Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo
nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade
o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale
e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere
convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme Liberata.
Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento
religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo
mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade
o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale
e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere
convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme Liberata.
Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai uno sguardo libero
su' formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un erudito, come
pochi ce n'erano allora, non un pensatore. Il suo mondo religioso ha
de' lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo cervello. La
sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita, ben esposta,
discorsa con argomenti e forme proprie, ma non è cosa scrutata nelle
sue fonti e nelle sue basi, dove logori una parte del suo cervello.
Ignora Copernico, e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d'idee
che allora rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose
meditazioni i più nobili intelletti d'Italia. Innanzi al suo spirito
ci stanno certe colonne d'Ercole, che gli vietano andare innanzi; e
quando involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e
si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito.
La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di
dottrine da credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare.
Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente
da ogni influenza religiosa, Aristotile e Platone, Omero e Virgilio,
il Petrarca e l'Ariosto, e più tardi anche Dante. Nel suo carattere
ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi
anzi che evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà;
vita ideale nell'amore, nella religione, nella scienza, nella condotta,
riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle
più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia,
che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e
rifaccia uomo la statua.
Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione
alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci
è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno
processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco,
fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce.
La religione è l'accessorio di questa vita, non ne è lo spirito, come
in Milton o in Klopstok. La vita è nella sua base, quale si era andata
formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l'idillico,
aggiuntavi ora un'apparenza di serietà, di realtà e di religione.
Il tipo dell'eroe cristiano è Goffredo, carattere astratto, rigido,
esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di più intimo è il suo
sogno, che è pure imitazione pagana, reminiscenza del sogno di Scipione.
Il concetto religioso è manifestato in Armida, la concupiscenza o il
senso, e in Ubaldo, voce della «donna celeste» o della ragione. Ma «la
ragione parla, e il senso morde», come dice il Petrarca, e l'interesse
poetico è tutto intorno ad Armida. La ragione usa una rettorica più
pagana che cristiana, e mostra aver pratica più con Seneca e con Virgilio
che con la Bibbia: il fonte della sua morale non è il paradiso, ma la
gloria. La ragione parla, e Armida opera, circondata di artifici e di
allettamenti. E l'autore qui si trova nel campo suo, e s'immerge in
fantasie ariostesche, profane, idilliche, che crede trasformate in poesia
religiosa, perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo,
e la sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha una chiara personalità,
perchè quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza,
e non par quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche,
le quali se lo contendono. Il dramma è tutto esterno, e rimane d'assai
inferiore alla confessione di Dante, penetrata da spirito religioso.
Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando
ariostesco in proporzioni ridotte, come Argante è una reminiscenza di
Rodomonte con faccia più seria. Più tardi Rinaldo, trasformato in Riccardo,
divenne una reminiscenza di Achille; Sveno, mutato in Ruperto, fu reminiscenza
di Patroclo, e Solimano divenne Mezenzio, e Argante Ettore. Reminiscenze
cavalleresche, reminiscenze classiche, più vivaci e fresche le prime,
come più vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.
Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli era venuto così conforme
al suo tipo religioso, com'egli aveva in mente. E nella Gerusalemme
conquistata cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria,
diluì il sogno di Goffredo, appiccò al bel viaggio al di là dell'Oceano,
sola ispirazione moderna e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo
assai stentato di concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore
delle crociate, dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema più pesante,
ma non più religioso, perchè la religione non è nel dogma, non nella
storia e non nelle forme, ma nello spirito. E lo spirito religioso,
come qualunque fenomeno della vita interiore, non è cosa che si possa
mettere per forza di volontà.
Volea fare anche un poema serio. Ma la sua serietà è negativa e meccanica,
perchè da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni
elemento plebeo e comico, e dall'altra in un ordito più logico e più
semplice, secondo il modello classico. E sente pure di non esservi riuscito,
e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora più oscuri, e cerca
un meccanismo più perfetto. Gitta tutt'i personaggi nello stesso stampo,
e, per far seria la vita, la fa monotona e povera. Cerca una serietà
della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze contraddittorie,
senza scopo e senza dignità. Cerca l'eroico, quando mancavano le due
prime condizioni di ogni vera grandezza, la semplicità e la spontaneità.
La sua serietà è come la sua religione, superficiale e letteraria.
E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di credibilità e di
realtà. Sceglie i suoi elementi dalla storia; cerca esattezza di nomi
e di luoghi; guarda ad una connessione verisimile d'intreccio; e, come
uno scultore, ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di
proporzioni, che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli
i miracoli della forza fisica; nè la forza e il coraggio sono i soli
fattori del suo mondo, ma anche l'esperienza, la saggezza, l'abilità
e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme, accentuò ancora questa
sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e geografica. Nelle
sue tendenze critiche e artistiche si vede già un'anticipazione di quella
scuola storica e realista che si sviluppò più tardi. Ma sono tendenze
intellettuali, cioè puramente critiche, in contraddizione con lo stato
ancora fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca
e subbiettiva. Gli manca la forza di trasferirsi fuori di sè, non ha
il divino obblio dell'Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito
e nella sua vita interiore, attinge appena il suo aspetto materiale
e superficiale. Ciò che vive al di sotto è lui stesso: cerca l'epico,
e trova il lirico, cerca il vero o il reale, e genera il fantastico,
cerca la storia, e s'incontra con la sua anima.
La Gerusalemme conquistata, di aspetto più regolare e di un meccanismo
più severo, è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico, dal
quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme.
La base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita presa dal
vero, colta nella sua realtà storica e animata da spirito religioso.
Rimase in lui un mondo puramente intenzionale, un presentimento di una
nuova poesia, uno scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita
interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi.
Come in Dante, così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in
un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca
un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si
trasformano, gli altri ancora in formazione. Il di fuori è assai ben
congegnato e concorde; ma è una concordia meccanica e intellettuale,
condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme. Sotto a quel
meccanismo senti il disorganismo, un principio di vita molto attivo
nelle parti, che non giunge a formare una totalità armonica. Il fenomeno
è stato avvertito da' critici, a' quali è parso che l'interesse sia
maggiore negli episodi che nell'insieme; e questi episodi, Olindo e
Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti
vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia. Ma ciò che si chiama
«episodio» è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza
poetica; perchè il poema, sotto una vernice religiosa e storica, è nella
sua essenza un mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura dello
scrittore e del tempo.
Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo, che non
ha l'intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende
sul serio. La vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie
oziose e gaudenti era il romanzo, il maraviglioso delle avventure prodotte
da combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il
Tasso stesso era di un carattere romanzesco, insciente e aborrente delle
necessità della vita pratica. Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste
da contadino, e il suo presentarsi alla sorella non conosciuto, e la
scena tenera che ne fu effetto, è tutto un romanzo. Aggiungi le impressioni
letterarie che gli venivano dalla lettura dell'Ariosto e dell'Amadigi,
e la gran voga de' romanzi e il favore del pubblico, e ci spiegheremo
come la prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e
come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue velleità
religiose, storiche e classiche.
L'intreccio fondamentale del poema è un romanzo fantastico a modo ariostesco,
un'Angelica che fa perdere il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un
viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo,
e Ubaldo che attraversa l'Oceano per guarirlo con lo specchio della
ragione. Angelica e Armida sono maghe tutt'e due, e istrumenti di potenze
infernali, ma sono donne innanzi tutto, e la loro più pericolosa magia
sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica, così Armida si tira appresso
i guerrieri cristiani e li tien lontani dal campo; nè vi manca l'altro
mezzo ariostesco, la discordia, che produce la morte di Gernando, l'esilio
volontario di Rinaldo e la cattività di Argillano. Da queste cause,
le quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno di ragione
e svegliate da vane apparenze, escono le infinite avventure dell'Ariosto
e le poche del Tasso annodate intorno alla principale, Armida e Rinaldo.
La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la selva degli
errori e delle passioni, o delle vane apparenze, nè i cristiani possono
entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl'incanti, cioè
a dire, se non si purghino delle passioni. Questo è il concetto allegorico
di Dante, divenuto tradizionale nella nostra poesia, smarrito alquanto
nel pelago di avventure del Boiardo e dell'Ariosto, e ripescato dal
Tasso con un'apparenza di serietà, che non giunge a cancellare l'impronta
ariostesca, cioè quel carattere romanzesco, che gli avevano dato il
Boiardo e l'Ariosto. Intorno a questo centro fantastico moltiplicano
duelli e battaglie: materia tanto più popolare, quanto meno in un popolo
è sviluppato un serio senso militare. Il popolo italiano era il meno
battagliero di Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente
cerchiamo in questo mondo fantastico un senso storico e reale, ancorachè
il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti più cari della vita. Non
ci è la donna, non la famiglia, non l'amico, non la patria, non il raccoglimento
religioso, nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe e
Odoardo riesce una freddura. La «pietà» di Goffredo e la «saviezza»
di Raimondo sono epiteti. L'amicizia di Sveno e Rinaldo e nelle parole.
Unica corda è l'amore, e spesso riesce artificiato e rettorico, com'è
ne' lamenti di Tancredi e di Armida, ed anche in Erminia con quelle
sue battaglie tra l'onore e l'amore. Nessuna cosa vale tanto a mostrare
il fondo frivolo e scarso della vita italiana, quanto questi sforzi
impotenti del Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava.
Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore a
quell'esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicità, la vena, la
facilità e il brio dell'Ariosto: tutte le grandi qualità della forza.
Quella vita romanzesca, così ricca di situazioni e di gradazioni, così
piena di movimenti e di armonie, con una obbiettività e una chiarezza
che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto l'influsso di
una malia, se ne è ita per sempre.
Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico, e
qui è la sua creazione, qui sviluppa le sue grandi qualità. È un mondo
lirico, subiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca,
e, per dirlo in una parola, è un mondo sentimentale.
È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella natura e nell'uomo
le note più soavi e più delicate. Già questo sentimento si era sviluppato
al primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano, deviato
e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di romanzi.
L'idillio era il riposo di una società stanca, la quale, mancata ogni
serietà di vita pubblica e privata, si rifuggiva ne' campi, come l'uomo
stanco cercava pace ne' conventi. Sopravvennero le agitazioni e i disordini
dell'invasione straniera; e quando fine della lotta fu un'Italia papale
e spagnuola, perduta ogni libertà di pensiero e di azione, e mancato
ogni alto scopo della vita, l'idillio ricomparve con più forza, e divenne
l'espressione più accentuata della decadenza italiana. Solo esso è forma
vivente fra tante forme puramente letterarie.
L'idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello
spirito. Già si annunzia nel Petrarca, quale si afferma nel Tasso, un
dolce fantasticare tra' mille suoni della natura. L'anima ritirata in
sè è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza
e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale, acquista
una sensibilità, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni, voci
della vita interiore. Prevale nell'uomo la parte femminile, la grazia,
la dolcezza, la pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà e la
lacrima; tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il «sentimentale».
I popoli, come gl'individui, nel pendio della loro decadenza diventano
nervosi, vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle
cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un sentimento che viene dalla
loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere
la realtà in se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere
o dolci illusioni, nelle quali l'anima effonde la sua sensibilità. Il
sentimento è perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro
è tutto al di dentro, ci si sente l'opera dello spirito, non so che
manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della
sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.
Il Tasso cerca l'eroico, il serio, il reale, lo storico, il religioso,
il classico, e si logora in questi tentativi fino all'ultima età. Sarebbe
riuscito un Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta, il poeta
inconscio d'un mondo lirico e sentimentale, che succedeva al mondo ariostesco.
A quest'ufficio ha tutte le qualità di poeta e di uomo. L'uomo è fantastico,
appassionato, malinconico, di una perfetta sincerità e buona fede. Il
poeta è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La
sua immaginazione non è chiusa in sè, come in un ultimo termine, a quel
modo che dal Boccaccio all'Ariosto si rivela nella poesia, ma è penetrata
di languori, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore.
L'Ariosto dice:
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che parea ad ascoltar fermare i venti.
Il sentimento appena annunziato si scioglie in una
immagine fantastica. Il Tasso dice:
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave,
ch'al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lacrimar gl'invoglia e sforza.
Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva, che
rimane superiore all'emozione e cerca il suo riposo non nel particolare,
ma nell'insieme: qualità della forza. Nella forma del Tasso ci è l'impressionabilità,
che turba l'equilibrio e la serenità della mente, e la trattiene intorno
alla sua emozione: l'immagine si liquefà e diviene un «non so che»,
annunzio dell'immagine che cessa e dell'emozione che soverchia:
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.
Anche tra' furori delle battaglie la nota prevalente
è l'elegiaca, come nella ottava:
Giace il cavallo al suo signore appresso.
Ne' casi di morte gli riesce meglio l'elegiaco che
l'eroico. Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco.
