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STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
di Francesco De Sanctis
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nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori. Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della forma così squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più bel fiore. L'insignificante, il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di là della frase, attinge le cose nella loro vita, e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza, perchè ha delle cose una impressione propria e schietta. La mammola, la rosa, l'ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica. Ciò che prova non è sensualità, è voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive. Tale è la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che va carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietà. Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie, quello che si vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così intelligente, che all'ultimo te ne viene l'insieme, prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera e ti dà una serie di fenomeni:

Zefiro già di be' fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all'òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.

Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed è quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà della natura. In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza: così è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma sensualità. La voluttà è la musa della nuova letteratura, è l'ideale della carne o del senso, è il senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica, un godimento della natura senz'altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da' classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l'ideale delle Stanze, una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole: «voluttà idillica». Il contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinità celesti e campestri, in una scala che dal più puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze, i due modelli di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito stesso della società, come si andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici, col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l'idealità del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità della colta borghesia italiana. Era il più fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia stampa, s'intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da' motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo. Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella società, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l'uno degno dell'altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora più pericolosa, perchè si chiamava «civiltà», ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de' rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni. Ce n'erano a dozzina, e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto, uso giunto fino a' tempi nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base. Non c'è più un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de' suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran dovizia. Ma c'è lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e là paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava rima o la stanza. Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici giri dell'ottava; non più concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna. Modello di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo, composizione a stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile e leggiera, non idealizzata. Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro, dove è patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa, che tutto osserva, e anima con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è l'osservatore, manca l'artista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all'illusione e addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:

Siccome il cacciator ch'i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.

Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia. Veggasi ora l'artista, il Poliziano:

Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
e mentre di tal vista s'innamora
la sciocca, el predator la via divora.

Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è idealità nel Poliziano. Nell'uno è il di fuori abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:

Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.

Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la grazia, la freschezza:

questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.

In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l'esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!

Qui l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d'ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: - Addio.

L'Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l'Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado. L'idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni. Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l'idealità comica: una caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta di bonomia e di sincerità. Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la verità del colorito e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell'ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto. Così si passava allegramente il tempo:

E così passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.

Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor comico. Il mondo convenzionale de' trovatori è ito via, e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa. Un'allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto, ma un divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità della vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita, quel tale: «Edamus et bibamus: post mortem nulla voluptas». Aggiungi la caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo, rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:

Io non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;

o il dispetto contro i gelosi:

Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;

o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un fiato, così rapida e piena di cose:

Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.

Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche, com'è il Trionfo di Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com'è il canto de' «cialdonai», o de' «calzolai», o delle «filatrici», o de' «bericuocolai», ora pitture sociali, come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de' «romiti», o de' «poveri». Il motivo generale è l'amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l'immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura, che sono l'anima di questo genere di letteratura, com'è nel «carnevale» di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude, se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati. Ne' suoi canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado capita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza, come ne' suoi consigli alle donne:

Io vi vo', donne, insegnare
come voi dobbiate fare;

e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:

Donne mie, voi non sapete
che io ho il mal che avea quel prete.

Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle «montanine» di Franco Sacchetti, massime quando il fondo è idillico, come nella ballata dell'«augelletto», e nell'altra:

Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.

Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di situazioni, e neppure un'impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un capo all'altro d'Italia. Perciò non hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti, com'è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l'attendere, lo sperare, l'incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette. Sono l'espressione di un essere collettivo, non del tale e tale individuo. E così sono nel Poliziano. I nomi mutano, secondo l'argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse. Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, come nelle ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario o l'ottonario. Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio:

E crederrei, s'io fossi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell'inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.

