma intellettuale, rimovendo da sè la
coltura francese, e riannodandosi alle sue tradizioni. L'influenza francese
non fu che una breve deviazione nel movimento di continuità della vita
tedesca, movimento fortificato nella lotta d'indipendenza, e che portò
quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua
autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la
riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con
progresso rapido, con intima consonanza in tutt'i rami dello scibile,
non ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea. Esclusiva ed
esagerata nel principio sotto nome di «romanticismo», la sua coltura
in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti, e conciliò tutti gli elementi
della storia in una vasta unità, della quale rimane monumento colossale
la Divina Commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi
tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le
forme, si danno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane,
sottoposte alle stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola
idea, già inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall'occhio ironico
della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che
fu detto lo «scetticismo» di Goethe, ed era la serenità olimpica di
una intelligenza superiore, la tolleranza di tutte le differenze riconciliate
e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell'arte. Così
il misticismo romantico si trasformava nell'idealismo panteistico, l'idea
cristiana nell'idea filosofica, il Cristo del Vangelo nel Cristo di
Strauss, la teologia s'inabissava nella filosofia, il domma e il dubbio
si fondevano nella critica, e il famoso «cogito» trovava il suo
punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sè, come spirito del
mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale
ecletismo francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le
sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione
all'Impero, e dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël.
Di là gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla storia di
quella letteratura. Strinse relazioni con uomini illustri delle due
grandi nazioni; Cousin lo chiamava il suo «amico», Fauriel e Goethe
mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte si allargò, vide nuovi
mondi, e reagì contro la sua educazione letteraria, contro le sue adorazioni
giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il regno d'Italia,
le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani, e Manzoni divenne il
capo della scuola romantica. Così, mentre la Germania, percorso il ciclo
filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno all'applicazione
in tutte le sue scienze sociali o naturali, in Italia si disputava ancora
de' princìpi. Naturalmente, nè Manzoni nè altri poteva assimilarsi tutto
il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano che nella
sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller, Goethe, Herder,
Kant, Fichte, Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi
e letterati, e di quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi e
giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori francesi.
Rimasero essi dunque nella loro spontaneità, ponendo le quistioni come
le si ponevano in Italia, con argomenti e metodi propri; e ne uscì un
romanticismo locale, puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere,
accomodato allo stato della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto
in freno dalle tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo
così fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura sorta col
Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi colori prettamente italiano.
In effetti, i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col
movimento iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta
continuata con tanto furore e con tanta confusione finì nella piena
indifferenza del popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due
schiere. Volevano i romantici che l'Italia lasciasse i temi classici?
E già n'era venuto il fastidio, e avevi l'Ossian, il Saul,
la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che
i personaggi fossero presi dal vero? E che le forme fossero semplici
e naturali? Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano
la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri
e Foscolo, e appunto la risurrezione del contenuto, la ristorazione
della coscienza era il carattere della nuova letteratura. Cosa erano
le tre unità e la mitologia, pomo della discordia, se non quistioni
accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto
e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne' Sepolcri di
Foscolo e d'Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per
il suo nome, per le sue relazioni, pe' suoi studi, e per le sue impressioni
si legava a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo
scuola italiana per il suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme,
i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato, che dopo
le grandi illusioni e i grandi disinganni ritornava a' suoi princìpi,
alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini. Erano di quella
scuola più i romantici, i quali avevano aria di combatterla, che i classici,
suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità
si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico
di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente declinando sotto il
regno d'Italia, e non avendo più novità di contenuto, si girava in se
stessa, divenuta sotto nome di «purismo» un gioco di frasi, intenta
alla purità del Trecento e all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano
in voga i grammatici, i linguisti e i retori; ripullulava sotto altro
nome l'Arcadia e l'accademia. Così fu possibile la Storia americana
di Carlo Botta, uscita a Parigi quando appunto uscirono gl'Inni;
e fu tal cosa che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati
e domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che, insorgendo
contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi
veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono
la sua vernice classica e mitologica, l'accostarono a forme semplici,
naturali, popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e
convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie
abitudini letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli
sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di reazione, essi
erano la stessa rivoluzione, che moderandosi e disciplinandosi ripigliava
le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; così,
sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni
e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava
una coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando gl'ideali
rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.
Questo sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo
italiano. Non era più il popolo accademico, che batteva le mani in teatro
alla Virginia e all'Aristodemo e applaudiva all'Italia
ne' sonetti e nelle canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme,
nelle sue illusioni, nelle sue promesse, ne' suoi disinganni, nelle
sue esagerazioni. Il regno d'Italia, la spedizione di Murat, le promesse
degli alleati, la lotta d'indipendenza della Spagna e della Germania,
l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale:
l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio,
a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti
cospiravano nelle società secrete, contro le quali si ordinavano anche
secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo
era, che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando
una coscienza politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica
e la declamazione non avea più presa sugli animi. La grandezza degli
ostacoli rendea modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni
alla misura dello scopo e alla convenienza de' mezzi. La libertà trovava
il suo limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale
nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova
parola venne su: non si disse più rivoluzione, si disse «progresso».