Solimano, che
... ... gemito non spande,
nè atto fa se non altero e grande,
ti offre un'immagine indistinta. Argante muore come
Capaneo, ma la forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que'
moti «superbi, formidabili, feroci» non ti dànno niente di percettibile
avanti all'immaginazione. L'idea in queste forme rimane intellettuale,
non diviene arte. Al contrario precise, anzi pittoresche, sono le immagini
di Dudone, di Lesbino, de' figli di Latino, di Gildippe ed Odoardo,
dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza. Così è pure
nella morte di Clorinda; ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza
di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: - Io sono in
pace -; ma è una Beatrice spogliata de' terrori e degli splendori della
sua divinità. Il sole non si oscura, la terra non trema, e gli angioli
non scendono come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida,
ci è innanzi a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l'occhio
dell'inquisitore. L'elemento religioso era ammesso come macchina poetica,
a quel modo che la mitologia: tale è l'angiolo di Tortosa, e Plutone,
messi insieme. È una macchina insipida in tutt'i nostri epici, perchè
convenzionale, e non meditata nelle sue profondità. Gli angioli del
Tasso sono luoghi comuni, e il suo Plutone, se guadagna come scultura,
è superficialissimo come spirito, e parla come un maestro di rettorica.
La parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in voga
a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso. La
morte di Clorinda non è una trasfigurazione, come quella di Beatrice,
e si accosta al carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura,
nel cui bel volto «morte bella parea». Qui tutto è preciso e percettibile,
il plastico è fuso col sentimentale, il riposo idillico col patetico,
e l'effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietà senz'accento,
come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana e vera e
semplice, perchè rispondente alle reali impressioni e parvenze di un'anima
addolorata:
... ... in lei converso
sembra per la pietate il cielo e il sole.
La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole
di Sofronia:
Mira il ciel com'è bello, e mira il sole
che a sè par che ne inviti e ne console.
Movimento lirico, che ricorda immagini simili di Dante
e del Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco,
quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso, come
nelle prime parole di Sofronia, che hanno aria di una riprensione amorevole
fatta da un confessore a un condannato a morte, o nelle parole di Piero
a Tancredi, che hanno aria di predica. La sua anima candida e nobile
la senti più nelle sue imitazioni petrarchesche e platoniche, che in
ciò che tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia,
che fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa una simile e
più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere, è tutta l'epopea
di quel secolo, ci è in lei la santa, la donna, ed anche il dottore
di teologia; Sofronia è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale
e solitaria in un mondo dissonante,
perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a cominciare da
quella «vergine di già matura verginità» per finire in quel bruttissimo:
... ... ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa
con le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il
femminile con la sua grazia e amabilità. È uscita dal cervello concetto
cristiano con reminiscenze pagane e platoniche. Colui che l'ha concepita,
pensava a Eurialo e Niso, a Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta
nel suo intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua coscienza
e nella sua immaginazione così com'era, nel suo immediato. Il che avviene
quando la coscienza e l'immaginazione sono già preoccupate, e non conservano
nella loro verginità le concezioni dell'intelletto. Se è vero che, concependo
Sofronia, il Tasso pensasse a Eleonora, è una ragione di più, che ci
spiega l'artificio e la durezza di questa costruzione. Perciò Sofronia
è la meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso, e non
è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata da Olindo, il femminile,
in un episodio dove l'uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore,
come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere non è la forza,
qualità estranea al tempo ed al Tasso, e che senti così bene in quel
sublime: «Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum», imitato
qui a rovescio e rettoricamente. Il carattere di questo timido amante,
«o mal visto, o mal noto, o mal gradito», presentato a' lettori in una
forma artificiosa e sottile, è l'eco del Tasso, un'anticipazione del
Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel poeta, un elegiaco spinto
sino al gemebondo, un idillico spinto sino al voluttuoso. Il vero eroe
del poema è Tancredi, che è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico
e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi più moderni, come in
Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel senso più delicato
e nobile, gagliardo e destro più che gigantesco di corpo, malinconico,
assorto, flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda
è una Camilla battezzata, tradizione virgiliana che al momento della
morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere muto, diviene intelligibile
e umano in morte, come Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi
ricorda quella di Laura, ed è una delle più felici imitazioni. La formazione
poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane reminiscenza
petrarchesca. E se vuoi trovare l'ideale femminile compiutamente realizzato
nella vita in quel suo complesso di amabili qualità, dèi cercarlo non
nella donna, ma nell'uomo, nel Petrarca e nel Tasso, caratteri femminili
nel senso più elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del
Tasso, il Tancredi. Si è detto che l'uomo nella sua decadenza tenda
al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico. Il simile
è de' popoli. E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione poetica
tra' languori e i lamenti dell'idillio e dell'elegia, divenuto sensitivo
e delicato e musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa
rompere la superficie ariostesca, e gli fa cavare di là dentro i primi
suoni dell'anima. L'uomo non è più al di fuori, si ripiega, si raccoglie.
Lo stesso Argante è colpito da questo sublime raccoglimento innanzi
alla caduta di Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine
di Cartagine, o quando nell'immensità dell'oceano concepisce e comprende
Colombo. Qui è l'originalità e la creazione del gran poeta, che sorprende
Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria. Vita intima,
della quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria.
Con l'elegiaco si accompagna l'idillico. L'immagine sua più pura e ideale
è l'innamorata Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo della
vita campestre. Quella scena è tra le più interessanti della poesia
italiana. Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e fredda e
accademica nelle sue discussioni tra l'onore e l'amore; ma quando si
abbandona all'amore, si rivelano in lei di bei movimenti lirici, come:
Oh belle agli occhi miei tende latine!
Nella sua anima ci è l'impronta malinconica e pensosa
del Tasso, una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien lontana
dalla disperazione, e la dispone alla pace e alla solitudine campestre,
della quale un pastore gli fa un quadro tra' più finiti della nostra
poesia. Erminia errante pe' campi con le sue pecorelle, tutta sola in
compagnia del suo amore, pensosa e fantastica e lacrimosa, espande le
sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini
che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in
una musica nuova, piena di misteri o di «non so che» nella sua melodia.
Un traduttore può rendere il senso, ma non la musica di quelle ottave.
L'anima del poeta non è nelle cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata
alcuna volta la proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le alte
qualità dello stile, che rendono ammirabile il Petrarca, suo ispiratore:
pur non te ne avvedi sotto la malia di quell'onda musicale, che non
è un artifizio esteriore e meccanico, ma è il non so che del sentimento,
che viene dall'anima e va all'anima.
L'idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza del poema,
il suo significato. La base ideale del poema è il trionfo della virtù
sul piacere, o della ragione sulle passioni. Un lato di questa base
rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in esortazioni
paterne, come:
Signor, non sotto l'ombra o in piaggia molle,
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima all'erto e faticoso colle
della virtù riposto è il nostro bene.