La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua armonia. Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio della poesia popolare, povera d'idee, ricca d'immagini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che si diceva allora: «cantare a aria», qual si fosse il contenuto, o come dice un poeta, «siccome ti frulla». Così cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda, con la stess'aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:

Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,

cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile e grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de' canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m'hai»; «Giù per la villa lunga / la bella se ne va»; «Chi vuol l'anima salvare / faccia bene a' pellegrini», ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano «cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio, come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti. Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura. Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale eroico celebrato nelle giostre e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare. Tra gli altri che venner fuori, sono degni di nota l'Aspromonte, l'Innamoramento di Carlo, l'Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de' paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita di Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse, era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò anche ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare. Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l'effetto, non potendosi più trarre da un sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli accidenti, com'è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società, e dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori. E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia. Ma l'impulso da lui dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi letteratura profana, divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de' Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In antico la Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato. Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari. Ma la Francia era più nota, e i «romanzi franceschi più diffusi», e Carlomagno avea un certo legame con l'Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e vincitore de' saracini e precursore delle crociate. Era già comparso l'Innamoramento di Orlando. E Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato, una vasta tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il Boiardo, uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana. Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà d'Omero, e fu salutato allora l'«Omero italiano». Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un'epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco, mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell'immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada. Come Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina, è il maraviglioso in permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a se stesso. Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e ne' primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti. Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica. Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori; ma i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d'immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno. E tutte e due queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato. Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo, combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanità, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de' suoi intrecci, menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo, l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità, non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più desiderabile, la magia dello stile. Le più originali concezioni, le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per la soverchia crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte. Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e volgare. Non una sola situazione, non una figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome di Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E non è Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi, Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e senza remi», come lo chiama Battista Alberti, sino a Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio. E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici mortali. Niente è più volgare che Carlo o Gano. Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo è un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de' paladini, Forisena si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria com'era concepita e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori, e invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi, e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio ne' racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto. La parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:

Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch'io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch'io muova presto le lance e la penna.

Nell'inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero «trangugiava a ciocche le anime che piovean de' seracini»; e san Pietro attende le anime de' cristiani:

E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s'affanna;
e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: - Osanna! -
ch'eran portate dagli angeli in cielo:
sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.

I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di spada sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che perdono ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo il grottesco, com'è ne' romanzi primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi. La parodia è ancora più comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno, nota l'angiolo Gabriello, trasformato l'individuo in tipo. La rappresentazione è anch'essa conforme a questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si ferma e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l'autore, mentre move la penna, vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d'occhio. L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli. Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio. - «E io voglio fare il boia» -, dice l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano all'ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non ce n'è il sentimento. Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto. Ma il Pulci, ancorchè uomo colto, per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia, la finezza, la profondità dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanità, ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro che della forza. Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt'i pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi. I più accarezzati dall'autore sono i due personaggi del suo cuore, Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto. Non è il cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l'emulo di Durindana. Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino all'animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra' cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l'alto modello a cui più o meno è informata la storia, intitolata a buona ragione Il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che già riceve una prima trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un buon compagnone. Come il nero cherubino arieggia agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio e Gregorio; chè

ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra

Astarotte, che è stato un serafino e de' principali, sa molte cose, che non sanno «i poeti, i filosofi e i morali», e dice la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l'aria e ingannano gli uomini, «facendo parere quel che non è»:

chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.

Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la promessa, come un diavolo d'onore:

Chè gentilezza è bene anche in inferno.

E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole anche con l'autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella quistione della prescienza, la quale «l'umana gente avvolge di tanti errori», dice: - «Nol so: però non ti rispondo» -. Ma quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro. E afferma che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione, come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo, anch'essa redenta, altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti. Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de' ragionamenti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell'uomo. Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano. Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la fisica, la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le menti più che i ragionamenti sottili. Aggiungi l'ironia, quel prender le cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e miscredente, ancorachè non ci sia ancora negazione e scetticismo, e avrai l'immagine del secolo, il ritratto di Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo; gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti. L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante. E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come «uomo dottissimo e di miracoloso ingegno», «vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano. Destrissimo nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini. Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la profondità del mare, detto «bolide albertiana». Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di «Vitruvio moderno», hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne' suoi Intercenali o «intrattenimenti della cena», ne' suoi Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone, e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull'Amore, nella sua Amiria. Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia. La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza. È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l'«aurea mediocritas», una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' «quadretti di genere» del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità. Il vero protagonista è perciò l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la «voluttà». Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un'astrazione, un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile. E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato. È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della vita: «protervorum impetum patientia frangebat», dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di Battista. Scrivendo di sè, dice:

«Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus. Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id «prope divinum» dicebat... Gemmis floribus, ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.»
Quest'uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti delle città. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: «Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino. - Ella m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio». Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:

«Truovomi ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.»

Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell'Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini «che fioriscono in età ferma e matura»: pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice:

«Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma fuggendo tedio.»

La storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e l'altra dell'amante, pari alle più belle del Corbaccio. E, per finirla, vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:

«... questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ... mi diletta ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.»

Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità rese! «Gracilità vezzosa», «lentezza d'animo», sono forme nuove, pregne d'idealità. Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move l'animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona, o quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come «bene est», «etiam», «idest», «praesertim»; e parole e costruzioni e giri latini, come «proibire» e «vietare», e participii presenti e infiniti con costruzione latina, e «affirmare», «asseguire», «conditore di leggi», «duttore», «valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro, che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana. E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e de' passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica. Pure, se per queste qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir «secolo» un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dall'uno all'altro.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall'età eroica all'età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede e dall'autorità al libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi. Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è ne' classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del secolo per confessione de' contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo, e il suo ideale è l'idillio, sono le Stanze. L'eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola, e parve l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto de' morti:

Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: - Penitenza. -
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.

La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i «piagnoni», e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate. Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa e non l'effetto del male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli, prima che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell'impresa del frate. Nella storia c'è l'impossibile, come nella natura. E il frate, che voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con l'impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione. L'Italia ripigliò il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace, la lega medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l'invenzione della stampa, la digestione già fatta del mondo latino, l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del secolo, e creato un movimento così efficace di civiltà, che non potè essere impedito o trattenuto dalle più grandi catastrofi. Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una falange predestinata a compiere l'opera de' padri. L'un secolo s'intreccia talmente nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro cominci. Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.

XII - IL CINQUECENTO

Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti. Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore dell'uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa, come:

L'invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.

Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale della felicità.
Il lato negativo di questo ideale era il comico, una sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i «piagnoni», che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra, negando l'immortalità dell'anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una società indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l'anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità.
All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva l'Ariosto. E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.
Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'«iddii immortali», e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase, in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito. Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva l'attenzione. L'intrigo diviene la base delle novelle, de' romanzi, delle commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l'immaginazione, il buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e l'orribile nella tragedia. Dall'una parte ci è la frase, vacua sonorità, dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e sempre assurdo. Il realismo abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte. In quella forma letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a Roma, nella corte di Leone decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti s'indovini la caterva de' minori. Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo. E c'era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati «divini», con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro Aretino e il Bembo, e Bernardo Accolti, detto anche l'«unico». Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva, s'illuminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga». Come si facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode. In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci è immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,

... da' rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:

sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con l'audacia, la ciarlataneria, l'intrigo e la bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a' tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo, facile a imparare, che teneva luogo d'ispirazione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a' giudizi de' contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d'uomini, che oggi nessuno più legge. Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna, c'era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
Quest'era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale, se riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano. La violenta reazione del Savonarola non fa che accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè. Il secolo decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo movimento scrutato profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per le varie sue forme sino al suo esaurimento. È la sintesi che succede all'analisi.

Qual è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale della forma, amata e studiata come forma, indifferente il contenuto.
E qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza del contenuto, una specie di eccletismo negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico, che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo movimento è l'ideale della forma, o per trovare una frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata. Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
Il «limbo» di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio fanno già presentire quest'orgoglio di un'età nuova, che comprendeva e glorificava tutta la coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta così popolare, perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e la sua divinità. Questa Scuola d'Atene, con i tre quadri compagni che comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura, di così larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo. Il quadro diviene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici. Il pittore vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il Poliziano, e studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti nelle stanze del Poliziano, e ti avvicina più al riposo della natura che all'agitazione della faccia umana, quella «pace tranquilla senz'alcuno affanno» è l'impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è già «simile a quella che nel cielo india», un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi più minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua immaginazione si compie, e prende quella purezza e riposo di forma, che Raffaello chiamava «una certa idea». In questa certa idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale e la scuola; difetti appena visibili ne' lavori geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento della bellezza e lo studio del reale. Così nacquero le Madonne del secolo, nella cui fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e l'estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell'innocenza. Queste facce si vanno sempre più realizzando, insino a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può concepire il San Pietro, la vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi, la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva nell'apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei costumi, que' concetti e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne' suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico, l'ideale della forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova civiltà, ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso. La Scuola di Atene, il San Pietro, l'Orlando furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.