E fu il maestoso cammino dell'idea nello spazio e nel tempo verso un
miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il progresso
divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare,
perchè cacciava quella maledetta parola che era la «rivoluzione», e
significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente
mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava
compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava
con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera
e rassegnazione. Oltre a ciò, «libertà», «rivoluzione» indicavano scopi
immediati e non tollerabili ai governi, dove progresso nel suo senso
vago abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a' principi di acquistarsi
lode a buon mercato, promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali,
che parevano innocui, com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a
gas, i telegrafi, la libertà del commercio, gli asili d'infanzia, i
congressi scientifici, i comizi agrarii. A poco a poco i liberali tornarono
là ond'erano partiti, e non potendo vincere i governi, li lusingarono,
sperarono riforme di principi, anche del papa, rifacevano i tempi di
Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po' quell'arcadia.
Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all'Idea,
dovea condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo
facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo
in una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva
la Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del Trentuno,
i vari tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento
delle nazioni liberali, la potenza riputata insuperabile dell'Austria,
la forza e la severità de' governi, le fila spesso riannodate e spesso
rotte, disponevano gli animi ad uno studio più attento de' mezzi, li
piegavano a' compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano
impopolare la dottrina del «tutto o niente». Lo stesso Mazzini, ch'era
all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell'accento
di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia
e nelle lettere, e che lo chiariva uomo del secolo, e mostravasi anche
lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione,
e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così, rammorbidite le passioni,
confidenti nel progresso naturale delle cose, e persuasi che anche sotto
i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione,
i più smessero l'azione diretta e si diedero agli studi: fiorirono le
scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del
canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e
Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e
italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto.
In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l'Adelchi
e i Promessi sposi, la Pia del Sestini; la Fuggitiva,
l'Ildegonda, i Crociati e il Marco Visconti del
Grossi, la Francesca da Rimini del Pellico, la Margherita
Pusterla del Cantù, l'Ettore Fieramosca e più tardi il Niccolò
de' Lapi di Massimo d'Azeglio. Ultime venivano con più solenne impressione
le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico, un
romanticismo italiano, che facea vibrare le corde più soavi dell'uomo
e del patriota, con quella misura, con quell'ideale internato nella
storia, con quella storia fremente d'intenzioni patriottiche, con quella
intimità malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi nella
maggiore semplicità de' motivi, che rivelava uno spirito venuto a maturità
e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte più crude e con intenzioni
più ardite comparivano l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di
Firenze.
Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni:
le minime allusioni, le più lontane somiglianze erano còlte a volo da
un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette
la serietà del suo contenuto; la parola stessa usciva di moda. Il medio
evo non fu più materia trattata con intenzioni storiche e positive.
Fu l'involucro de' nostri ideali, l'espressione abbastanza trasparente
delle nostre speranze. Si sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero
il pensiero o il sentimento pubblico, come era la Lega lombarda, trasformata
in lotta italiana contro la Germania. Massimo d'Azeglio, che segna il
passaggio dalla maniera principalmente artistica de' romantici ad una
rappresentazione più svelatamente politica, volgeva in mente un terzo
romanzo, che dovea avere per materia la Lega lombarda. Il pittore arieggiava
allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta,
il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana,
la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo
era del misticismo. L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni
e il Cinque maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro,
fu l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo,
filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze, alle arti, gl'inni
di guerra. Rimasero madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo
modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine
poetiche, estranee all'intimo spirito della composizione, o puramente
arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico,
è ne' versi del Berchet. E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto
lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell'Esule
di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente
il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre
del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della
patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in una
lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò
al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un'Italia,
dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità
e virilità dell'espressione. Si era trovata una specie di modus vivendi,
come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli.
I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di
parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della
civiltà: gli avversari erano detti «oscurantisti». I principi facevano
bocca da ridere; promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando
II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a' ministeri uomini colti,
e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento
degli studi. Che si voleva più? I liberali, con quel senso squisito
dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio, inneggiavano
a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a' gesuiti.
Fu allora che apparve in Italia un'opera stranissima, il Primato
di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande
apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava
il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane
alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore della
religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente
all'autocrazia dell'ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione
sostituita al divenire egheliano rimetteva le gambe al soprannaturale
e alla rivelazione, tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso
o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio
evo. Era la conciliazione politica sublimata a filosofia, era la filosofia
costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito
dalla sua tomba. L'impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse alfine
una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni,
il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati a' popoli, Il
misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia,
un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non
religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma
religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto
in piede dall'equivoco, e crollato al primo urto de' fatti. Questa era
la faccia della società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i
più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire:
i liberali biascicavano «paternostri», e i gesuiti biascicavano «progresso
e riforme». La situazione in fondo era comica, e il poeta che seppe
coglierne tutt'i segreti fu Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa
produzione di tre secoli, non aveva più in mano l'indirizzo letterario
d'Italia. Si era addormentata col riso del Berni sul labbro. La Crusca
l'aveva inventariata e imbalsamata. Resistè più che potè nel suo sonno,
respingendo da sè gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì
il bisogno di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e
brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri
si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo l'andavano
pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione più naturale:
cercarla colà dove era parlata, cercarla in Toscana. La rivoluzione
avea ravvicinati gl'italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni.