Contrapposto alla virtù è il piacere, e qui si sviluppano
tutte le facoltà idilliche del poeta. In Erminia l'idea idillica è la
pace della vita campestre, farmaco del dolore vòlto in dolce melanconia.
Qui l'idea idillica è il piacere della bella natura spinto sino alla
voluttà e alla mollezza, come ozio di anima e contrapposto alla virtù
e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto: «quel che piace, ei
lice», traduzione del dantesco: «libito fe' licito». Questa idea è sviluppata
nel canto della ninfa e nel canto dell'uccello, che sono due veri inni
al Piacere:
Solo chi segue ciò che piace è saggio.
Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per
naturalezza e semplicità, che soggioga anche il severo Galilei, e gli
fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinità dell'Ariosto. L'altro
canto è fondato su questo concetto maneggiato così spesso da Lorenzo
e dal Poliziano: «Amiamo, chè la vita è breve». L'immagine è anche imitata
dal Poliziano: è la descrizione della rosa, fatta pure dall'Ariosto;
ma, dove nel Poliziano ci è il puro sentimento della bellezza, qui si
sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l'impressione non è la
bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto immortale,
penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso è una voluttà resa
più intensa da immagini tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti
del piacere e dell'amore. Il protagonista di questo mondo idillico è
Armida, anzi questo mondo è il suo prodotto, perchè essa è la maga del
piacere che gli dà vita. Armida e Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero,
e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra
risale ad Achille in Sciro, come l'idea dell'amore sensuale che trasforma
gli uomini in bestie è già tutta intera nella maga Circe. Di questa
lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici in tutte
le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida
una vittima della sua magia. La donna vince la maga, e come Cupido finisce
innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano, Armida finisce
donna che obblia Idraotte e l'inferno e la sua missione, e pone la sua
magia a' servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più interessante
di Alcina, e le dà un nuovo significato. È l'ultima apparizione magica
della poesia, apparizione entro la quale penetra e vince l'uomo e la
natura. È il soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della
natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie,
che si rivela co' suoi istinti nella pienezza della vita terrena. Già
in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto
allora, e allora appunto comincia la storia di Armida. Angelica, terminando
le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un «povero
fante», è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo risolino ironico.
Il concetto, ripigliato dal Tasso, diviene una interessante storia di
donna, a cui l'arte magica dà il teatro e lo scenario. Così la maga
Armida è l'ultima maga della poesia e la più interessante nella chiarezza
e verità della sua vita femminile. Vive anche oggi nel popolo più che
Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè unisce tutti gli splendori
della magia con tutta la realtà di un povero core di donna. La sua riabilitazione
è in quell'ultimo motto tolto alla Madonna: - Ecco l'ancilla tua -;
conclusione piena di senso: molto le è perdonato, perchè ha molto amato.
Ed è l'amore che uccide in lei la maga e la fa donna. Trasformazione
assai più poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond'è
che Rinaldo nella sua conversione t'interessa assai meno che Armida
in questa sua trasfigurazione, perchè quella conversione nasce da cause
esterne e soprannaturali, e questa trasfigurazione è il logico effetto
di movimenti interni e naturali.
In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale uscì dalla mente
di Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in
Clorinda, non il tipo divino, eroico e tragico della donna, ma un tipo
più umano, idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua debolezza.
Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive perchè ama, e,
perchè ama, opera, ma le sue vere azioni sono discorsi interiori, visioni,
estasi, illusioni, lamenti e lacrime, tutto un mondo lirico, che si
effonde con una dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella
è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi, lontanissime
dal modello. Nè tra le creature idilliche del Boccaccio, del Poliziano,
del Molza, del Sannazzaro c'è nessuna che le si avvicini. In Armida
si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile con le sue voluttà,
con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue gelosie e i suoi
odii. Nessuno aveva ancora colta la donna con un'analisi così fina nell'ardenza
e nella fragilità de' suoi propositi, nelle sue contraddizioni. La lingua
dice: - Odio -, e il cuore risponde: - Amo; - la mano saetta, e il cuore
maledice la mano:
e mentre ella saetta, Amor lei piaga.
Si dirà che tutto questo non è eroico, e non tragico;
e appunto per questo elle sono creature viventi, figlie non dell'intelletto,
ma di tutta l'anima, con l'impronta sulla fisonomia del poeta e del
secolo.
Il mondo idillico, figlio della mente d'Armida, è il palazzo e il giardino
incantato, cioè la bella natura campestre resa artistica, trasformata
dall'arte in istrumento di voluttà, sì che pare che «imiti l'imitatrice
sua». Nell'Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze,
ne' giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre
o idillica, e il suo ideale umano è la vita pastorale: l'età dell'oro
attinge anche di là le sue immagini. Il quadro abituale della poesia
classica e italiana è il verde de' campi, i fiori, gli alberi, il riso
della primavera, le fresche ombre, gli antri, le onde, gli uccelli,
le placide aurette, quadro decorato dall'arte con le sue statue e i
suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo
di Colombo e di Copernico, e ne senti l'impressione nell'immensità dell'oceano,
dove il Tasso trova alcune belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio,
toccando le isole Fortunate, soggiorno di Armida, ricasca nel solito
quadro, e vi pone l'ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto
tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l'immaginazione
poetica da Omero all'Ariosto; ma è nell'ultima sua forma, raffinata
o artificiosa. Come Dante crea una natura oltremondana, il Tasso crea
una natura oltrenaturale, una natura incantata, il paradiso della voluttà.
Non è la natura còlta nell'immediato della sua esistenza, ma natura
artefatta, lavorata e trasformata da un artista, che ha fini e mezzi
suoi, e l'artista è Armida, maestra di vezzi e di artifici, che crea
intorno a sè una natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria
della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un
poeta che a un sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva tutte
le finezze dello spirito.
Abbiamo anche una selva incantata, cioè una selva artefatta, e accomodata
ad uno scopo a lei estraneo. L'incanto ne' romanzi cavallereschi è così
arbitrario come la natura, e non è altro che combinazione straordinaria
di apparenze, che déstino curiosità e maraviglia. Qui, come è concepito
dal Tasso, l'incanto è ragionevole, e perciò intelligibile, è la natura
rimaneggiata dall'arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino
e il palazzo incantato, così la selva incantata è opera di artista che
l'atteggia a suo modo e secondo i suoi fini. Il concetto non è nuovo:
è la nota selva delle false apparenze, la selva degli errori e delle
passioni; ma l'esecuzione è originalissima, e ti offre il microcosmo
del Tasso, il suo mondo elegiaco-idillico condensato e accentuato. Ci
è lì fuso insieme Erminia e Armida, Tancredi e Rinaldo, tutta l'anima
poetica del Tasso, ciò che di più tenero ha l'elegia e ciò che di più
molle ha l'idillio, ne' loro accenti più musicali.
Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme, un mondo musicale,
figlio del sentimento, che dalla più intima malinconia va digradando
fino al più molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano,
manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana, e la decisione e chiarezza
lombarda così ammirabile nell'Ariosto, ma gli abbonda quel senso della
musica e del canto, quel dolce fantasticare dell'anima tra le molli
onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle
popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.
Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei «concetti». Come
il Petrarca, così il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio
che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena
di reminiscenze, e non coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso
i libri. Lavora sopra il lavoro, raffina, aguzza immagini e concetti:
la qual forma nella sua esteriorità meccanica egli la chiama il «parlare
disgiunto», ed è un «lavoro di tarsie», come diceva il Galilei. Cercando
l'effetto non nell'insieme, ma nelle parti, e facendo di ogni membretto
un mondo a sè, raffinato e accentuato, le giunture si scompongono, l'organismo
del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di parallelismo, concetti
e immagini a due a due, posti di fronte in guisa che si dieno rilievo
a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l'antitesi, presa in un
senso molto largo, cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili
o dissimili posti dirimpetto, come:
Molto egli oprò col senno e colla mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto:
e invan l'inferno a lui s'oppose, e invano
si armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Quel «molto» e quell'«invano» sono il ritornello di
una cantilena chiusa in se stessa ed esaurita nell'espressione di un
rapporto tra due oggetti. Naturalmente, cercando l'effetto in quel rapporto,
l'intelletto vi prende parte più che non si convenga a poeta, e riesce
nel raffinato e nel concettoso, come:
Oh di par con la man luci spietate!
Essa le piaghe fe', voi le mirate.
Questo parallelismo, fondato sopra ritornelli di parole,
ravvicinamenti di oggetti, e straordinarietà di rapporti, non è un accidente
è il carattere di questa forma con gradazioni più o meno spiccate. E
non attinge solo i pensieri, ma anche le immagini, come:
... ... e par che porte
lo spavento negli occhi e in man la morte.
L'immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre
a' fianchi un pedagogo, che analizza e distingue con logica precisione,
come:
Sparsa è d'armi la terra, e l'armi sparte
di sangue, e il sangue col sudor si mesce.
Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo, dare
un significato anche all'insignificante, e cerca il significato ne'
rapporti intellettuali anche tra la maggiore evidenza della rappresentazione
e la concitazione più violenta dell'affetto, come:
O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!
Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna
Tancredi e infuria Armida, la quale anche nella disperazione del suicidio
fa un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso, e finisce:
sani piaga di stral piaga d'amore,
e sia la morte medicina al core.
È ciò che fu detto «orpello del Tasso» o maniera, propria
de' poeti subiettivi, una forma artificiosa di rappresentazione, dove
l'interessante non è la cosa, ma il modo di guardarla. In questo caso
la forma non è la cosa, ma lo spirito, con le sue attitudini facilmente
classificabili ne' loro caratteri esteriori, e divenute maniera o abitudine
nella rappresentazione, com'è il petrarchismo o il marinismo. Essendo
il proprio di questa maniera una cantilena breve e chiusa, che ha il
suo valore non solo nel rimanente della clausola, ma in se stessa, vi
si sviluppa l'elemento cantabile e musicale, una enfasi sonora, un suono
di tromba perpetuo e monotono, con certe pause, con certi trilli, con
certe ripigliate, con un certo sopratuono come di chi gridi e non parli,
che non comporta la semplice recitazione, come si può in molti passi
di Dante, del Petrarca e dell'Ariosto, ma ti costringe alla declamazione.
Ci è un «arma virumque cano» dal principio all'ultimo, un accento
sollevato e teso, come di chi si trovi in uno stato cronico di esaltazione.
Indi, scelta di parole sonanti, riempiture di epiteti e di avverbi,
nobiltà convenzionale di espressione, povertà di parole, di frasi, di
costruzioni e di gradazioni. Con questa forma declamatoria si accompagna
naturalmente la rettorica, che è quel tenersi su' generali, e ravvivare
luoghi comuni o concettosi con un calore tutto d'immaginazione, tra
uno scoppiettio di apostrofi, epifonemi, ipotiposi, interrogazioni ed
esclamazioni: il che gli avviene massime quando mira alla forza di concitate
passioni, come sono i lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa
è la «maniera» del Tasso, per entro alla quale penetra il potente soffio
d'un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti nella loro energia
pieni di semplicità. Nelle ultime parole di Clorinda ci è un sì e un
no in battaglia, «al corpo no, all'anima sì»; ma, salvo questo, che
affetto e quanta semplicità in quell'affetto ! Togliete quel fiato al
Petrarca e al Tasso, cosa rimane? La maniera, il petrarchismo e il marinismo,
il cadavere de' due poeti.
La Gerusalemme non è un mondo esteriore, sviluppato ne' suoi
elementi organici e tradizionali, come è il mondo di Dante o dell'Ariosto.
Sotto le pretensiose apparenze di poema eroico è un mondo interiore,
o lirico, o subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico,
eco de' languori, delle estasi e de' lamenti di un'anima nobile, contemplativa
e musicale. Il mondo esteriore ci era allora, ed era il mondo della
natura, il mondo di Copernico e di Colombo, la scienza e la realtà.
Anche il Tasso ne ha un bagliore, e visibili sono qui le sue intenzioni
storiche, reali e scientifiche, rimaste come presentimenti di un mondo
letterario futuro. L'Italia non era degna di avere un mondo esteriore,
e non l'aveva. Perduto il suo posto nel mondo, mancato ogni scopo nazionale
della sua attività, e costretta alla ripetizione prosaica di una vita,
di cui non aveva più l'intelligenza e la coscienza, la sua letteratura
diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla vita, un gioco
dello spirito senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e rettorico
anche sotto le apparenze più eroiche e più serie. Di questa tragedia
Torquato Tasso è il martire inconscio, il poeta appunto di questa transizione;
mezzo tra reminiscenze e presentimenti, fra mondo cavalleresco e mondo
storico; romanzesco, fantastico, tra le regole della sua poetica, la
severità della sua logica, le sue intenzioni realiste e i suoi modelli
classici; agitantesi in un mondo contraddittorio senza trovare un centro
armonico e conciliante; così scisso e inquieto e pieno di pentimenti
nel suo mondo poetico, come nella vita pratica. Miserabile trastullo
del suo cuore e della sua immaginazione, fu là il suo martirio e la
sua gloria. Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio già
esaurito, vi gittò dentro se stesso, la sua idealità, la sua sincerità,
il suo spirito malinconico e cavalleresco, e là trovò la sua immortalità.