L'Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma. L'autore vi si travaglia con la più grande serietà, non ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione, così nell'insieme come ne' più piccoli particolari. Il poeta non ci è più, ma ci è l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell'arte nella poesia. Ma poichè in fine questo mondo così bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d'immaginazione, vi penetra un'ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore. La parte plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria, e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, ne' suoi più bei colori, ma accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il castello incantato. È la visione severa di un'anima ricca che si effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica. Nelle arti figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell'anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza la sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce l'altro mondo. L'ideale della forma, che si esprime con tanta serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che esso è mera forma, mero giuoco d'immaginazione. Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso la sua produzione. In questo sorriso, in questa presenza e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lato negativo dell'arte, il germe della dissoluzione e della morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e l'Avarchide dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà. Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non altrimenti che al cardinale d'Este, delle «corbellerie», fole e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse l'Italia liberata dà' Goti. Nella sua intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade, che chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima, e nemmeno nella sua arida immaginazione. Di eroico non c'è nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo. La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno, se la piglia con l'argomento, e prorompe:

Sia maledetta l'ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d'Orlando.

Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione epica più conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò ch'egli diceva licenza ariostesca. Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era piaciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto fiori e tutto mèle, così artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e due noiosi. Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e non penetra nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e il Berni mi fa l'effetto di quel buffone nelle commedie, posto lì per far ridere il pubblico co' suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi. Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le prime imprese di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de' Lodovici Carlo Magno. Romanzi con la stessa facilità composti, applauditi e dimenticati. Accanto agl'imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l'idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della poesia italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma, l'arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e pastori, fuori della società, o piuttosto in una società primitiva e spontanea.
Là trovi quell'equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de' sentimenti e delle impressioni, che chiamavano l'«ideale della bellezza» o della «bella forma». Questo spiega la grande popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:

La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più ch'aura o più che strale presta
per l'odorata selva non soggiorna,
tanto che il lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch'egli,
e la man par avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.

Maniera corretta, e nulla più. Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de' due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell'Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco. L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di città. La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti gli altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia. La buffoneria, l'equivoco osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme, quanto la materia è più volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro dicerie, o come dicevano, «cicalate» sull'insalata, sulla torta ,sulla ipocondria, inezie laboriose. Simili cicalate fatte in verso erano dette «capitoli»: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di Lorenzo, il maestro del genere. Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie, e diviene più attillato, ma anche più insipido. Tra queste accademie era quella dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi capitoli, e se li passavano di mano in mano.
Francesco Berni, «maestro e padre del burlesco stile», detto poi «bernesco», è l'eroe di questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua sensualità ornata dalla coltura e dall'arte. Nella sua ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco, il Lasca dice:

Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
che saria proprio come comparare
Caron dimonio all'agnol Gabriello.

Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far niente, la sua divinità è l'ozio più che il piacere:

Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto
era il non far mai nulla e starsi in letto.

Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di quel tempo, a' servigi di questo e quel cardinale:

aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.

Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne può più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo giocare la primiera:

Può far la nostra donna ch'ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto
a petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: - Ei si dispera,
e a' maggiori di sè non ha rispetto. -
Corpo di... , io l'ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?

La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati, che vedono mancare la mangiatoia, e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro, contadino, e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:

Pur quando io sento dire oltramontano
vi fo sopra una chiosa col verzino,
«idest nemico del sangue italiano».