Firenze, la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno
vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d'Italia.
Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello
di Milano. Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli di Pistoia raccattando
voci e proverbi della lingua viva. Gl'italiani si studiavano di comparire
toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi
lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove
l'elemento locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la sua
forza con la coscienza della sua vitalità. Firenze riacquistava il suo
posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava
un contemporaneo di Lorenzo de' Medici che gittasse una occhiata ironica
sulla società quale l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze
politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale,
sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella»,
gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non privo di tristezza.
Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza
che dava l'ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria.
Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di contentare e conciliare
gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio
dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta
quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni
ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica
del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo
inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno
di Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo. La metafisica in
lotta con la teologia si era esaurita in questo tentativo di conciliazione.
La moltiplicità de' sistemi avea tolto credito alla stessa scienza.
Sorgeva un nuovo scetticismo che non colpiva più solo la religione o
il soprannaturale, colpiva la stessa ragione. La metafisica era tenuta
come una succursale della teologia. L'idea sembrava un sostituto della
provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell'umanità,
del dritto avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso
o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria.
L'abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto
all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L'ecletismo
pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L'apoteosi del
successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze.
Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come
temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della
scienza, una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava
la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la
fede nella stessa filosofia. Ricompariva ii mistero. Il filosofo sapeva
quanto il pastore. Di questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella
solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il suo scetticismo annunzia
la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il
regno dell'arido vero, del reale. I suoi Canti sono le più profonde
e occulte voci di quella transizione laboriosa che si chiamava «secolo
decimonono». Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che ha
importanza, non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso,
e non senza ironia vi si parla delle «sorti progressive» dell'umanità.
Ciò che ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno,
virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza
e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur
gli scaldano il cuore, e non vogliono morire. Il mistero distrugge il
suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa
vita tenace di un mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico
e metafisico, è l'originalità di Leopardi, e dà al suo scetticismo una
impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un quarto d'ora quello
in cui vibra un così energico sentimento del mondo morale. Ciascuno
sente lì dentro una nuova formazione.
L'istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta
nel seno stesso dell'ecletismo. Il secolo sorto con tendenze ontologiche
e ideali avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione:
l'idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale
si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra,
cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi
dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro
paziente dell'analisi. Ritorna a splendere sull'orizzonte intellettuale
Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione, arrestata e sistemata
in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all'Ottantanove,
tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell'ordine politico,
il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è più solo «libertà»,
ma «giustizia», la parte fatta a tutti gli elementi reali dell'esistenza,
la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura si va
anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi.
Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c'è più nè bello,
nè brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito. L'idea
non si stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca
dalla forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell'idealismo
comparisce il realismo nella scienza, nell'arte, nella storia. È un'ultima
eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici.
La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore,
emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea
universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come
critica, intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama
oggi ed è la «letteratura moderna».
L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza
e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d'idee e di sentimenti
troppo uniforme e generale, subordinato a' suoi fini politici, assiste
ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico,
che ha dato quello che le potea dare. L'ontologia con le sue brillanti
sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente
esaurita, ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia e arcadia
è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo
ecletismo dottrinario. Vedete il Prati in Satana e le Grazie
e nell'Armando. Vedete la Storia universale di Cesare
Cantù. Erede dell'ontologia è la critica, nata con essa, non ancor libera
di elementi fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede
in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre
e a dimostrare che a investigare. La paziente e modesta monografia prende
il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I sistemi sono sospetti,
le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più inconcussi sono
messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non esca da una serie
di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire
una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante
lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti
più allo stato reale dello spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi.
Diresti che proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia sformato
il mondo intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione,
se non si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte.
Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni,
si affacciano le altre.
L'Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la
sfera della libertà e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e
una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno
a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera
dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore. L'ipocrisia religiosa,
la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i
lunghi ozi, le reminiscenze d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli,
gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata
una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento,
ogn'intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare
se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro,
guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli.
In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito
italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà
le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione,
la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria, la
scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che
gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il
suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali
e diretti in tutt'i rami dello scibile, guidati da una critica libera
da preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale,
pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne' nostri
costumi, nelle nostre idee, ne' nostri pregiudizi, nelle nostre qualità
buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo,
assimilandocelo e trasformandolo, «esplorare il proprio petto» secondo
il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica
alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso
di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico, ci
manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti
non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la
lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il
romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà
di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui.
Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede
la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono
è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia
di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il
nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a'
secondi posti.
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