Ivi si sente la tragedia di questa decadenza italiana. Ivi la poesia
prima di morire cantava il suo lamento funebre, e creava Tancredi, presentimento
di una nuova poesia, quando l'Italia sarà degna di averla.
XVIII - MARINO
Questo mondo lirico, che nella Gerusalemme si
trova mescolato con altri elementi, apparisce in tutta la sua purezza
idillica ed elegiaca nell'Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero
mondo del suo spirito e lo conduce a grande perfezione.
L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto
nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione
drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie
e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia. Citerò la Virginia
dell'Accolti, resa celebre dall'imitazione di Shakespeare. Essa è in
fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco
che dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone,
che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca
de' due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti
più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi
semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti
dei personaggi misti alla narrazione. Di tal genere erano anche le egloghe
o commedie pastorali, iniziate fin da' tempi del Boiardo nella corte
di Ferrara, e giunte allora a una certa perfezione d'intreccio e di
meccanismo nel Sacrificio del Beccari, nell'Aretusa del
Lollio e nello Sfortunato dell'Argenti. Queste ecloghe, che dalla
semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad un serio
viluppo drammatico, furono dette senza più «favole boscherecce». E anche
commedie pastorali.
L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o
da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse
è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori,
il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: «s'ei
piace, ei lice». Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici,
anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci,
soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra
una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa
anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile,
che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura
che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità
meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo
tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità
è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.
Tentò il Tasso anche la tragedia classica, e ad imitazione di Edipo
re scrisse il suo Torrismondo. Ma l'Italia non avea più la
forza di produrre nè l'eroico, nè il tragico, e lì non ci è di vivo
se non quello solo di vivo che era nel poeta e nel tempo, l'elemento
elegiaco, massime ne' cori. I contemporanei credettero di avere il poema
eroico nella Gerusalemme, e non molto soddisfatti del Torrismondo
aspettavano ancora la tragedia classica.
Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche canzone, effusione
di anima tenera e idillica. Invano vi cerco i vestigi di qualche seria
passione. Repertorio vecchio di concetti e di forme con i soliti raffinamenti.
Dipinge bella donna così:
Chè del latte la strada
ha nel candido seno,
e l'oro delle stelle ha nel bel crine,
ne' lumi ha la rugiada.
Il suo dolore esprime a questo modo:
Fonti profonde son d'amare vene
quelle ond'io porto sparso il seno e 'l volto;
è 'nfinito il dolor, che dentro accolto
si sparge in caldo pianto e si mantene:
nè scema una giammai di tante pene,
perch'il mio core in dolorose stille
le versi a mille a mille.
I sentimenti umani sono petrificati nell'astrazione
di mille personificazioni, come l'amore, la pietà, la fama, il tempo,
la gelosia, e nel gelo di dottrine platoniche e di forme petrarchesche.
Quel che sieno le sue prose, si può immaginare. Dottissime, irte di
esempi e di citazioni, in istil grave, in andamento sostenuto, ma non
inceppato, sfolgoranti di nobili sentimenti. Quando esprime direttamente
i moti del suo animo, mostra un affetto rilevato da una forma cavalleresca
e di gentiluomo anche nell'abiezione della sua sorte, com'è in alcune
sue lettere. Quando specula, come ne' Dialoghi, senti ch'è fuori
della vita, e sta in quistioni astratte, o formali. Ci è un libro che
volontariamente ha chiuso, ed è il libro della libera investigazione.
Nella sua giovinezza l'autore del Rinaldo, dedito a furtivi e
disordinati amori, era anche infetto dalla peste filosofica. La gran
quistione era qual fosse superiore, la fede o la religione, la volontà
o l'intelletto. I filosofi moderni rivendicano, egli dice, la sovranità
dell'intelletto, e sostengono che l'uomo non può credere a quello che
ripugna all'intelletto. Tratto dalla corrente, il giovine Tasso non
crede all'incarnazione, nè all'immortalità dell'anima, e di quei suoi
costumi e di queste opinioni i suoi avversari gli fecero carico presso
la corte, quand'egli era già pentito e confesso e animato da zelo religioso.
La sua religione è messa d'accordo con la sua filosofia su questo bel
ragionamento, che l'intelletto non può spiegare tante cose che pure
esistono, e che perciò esistono anche le verità della fede, ancorchè
l'intelletto non sia giunto a spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito
e dotto che filosofo, e rimane segregato da tutto quel movimento intellettuale
intorno alla natura e all'uomo che allora ferveva anche in Italia, abbandonandosi
al suo naturale discorso timidamente, e non senza aggiungere che se
cosa gli vien detta non pia e non cattolica, sia per non detta. Odia
a morte i luterani, ha in sospetto i filosofi «moderni», e cerca un
rifugio negli antichi, massime in Platone, più affine alla sua natura
contemplativa e religiosa. De' suoi dubbi, delle sue ansietà, della
sua vita intellettuale interiore non è rimasto un pensiero, non un grido.
Ci è qui l'anima di Pascal o di sant'Agostino, cristallizzata in quell'atmosfera
inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi platonici. Uno de'
suoi più interessanti dialoghi è quello che prende il nome del Minturno,
scrittore napolitano, che fra l'altro die' fuori una Poetica.
Ivi il poeta investiga la natura del bello, confutando tutte le definizioni
volgari, e conchiude che il bello è la natura angelica, ovvero l'anima
«in quanto si purga», che è appunto il concetto della sua Gerusalemme.
Evidentemente, confonde il bello col vero e colla perfezione morale,
intravede l'ideale, e non lo coglie, e si discosta dalla poesia quanto
più si accosta a quel concetto, come nella Conquistata e nelle
Sette giornate. Il dialogo è platonico nel concetto e nell'andamento,
ma vi desideri la grazia e la freschezza di quel divino.
Il secolo comincia con l'Arcadia del Sannazzaro, e finisce con
l'Arcadia del Guarini, detta il Pastor fido. L'idillio, attraversato
nel suo cammino dalla moda cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone
del campo, sviluppandosi a forma drammatica.
L'idillico e il comico erano generi viventi insieme col romanzesco,
e rappresentavano quella parte di vita poetica rimasta all'Italia. Il
tragico e l'eroico erano pura imitazione. Perciò il comico e l'idillico
si sprigionano in parte dalle forme classiche e prendono un aspetto
più franco.