Era in fondo un brav'uomo, senza fiele, un buon compagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto d'ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d'idee. Sapea di greco, e più di latino, e fece anche lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo. Scrivea il più spesso a «sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo». Non cercava l'eleganza, per fuggire fatica, e gli veniva «il sudor della morte», quando si dovea «metter la giornea» e rispondere «per le consonanze o per le rime» a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. «A vivere avemo sino alla morte, - dice al Bini, - a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum». Si qualifica «asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù»: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo tormentano e si dolgono che non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:

Perchè m'ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
che sai che t'amo più che l'orso il miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
più che non son le radici nell'orto:
se ti lamenti perchè non ti ho scritto...

E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia, e la lettera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de' segretari, che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. - Fateci un capitolo sulla primiera!

«Compare, - scrive il poveruomo, - io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera, e siate certo che l'ho fatto, non perchè mi consumassi d'andare in istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggire la fatica mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di morte. Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l'uno e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non m'obbligare.»

Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra Aristotile, il quale

ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.

Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno. Il successo fu grande. Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco. Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità e con brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o artificio di stile, o repertorio; egli l'attinge direttamente secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello. E l'immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale è la pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione della Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:

Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un'arpia,
un uom fuggito dalla notomia.

Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di parlari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia. Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia, in mezzo a cui viveva. Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza, è la coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura. Il protagonista non è più il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità. L'attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta, che ride de' difetti propri e degli altrui, come di fragilità perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale, che non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia, e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con piena tranquillità di coscienza, e non pensa punto che gliene possa venire dispregio. Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società, non generano più disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula, ciò che farebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in evidenza, cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica, sì ch'egli contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertà di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno, ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose. Questa superficialità e spensieratezza è anch'essa comica, è parte inevitabile del ritratto. Perciò la forma comica sale di rado sino all'ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e calore d'immaginazione, com'è generalmente ne' comici italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove non è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è in tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne' ritratti del Berni entra anche l'osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione, non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che l'ispira non è il piacere dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un piacere tutto d'immaginazione e da artista, che senti nel brio e nella facilità dello stile, e che mettendo in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di forme, d'immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera, e l'altro, un vero capolavoro, della sua famiglia. Ecco perchè il Berni è tanto superiore a' suoi imitatori ed emuli, freddamente osceni e buffoni. Pure la buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e delle conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino diviene l'emblema della coltura. Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com'è la Vita di Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso, e la Gigantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i Nani vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina oggi appena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando; perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di concetti e di frasi, e non corrispondono allo stato reale della società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro, e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le serenate, erano legati con la vita pubblica; ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se ne allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni, centri di allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta, che sa di greco e di latino, che ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza, o come dicevasi, il «bello stile». Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e novelle. Come però l'arte è una merce rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d'esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe, mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria, la sensualità, e quando quest'istinti erano accarezzati, accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso. Accanto a' capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l'eroe della borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo secolo è un così strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone. Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori, mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo, gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini, gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino, e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani, presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanità de' sentimenti e de' concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d'oro. Gli altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio è quell'italiano comune che già si usava dalla classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e frasi locali, salvo ne' più colti, come è il Molza, per speditezza e festività vicino a' toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sì gran parte, rifuggitosi ne' poemi cavallereschi, scompare dalla novella. E neppure ci è quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe, quell'allegrezza comica a spese delle superstizioni e de' pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore scompare anch'esso. La novella attinge tutta la società ne' suoi vizi, nelle sue tendenze, ne' suoi accidenti, con nessun altro scopo che d'intrattenere le brigate con racconti interessanti. L'interesse è posto nella novità e straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o possedere l'amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù. Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri, comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più assurdo fantastico. Sono migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare, Molière e altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma affettata insieme e scorretta. L'interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte il comico e dall'altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito. Una delle novelle meglio condotte è la «scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta, e par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sè comico, ma l'esposizione è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate. C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa d'invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì al Molière la Scuola de' mariti. Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione. Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando, ma scarso di trovati e situazioni comiche. Pure il Lando è scrittor vivace e rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.