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STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
di Francesco De Sanctis
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Orlandino o le geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la prima deca «autentica» di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:

Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto Girolamo, era, come vedete, uno di quegli uomini che si chiamano «scapestrati», e fin dal principio perdono l'orizzonte, e fanno una vita «sbagliata». Messosi fuori di ogni regola e convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare. Trattò la società come nemica, e le sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di bile. Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda; egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito, in lui fu l'obbiettivo, lo scopo. E a questa intenzione furono armi una fantasia originale, una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico. La sua prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l'Orlandino o le geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la prima deca «autentica» di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:

Apocrife son tutte e le riprovo,
come nemiche d'ogni veritate;
Boiardo, l'Ariosto, Pulci, e il Cieco
autenticati sono ed io con seco.

Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a vivere, finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori vi trovavano

oscuri sensi ed affettate rime.

- Ma che colpa ci ho io? - Soggiunge Merlino:

Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
non tutti son Boiardi ed altri eletti,
li cui sonori accenti fur composti
dell'alma Clio negli ederati tetti,
tetti si larghi a lor, a noi sì angosti,
e rari son pur troppo gli entro accetti!

Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura, e lo chiamavano per istrazio il «grammatico»,

che tanto è a dire quanto un puro asino;

e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani, che accusavano lui di lombardismi e latinismi:

Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo
e più sboccato assai di un bergamasco;
grosso nel profferir, nel scriver tardo,
però dal Tosco facilmente io casco.

Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane senza gusto e armonia, uno stile stecchito, asciutto, lordo e plebeo, spiegano la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con pitture satiriche de' chierici, «qui praedicant ieiunium ventre pleno». Vi penetrano alcune idee della Riforma, come nella preghiera di Berta, non a' santi, dic'ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie a spese de' frati o «incappucciati», con bile e stizza di frate sfratato. Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma da scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad esempio il ritratto di Griffarrosto, allusione al priore del suo convento, ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e gli attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de' tornei cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl'istrumenti.
Riuscitogli male l'italiano, tentò un poema in latino, e smise subito. In ultimo trovò il suo istrumento, una lingua senza grammatiche e senza dizionari, e di cui nessuno aveva a chiedergli conto, una lingua tutta sua, trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo orecchio e della sua immaginazione, dico la lingua maccaronica.
Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffusa. Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi sonori più che il Berni o l'Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l'italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d'Italia il latino aveva ancora la preminenza. In quella dissoluzione generale di credenze, d'idee, di forme, la buffoneria penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una terza lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia, dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque il pedantesco, un latino italianizzato, e il maccaronico, un italiano latinizzato, con mal definiti confini, sì che talora il pedantesco entra nel maccaronico e il maccaronico nel pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati, quando nel 1521, cinque anni dopo l'Orlando furioso, uscì in luce la Maccaronea di Merlin Cocaio, e fece tale impressione, che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.
La Maccaronea nel principio è l'Orlandino, mutati i nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e fugge con lei in Italia, accolti ospitalmente da un contadino di Cipada, patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina, cercando avventure, ed ella muore, dopo di aver partorito Baldo. Fin qui l'Orlandino e la Maccaronea vanno insieme; ma qui l'Orlandino finisce subito, e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea. Baldo, come Orlandino, ha molta forza e coraggio, e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi compagni, tra' quali Fracasso, che ricorda Morgante, da cui discende, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi nomi si celino gl'irrequieti studenti di Bologna, capitanati da quel Francesco mantovano, che sarebbe Baldo. Fatto è che, date e ricevute molte busse, Baldo è messo in prigione. Cingar, vestito da frate, lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari, estermina le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del Nilo, scende nell'inferno. Giunto co' suoi in quella parte dell'inferno, dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.
Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino, come di tutt'i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce n'è troppe; e fra tanti intrighi l'autore pare talora intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt'insieme è originalissimo. Cominciamo con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada, con l'immaginazione errante fra Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l'Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente. Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l'ironia. La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione comica e buffonesca, come le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci è la parodia.
Baldo è l'ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che comincia con Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo. La sua missione è di purgare la terra da' mostri, dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è l'istrumento divino contro Lucifero. Baldo vince i corsari, atterra i mostri, uccide le streghe e debella l'inferno. Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così romoroso, con un accento epico così caricato, che si ride di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar, e degli altri cavalieri.
Ma in quest'allegra parodia penetra un'intenzione ancora più profonda, la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de' costumi, delle forme religiose e sociali. Il medio evo ne' suoi diversi aspetti è in fuga, frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico. Perchè infine i mostri, le streghe e l'inferno non sono altro che forme religiose e sociali, i vizi, le lascivie e i pregiudizi popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di coscienza e di fede, la cavalleria, che in nome della giustizia e della virtù debella l'inferno, è essa medesima una parodia e l'impressione ultima è una risata sopra tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci è; Leonardo che muore, per mantenere intatta la sua verginità, è una bella immagine allegorica perduta fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze, nella sua forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana còlta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.
La lingua stessa è una parodia del latino e dell'italiano, che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro, così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in se stessa comica, perchè quel grave latino epico, che intoppa tutt'a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata, e talora tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt'i segreti e la maneggia con un'audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia, che par l'abbia già bella e formata nell'orecchio. Come saggio, cito alcuni brani della sua invocazione alla musa maccaronica:

Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem...

Non mihi Melpomene, mihi non menchiona  Thalia,
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent...

Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam.

Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:

Credite quod giuro, neque solam dire bosiam
possem per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lacum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates...
Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri,
in quibus ad nubesfumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant grataloribus usque foratis.

E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi «stilisti» sono il Boccaccio, il Poliziano, l'Ariosto. Costoro narrando fanno quadri, ciò che costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose, i suoi colori non sono concetti o immagini, sono fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo. La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose, ma scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di colori. I fatti più assurdi e fantastici sono narrati co' più precisi particolari, ed hanno l'evidenza della storia, e ti rivelano un raro talento di osservazione dell'uomo e della natura, non nelle loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme della loro esistenza. Veggasi la descrizione della caverna di Eolo e della tempesta, e le disperazioni di Cingar:

Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno,
atque morire timens, cagarellam sentit abassum...
Undique mors urget, mors undique cruda menazzat.
Infinita facit cunctis vota ille beatis,
iurat, quod cancar veniat sibi, velle per omnem
pergere descalzus mundum, saccove dobatus.
Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum,
qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis,
fertque oculi cilios distesos usque genocchios.
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:
quos in Taprobana gens portugalla catavit.
Hisque decem faciet per fratres dicere messas,
his quoque candelam tam grandem, tamque pesentam
vult offerre simul, quam grandis quamque pesentus
est arbor navis, prigolo si scampet ab isto.
Se stessum accusat multas robasse botegas,
sgardinasse casas et sgallinasse polaros:
at si de tanto travaio vadat adessum
liber speditus, vult esse Macharius alter,
alter heremita Paulus, spondetque Sepulchri
post visitamentum, vitam menare tapinam.
Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat,
en ruptae sublimis aquae montagna ruinat,
quae superans altam gabiam strepitosa trapassat,
nec pocas secum portavit in aequora gentes.

La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de' venti, e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino, un realismo animato da una immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la facilità è talora negligenza; desideri l'ultima mano, desideri la serietà artistica dell'Ariosto.
Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori d'Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera. In Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l'orrore del particolare e la vaga generalità. Merlino al contrario aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel colorire a vuoto per via di figure e d'immagini, e non pare che lavori con la riflessione o con l'immaginazione, ma che stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove, guardato e parodiato ne' suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berto, e cucinano essi medesimi il pasto. Al poeta non fugge nulla, i cibi, il modo di apparecchiarli, il desco, l'affaccendarsi di Berto, la fisonomia e gli atti de' due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il cui effetto è tutto ne' particolari. Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi de' maestri e degli scolari, ciascun particolare con la sua fisonomia:

Beldovina tamen cartam comprarat et illam
letrarurm tolam, supra quam disceret «a, b».
Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat,
nam quis erat tanti, seu mater, sive pedantus,
qui tam terribilem posset sforzare putinum?
Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret, nostrique Maronis
terribiles guerras fertur recitasse magistro.
At mox Orlandi nasare volumina coepit,
non deponentum vacat ultra ediscere normas;
non speties, numeros, non casus atque figuras;
non Doctrinalis versamina tradere menti;
non hinc, non illinc, non hoc, non illoc et altras
mille pedantorum baias, totidemque fusaras.
Fecit de cuius Donati deque Perotto
scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.
Orlandi tantum gradant, et gesta Rinaldi;
namque animum guerris faciebat talibus altum.
Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi,
Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae,
innamoramentum Carlonis, et Aspera-montem,
Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis,
Meschinique provas, et qui «Cavalerius Orsae»
dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.
Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit,
utque caminavit nudo cum corpore mattus,
utque retro mortam tirabat ubique cavallam,
utque asinum legnis caricatum calce ferivit,
illeque per coelum veluti cornacchia volavit.
Baldus in his factis nimium stigatur ad arma,
sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat.

È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il suo pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto, ed egli ne faceva «scartozzos», e leggeva romanzi, e sopra tutti l'Orlando furioso. Non c'è una sola generalità: tutto è cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua fisonomia e il suo movimento, determinato da forze interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime un'azione, con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento, come è quel «nasarat», e quel «volavit», e quel «piccolettus», e quell'«hinc, illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias».
La parte seria del racconto dovrebb'esser la cavalleria, perchè essa è che fa guerra all'inferno, cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà è apparente, e il fondo è una parodia scoperta, il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso, parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a' cavalieri erranti. Dico «parodia scoperta», se guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perchè, giunti i cavalieri nella regione infernale delle menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua patria. Questa patria de' poeti, de' cantanti, degli astrologi, de' negromanti, di tutti quelli

qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
compluere libros follis vanisque novellis,

è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e vuota, «mangiabilis, quando tenerina fuit», dove tremila barbieri strappano i denti a' condannati. E Merlino esclama:

Zucca mihi patria est, opus est hic perdere dentes,
tot quot in immenso posui mendacia libro.

E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:

Balde, vale, studio alterius te denique lasso.

Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di se stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l'austro co' fiori e i cignali col mare:

Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod amisi longinqua per aequora remos:
he heu, quid volui, misero mihi, perditus Austrum
floribus, et liquidis immisi fontibus apros.

È il comico portato all'estremo dell'umore. La caricatura del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l'ironia dell'Ariosto è qui l'allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta, nella forma più cinica.
In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l'aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina: san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e a' negromanti. Megera fa un terribile ritratto di tutt'i disordini della Chiesa e de' papi, e Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci della Francia e i seguaci dell'Impero. I monaci sono il principale bersaglio di questi strali poetici. Una delle pitture più comiche è quel biricchino di Cingar vestito da francescano per liberare Baldo dal carcere:

Iam non is Cingar, quia sanctus portat amictus...
sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!

Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro:

Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt,
postquam pane caret cophinum, vinoque berillus
in fratres properant, datur his extemplo capuzzus.

La moltiplicità de' conventi gli fa temere che un bel dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su' motti del Vangelo. Fa una parodia della confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno, dov'e parodiata la celebre scritta di Dante:

Regia Luciferi dicor, bandita tenetur
chors hic, intrando patet, ast uscendo seratur.

Ma non possono domare l'inferno, se prima non si confessano, e il confessore è Merlino stesso, il poeta:

Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,
est mihi cognomen Cocaius maccaronensis.

Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto Cingar, il lettore s'immagini. È una farsa. Tutta l'opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.
Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno stile più corretto e uguale. La guerra finisce con la sconfitta compiuta delle mosche, descritta co' tratti, da lui caricati, dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso la fine:

Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:
nil nisi per terram membra taiata micant.
Grandes mortorum vadunt ad sydera montes,
sydera, quae multo rossa cruore colant.
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri
Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.
Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno
Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.
Dumque dei coenant, puero Ganimede ministro,
multa super mensas ossa taiata cadunt.
Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta Pedocchi,
nunc cor Moschini, nunc pulicina manus...
... trucidatis ducibus, Moschaea ruinat
tota, nec una quidem vivere Moschaea potest.
Formicae, Pulices, Ragni - Victoria! - clamant,
trombettae tararan iam frisolando sonant.

Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da una torre gittano un sasso enorme,

qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem,
vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.

La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle immagini e de' sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene a Tonello:

Solus solettus stabam colegatus in umbra,
pascebamque meas virda per arva capras.
Nulla travaiabant vodam pensiria mentem,
nullaaue cogebat cura gratare caput,
cum mihi bolzoniger cor, oyme, Cupido, forasti,
nec tuns in fallum dardus alhora dedit...
More valenthominis schenam de-retro feristi:
o bellas provas quas, traditore, facis!

Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito della Riforma, il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia, essa che unita aveva imperato sull'universo, l'indignazione di tanta licenza e corruzione de' costumi nel secolo degl'ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell'umano. Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e sulla sua capricciosa immaginazione.

XV - MACHIAVELLI

Dicesi che Machiavelli fosse in Roma, quando il 1515 uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de' beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra' tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò su' fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'impresa. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di ozio e di miseria. All'ultimo, poco e male adoperato da' Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra eredità a' figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: «Tanto nomini nullum par elogium».
I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d'Italia di dieci anni», scritta in quindici dì, i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira de' degeneri fiorentini, gli altri suoi capitoli dell'Occasione, della Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione, i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari su' quali è impressa la fisonomia di quel tempo, alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appariscono i vestigi di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: soprabbonda lo spirito. Ci è il critico, non ci è il poeta. Non ci è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:

Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
io piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore;
io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo o guardo.

Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne' Decennali:

la voce d'un Cappon tra cento Galli,

e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de' Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste, e ne' discorsi che mette in bocca a' suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.
Ma nel Principe, ne' Discorsi, nelle Lettere, nelle Relazioni, ne' Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e a' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.
È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra' principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando vivea Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti, presso le quali dimoravano. Ci era l'arte, mancava la scienza. Lorenzo era l'artista. Machiavelli doveva essere il critico.
Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì ci erano ancora i lineamenti di un popolo, ci era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma ci era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva a' Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangiolo, Ferruccio, e l'immortale resistenza agli eserciti papali imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali fra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.
Machiavelli per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. Ci è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza, e cercò negli stessi Medici l'istrumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia, che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta a' posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra, e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e «fuori della regola», come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano riputazione. Consapevole di sua grandezza, spregiava quella esteriorità delle forme e que' mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili a' mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro contraddittorio movimento ora indietro, ora innanzi.
Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.
Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.
Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: - Cosa sei? Dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Soprastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani, quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono, e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fino ne' campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra' lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le maraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata da' suoi devastatori, come la Grecia fu da' romani.
Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli disse «corruttela», e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto, la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza accompagnata con l'empietà e l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la parola non era più l'azione, non ci era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.
Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, a' cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non ci era il tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medio evo, e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato.
Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo, concorse alla sua demolizione.
L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno a' quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio evo, soprattutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza, dalla quale era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione ci è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.
Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare, se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l'una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale.
Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita, come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che dee essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo. L'inferno. Il Purgatorio. Il Paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la letteratura del Dugento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o negli universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco. In teoria ci era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza.
Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita, e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E a ogni modo non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura, è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo, e non la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.
Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione, e non è contemplazione Non è teologia, e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
È negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco, come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione, come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono, e non come debbono essere.
Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far luogo all'«essere», o com'egli dice, alla verità «effettuale».
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria.
Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due «Soli» stavano gli astri minori, re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il dritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.
Ci era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non ci era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa, ingrandito di territorio, diminuito di autorità, l'imperatore debole e impacciato a casa.
Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano «Stati» o «Nazioni». Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l'«equilibrio» tra' vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la «patria», nazione autonoma e indipendente.
La «patria» del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era l'istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi «repubblica». E dicevasi «principato», dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica. Ci è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perchè co' suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti, ma ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci odori un po' di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.
Noi che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia, e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e l'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa ci entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «disarmato il cielo e effeminato il mondo» e che rendono l'uomo più atto a «sopportare le ingiurie che a vendicarle». «Agere et pati fortia romanum est». Il cattolicismo male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa «forza», «energia», che renda gli uomini atti a' grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice, «i buoni ordini e le buone armi», che fanno gagliardi e liberi i popoli.
Alla virtù premio è la gloria. «Patria», «virtù», «gloria», sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo.
Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità, o, come dicevasi allora, nel genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.
Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza, e non la fortuna, ma la «forza delle cose», determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.
La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe, o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri. E come ci è un dritto privato, così ci è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.
Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto «filosofia della storia».
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.
Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi, nè audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica «miracoli della provvidenza», come preparazione all'impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalissima alla virtù. Di lui è questo motto profondo: «I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese». Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove «non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. È affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità, governo che è un presentimento de' nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare. Si vegga, fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de' grandi Stati, e soprattutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità, e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.
Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso «cogito», nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza, e prende possesso del mondo.
E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente de' fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le «maggiori» del sillogismo, sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie», cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:

«Avendo la città di Firenze ... perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare guerra a coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ... l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa.»

Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel «ritirare le cose a' loro princìpi», o quell'ironia de' «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma, e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il «Nosce te ipsum», la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari». Non si maraviglia e non si appassiona, perchè comprende, come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti, e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis», di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo, nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.
La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione: vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche l'intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi, ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. Ci era lo scrittore, non ci era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi «forma letteraria», nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perchè è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua e là venato. È la grande maniera di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo ne' nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «e i Cesari e i Pompei Pietri, Mattei e Giovanni diventarono». Qui non ci è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de' nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico «diventarono», che accenna a mutamenti non solo di nomi, ma di animi. Questa prosa asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è, un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare -, dice Dante. - Bisogna intendere -, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore: l'anima del mondo machiavellico e il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato. Non è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.
Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutt'i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena, nè dietro la scena; ma è nella sua camera, e mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. È l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.
Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno, ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori, a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche a' più grandi pensatori. È l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza, e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni, tutto è sbandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
Il fondamento de' Discorsi è questo, che gli uomini «non sanno essere nè in tutto buoni, nè in tutto tristi», e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò «stanno» volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze». Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli, e salgono di un'ambizione in un'altra, e prima si difendono, e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti.
Quello che degl'individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia, o classe. Nelle società non ci è in fondo che due sole classi, degli «abbienti» e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi, quando hanno a fondamento l'«equalità». Perciò libertà non può essere, dove sono «gentiluomini» o classi previlegiate.
È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile, quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnuoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il «carattere», cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e perciò freschissime e vive anche oggi.
Poichè il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù del conseguirli, hai disproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa, e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.
Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertà a' popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, la sostanza de' cittadini. Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, «non ingannato da loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra' mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti potea dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto non intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. Veggasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che sieno uscite da un gran cuore. Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è ne' mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
Quando Machiavelli scrivea queste cose, l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma «anima sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.
Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere «uomo», iniziando l'età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo, che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza ne' fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
Ci erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi, ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse, «fu naturale ferita di core» - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gittava la base di una nuova età su questo principio virile, che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.
Ma in Italia c'era l'intelligenza e non ci era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non ci era più uno scopo, nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea, e risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza, o, com'egli diceva, «corruttela»:

«Qui, - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.»

Pure l'Italia era corrotta, perchè difettiva di forze morali, e perciò di un degno scopo, che riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè i soldati, ma le forze morali, o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento:

«La ... religione, se ne' princìpi della repubblica cristiana si fosse mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo o la rovina o il flagello.»

Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere, di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:

«Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.»

Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' Franchi, il regno de' Turchi, quello del soldano, e le geste della «setta saracina», e le virtù «de' popoli della Magna» al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando gitta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio d'uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:

«Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del sole, andrei nel parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che per la malignità dei tempi e della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.»

Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:

«Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, ... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi.»

Degli avventurieri scrive:

«Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ... tanto che essi han condotto Italia schiava e vituperata.»

Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura:

«Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi delle loro possessioni abbondantemente, senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stato mai alcuno vivere politico, perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.»

Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gittato giù i conventi, ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio de' pochi vivea del lavoro de' molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, potea ben dire, accennando a Savonarola:

«Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito a pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati.»

Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche allora de' mali d'Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli scrive:

«La fortuna dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.»

Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:

«Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo.»

Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:

«Nè sia è alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui. Ma chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua potenza, e' celebrano il nimico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare.»

Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:

«Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia.»

Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine ... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite». È l'idea tradizionale del Redentore o del Messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro. Se non che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro, «oltramontano». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le cagioni. «Patria», «libertà», «Italia», «buoni ordini», «buone armi», erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagl'interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de' modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de' loro poeti signori del mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma ci era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' a traverso de' suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, e di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a «picca» e a «tric trac»:

«E ... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano.»

Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi:

«Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.»

Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un Dante «libertineggiare» con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell'immaginazione.

«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che solum è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro.»

Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della «divina Commedia», e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera, grida: - Fuori i barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:

«Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?»

E finisce co' versi del Petrarca:

Virtù contra al furore
prenderà l'armi, e fia il combatter corto:
chè l'antico valore
negl'italici cor non è ancor morto.

Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile, e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti a' suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo, è l'ironia. La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono uomo del Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:

«Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano, e gli Stati per essere indifesi non sono lor tolti, ed i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro. ... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiunge, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.»

In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi ne' contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'osservazione. De' francesi e spagnuoli scrive:

«Il francese ruberia con l'alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria dello spagnuolo, che di quello che ti ruba, mai ne vedi nulla.»

Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola, l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.

«Fu pur troppo nuova cosa, - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parasiti e ciò che fece mai Menandro.»

Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi

«un tempio, ... tanto ben finito, - dice il Castiglione - che non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino, ... figure intorno tonde finte di marmo, colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la storia delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi.»

L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti, architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasón» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:

«La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca. A questi si accostò il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro, e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare, si ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente, e questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.»

Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi

«si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide.»

dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla.

Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette «d'intreccio», sullo stesso stampo delle novelle.
A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola. Anche ivi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di lui, ma più pratica del mondo. Ci è già qui un concetto assai più profondo che non è in Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia.
Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?

Scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo più soave;
perchè altrove non ave
dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.

Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore, il cardinale da Bibbiena, «assassinato di amore», e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria, e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando, e non udito e non curato, fece come gli altri, scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parasito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa movere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li move.
Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Iago, perchè Nicia non è Otello. E un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda.
Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo. Ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria.
Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè, e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera, e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è amore petrarchesco, e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico.

«... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte m'assalta tanto desio d'essere una volta con costei, ch'io mi sento dalle piante de' piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»

Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta prosunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.
Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gl'istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo, scopre senza pietà quel putridume Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. È una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene -. E non si parte mai di là, è la sua idea fissa, la sua sola idea: - T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi -. Il confessore sa perfettamente che madre è questa. «... È ... una bestia, - dice - e sarammi un grande aiuto a condurre Lucrezia alle mie voglie». -
Il carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la riputazione dell'immagine miracolosa della Madonna:

«Io dissi mattutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!»

Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente, pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perchè «in chiesa vale più la sua mercanzia». È di mediocre levatura, buono a uccellar donne:

«... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole, e' se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.»

Conosce bene i suoi polli:

«Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è vero che non è il mele senza le mosche.»

Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio che, promettendo larga limosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: - Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari, da poter cominciare a far qualche bene -. Parla spesso solo, e si fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che glie ne venga utile:

«Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento.»

Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:

«Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.»

Questo è l'uomo, a cui la madre conduce la figliuola. Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra.

«Io son contenta, - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina».

E il frate risponde:

«Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiolo Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, che si fa sera. - Rimanete in pace, padre -»

dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:

«Dio m'aiuti e la nostra Donna che non càpiti male».

Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano è l'angiol Raffaello!

Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena, e non ha rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso di Machiavelli ci è alcun che di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura, e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito, non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.
Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assimiglia piuttosto un anatomico, che nuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non ci è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe, o l'avventuriere o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.
La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte.

Continua >>>>