Il comico sviluppato in una moltitudine di novelle e di commedie lasciava
quel fondo convenzionale di Plauto e Terenzio, e produceva caratteri
freschi e vivi, e per piacere si accostava alle forme della vita popolare
e anche a quel linguaggio, ora mescolando con l'italiano il dialetto,
ora scrivendo tutto in dialetto. Le farse napolitane accennavano già
a questo genere. Ne scrisse anche di simili Beolco, o il Ruzzante, detto
il «famosissimo». Gli attori cominciarono a contentarsi del canavaccio,
o del semplice ordito, come si fa ne' balli teatrali, e improvvisavano
il linguaggio, a quel modo che facevano gli antichi novellieri. Compagnie
di rapsodi, o improvvisatori, si sparsero in Italia, e anche più tardi
a Parigi e a Londra, traendosi appresso un repertorio, dove attinsero
molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche Shakespeare e Molière.
Come ci era un fondo comune d'invenzione, così ci erano caratteri fissi
e determinati, che comparivano in maschera, e alcuni anche senza, come
Pantalone, Brighella, Arlecchino, Pulcinella, il Dottore bolognese,
il capitan Spavento, o il capitano Matamoros, il servo sciocco, come
Trappola, e simili. Rappresentazioni, che ricordavano le atellane dell'antica
Roma, e si chiamavano «commedie a soggetto», dove non ci era altro di
espresso che il soggetto. Gli attori erano anche autori, e spesso rappresentavano
prima una commedia «erudita», e poi per far piacere al pubblico improvvisavano
una commedia a soggetto, o «dell'arte». Intrighi amorosi, combinazioni
straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute, certi caratteri
tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo, il pedante, la
mezzana, l'usuraio, sono il fondo di questi repertorii popolari, a'
quali si avvicinano molto le commedie dell'Aretino. Ivi si trovano i
secreti della vita e del carattere italiano, assai più che in tutte
le imitazioni classiche. Una storia della commedia e della novella in
tutte le sue forme sarebbe un lavoro assai istruttivo, e se ne caverebbero
elementi preziosi per la storia della società italiana. Un ricco repertorio
di soggetti sceneggiati ci ha lasciato nelle sue Cinquanta giornate
Flaminio Scala, autore e attore così famoso come il «famosissimo» Ruzzante,
e Andrea Calmo, «stupore e miracolo delle scene». Flaminio rappresentava
la parte dell'innamorato, e fu il capo di quella compagnia comica che
aprì il primo teatro italiano a Parigi nel 1577, sotto Enrico terzo.
Celebre attrice fu sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di Padova,
sposata a Francesco Andreini, che rappresentava la parte del capitan
Spavento. Isabella, celebrata dal Tasso, dal Castelvetro, dal Campeggi,
dal Chiabrera, morì a Lione, e nella scritta posta al suo sepolcro è
detta «Musis amica et artis scaenicae caput». Pari a lei di fama
e di genio e di virtù fu Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice,
che ne' drammi pastorali rappresentava la parte di Clori. La parte del
Dottore fu resa celebre dal Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande
interprete in Giovanni Ganassa, da Bergamo, che nel 1570 introdusse
nella Spagna la commedia dell'arte, come Flaminio aveva fatto a Parigi
e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di Ferrara, celebrato
dal Tasso e dal Guarini, che intitolò dal suo nome un'apologia del suo
dramma. La commedia dell'arte non era altro se non la stessa commedia
erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata nella vita popolare,
maneggiata da scrittori meno dotti, ma più pratici del teatro e più
intelligenti del gusto pubblico: perciò più svelta e vivace nel suo
andamento, e rallegrata da quello spirito che viene dall'improvviso
e dall'uso del dialetto, non senza cadere a sua volta nel vizio opposto
alla pedanteria, ne' lazzi sconci degli Arlecchini. Di essa non sono
rimasti che gli scheletri: tutto ciò che vi aggiungeva l'immaginazione
improvvisatrice vive solo nell'ammirazione de' contemporanei.
Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento idillico,
con tanto più forza quanto la società era più artificiata e raffinata.
L'idillio si presentava come contrasto tra l'onore e l'amore, tra la
città e la villa, tra le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente
è l'amore o la natura che vince. La felicità, posta nell'età dell'oro,
cioè a dire fuori de' travagli e delle agitazioni della vita reale,
nel riposo o tranquillità dell'anima; la vita rustica con quelle bellezze
della natura, con quella vita di godimenti semplici, con quella spontaneità
e ingenuità di sentimenti, era quel naturale contrapposto di un mondo
convenzionale, che senti nell'Aminta e nel «pastore» di Erminia.
L'ideale poetico posto fuori della società in un mondo pastorale rivelava
una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità. La poesia incalzata
da tanta prosa si rifuggiva, come in un ultimo asilo, ne' campi, e là
gli uomini di qualche valore attingevano le loro ispirazioni, di là
uscirono i versi del Poliziano, del Pontano e del Tasso. Come la commedia
a soggetto era il pascolo della plebe, il dramma pastorale era il grato
trattenimento delle corti, che ci trovavano un linguaggio più castigato
e predicatore di virtù fuori di ogni applicazione alla vita pratica.
Perciò, come la commedia divenne sempre più licenziosa e plebea, il
dramma pastorale prese aria cortigiana, e quel mondo semplice della
natura si manifestò con una raffinatezza degna delle nobili principesse
spettatrici. Questo carattere già visibile nell'Aminta diviene
spiccatissimo nel Pastor fido. Giambattista Guarini fu poeta
di occasione e cortigiano di natura, dove il Tasso fu tutto l'opposto:
cortigiano per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e
ricco, e non lo strinse alla vita di corte che la sua natura irrequieta
e ambiziosa. Passò il tempo errando di corte in corte, e dopo i disinganni
correva dietro a nuovi inganni. Aveva molto ingegno, non comune coltura,
assai pratica della vita e degli uomini, mente chiarissima, grande attività.
Compagno negli studi col Tasso a Padova, fu a Ferrara suo emulo, e quando
il Tasso capitò in prigione, prese il suo posto e fu battezzato poeta
di corte. Disgustato a sua volta degli Estensi, si ritirò in una sua
bellissima villa, e vi concepì e vi scrisse il Pastor fido, acclamato
da tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni critiche. Volle fare
una tragicommedia, mescolanza di elementi tragici e comici in un ordito
largo e ricco, dove fossero innestate più azioni. Questo parve eresia
a' critici, tenaci al «simplex et unum», e che non concepivano
l'arte se non come un ideale tragico o comico. Si ravvivarono adunque
quelle polemiche letterarie, che dal Castelvetro e dal Caro in qua mettevano
in moto tante accademie. Il Guarini si difese assai bene nell'Apologia,
e mostrò coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo
non fu senza influenza sulla sua critica, ma, come tutto si diffiniva
con l'autorità de' classici, difese quell'innesto di azioni e quella
mescolanza di caratteri con Aristotile alla mano e con l'Andria di
Terenzio. Oggi gli si fa gloria di quello che allora si reputava peccato.
Si dice ch'egli abbia intraveduto il dramma moderno, e non solo lo intravide,
ma lo concepì con l'esattezza di un critico odierno. La poesia dee rappresentare
la vita così com'è, con le sue mescolanze e i suoi sviluppi: questo
è il concetto ch'esce chiaramente dal suo discorso. Ma quello che in
Shakespeare e in Calderon è sentimento dell'arte sviluppato naturalmente
in una vita nazionale, ricca e piena, in lui è visione intellettuale
e solitaria, è concetto di critico, non sentimento di artista; concepiva
il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni in Italia,
principalmente una vita seria e sostanziale. La sua critica fa onore
all'intelletto italiano, allora nel fiore del suo sviluppo, e rivela
insieme la decadenza della facoltà poetica.
Il Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione tecnica, è ciò
che di più perfetto offriva la poesia. Due azioni entranti naturalmente
l'una nell'altra e magnificamente innestate, caratteri ben trovati e
ben disegnati e perfettamente fusi nella loro mescolanza, una superficie
levigata con l'ultima eleganza, una versificazione facile, chiara e
musicale fanno di questo poemetto, per ciò che si attiene a costruttura
e ad abilità tecnica, un gioiello. Tutto ciò che chiarezza d'intelletto
e industria di stile e di verso può dare, è qui dentro. Il concetto,
come nell'Aminta, è il trionfo della natura, con la quale il
destino, in lotta apparente, si riconcilia da ultimo, mediante le solite
agnizioni. Il poema è un'apoteosi della vita pastorale e dell'età dell'oro,
contrapposta alla corruzione e alle agitazioni della città, e invocata
spesso da' personaggi con senso d'invidia nella stretta delle loro passioni.
Abbondano invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose; ma il
fondo è sostanzialmente pagano e profano, è il naturalismo, la natura
scomunicata e condannata come peccato, che qui, dopo lunga lotta, si
scopre non essere altro che la stessa legge del destino. La conclusione
è: «Omnia vincit amor», riconciliato col destino e divenuto virtù,
con tanto più sapore, con quanto più dolore:
Quello è vero gioire,
che nasce da virtù dopo il soffrire.
Ma la virtù è nome, e la cosa è il godimento amoroso
sotto forme così voluttuose, che il Bellarmino ebbe a dire aver fatto
più male con quel suo libro il Guarini che non i luterani. Dal concetto
nasce tutto l'intrigo. Corisca e il satiro sono l'elemento comico e
plebeo: l'una è la donna corrotta della città, tornata a' campi e divenuta
il mal genio di questa favola, l'altro è l'ignoranza e la grossolanità
della vita naturale ne' suoi cattivi istinti, e tutti e due sono la
macchina poetica, l'istrumento che annoda gli avvenimenti e produce
la catastrofe. I protagonisti sono Mirtillo e Amarilli, che si amano
senza speranza, essendo Amarilli fidanzata a Silvio, il quale, come
la Silvia dell'Aminta, è dedito alla caccia, ed ha il core chiuso
all'amore, invano amato da Dorinda, invano fidanzato ad Amarilli. Mirtillo
ed Amarilli per inganno di Corisca e per la bestialità del satiro sono
dannati a morte, mentre Silvio per errore ferisce Dorinda, travestita
e scambiata per lupo. All'ultimo, Silvio s'intenerisce e sposa Dorinda,
e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio, figlio di Montano,
che dovea essere fidanzato ad Amarilli, la sposa. Così la natura, posta
d'accordo co' responsi dell'oracolo trionfa; e tutti contenti, la natura
e il destino, gli dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi
di un dramma, e «dramma» lo chiamano i critici per l'innesto delle azioni,
per la mescolanza de' caratteri, e per la parte data al destino secondo
la tragedia greca: cose non lodevoli e non biasimevoli, che possono
essere e non essere in un dramma. Il valore di una poesia bisogna cercarlo
non in queste condizioni esterne del suo contenuto, ma nella sua forma,
cioè nella sua vita intima. Il Pastor fido è così poco un dramma,
come l'Aminta, ancorchè ne abbia maggiore apparenza nel suo meccanismo.
Ma la sua vita organica è quella medesima dell'Aminta, suo specchio
e sua reminiscenza, e tutti e due sono poemi lirici, narrazioni, descrizioni,
canti, non rapprese ella scena, e non te ne giunge sul teatro che l'eco
lirica. Vedi sfilare i personaggi l'uno appresso l'altro, e non è ragione
che venga l'uno prima, e l'altro poi, e ci narrano i loro guai: parlano,
non operano. Indi monologhi e narrazioni interminabili. Hanno operato
o vogliono operare, e ci raccontano quello che hanno fatto o son disposti
a fare, aggiungendovi le loro riflessioni e impressioni. L'azione è
un'occasione all'effusione lirica. Abbondano i cori, ma ciascun personaggio
fa esso medesimo ufficio di coro, perchè non opera, ma discorre, riflette,
effonde i suoi dolori e le sue gioie. Non manca al Guarini un ingegno
drammatico, e lo mostra nella scena tra il satiro e Corisca, o tra Silvio
e Dorinda, o dove Dorinda ferita s'incontra con Silvio. Ciò che gli
manca è la serietà di un mondo drammatico, non essendo questo suo mondo
che un prodotto artificiale e meccanico di combinazioni intellettuali.
Manca a lui e manca all'Italia un mondo epico e drammatico, e perciò
non ci è epica, e non ci è dramma. Quel suo mondo dell'Arcadia era per
lui cosa così poco seria, come il mondo cavalleresco era all'Ariosto,
salvo che l'Ariosto se ne ride, e lui lo prende sul serio, a quel modo
che il Tasso. Cosa n'esce? Sotto pretensioni drammatiche esce un mondo
lirico, come di sotto alle pretensioni eroiche del Tasso usciva un poema
lirico. Il secolo era vuoto di passione e di azione, e vuoto di coscienza,
nè il Concilio trentino potè dargliene altro che l'apparenza ipocrita.
«Questo è un secolo di apparenza, - scrive il Guarini, - e si va in
maschera tutto l'anno». Ma egli pure andava in maschera, e fu col secolo,
non fuori e non sopra di esso. Rimaneva l'idolatria della letteratura,
considerata come un bel discorso nella eleganza delle sue forme, condimento
di una vita molle tra le feste e le pompe e gli ozi idillici delle corti.
E questa è la vita che ti dà il Guarini, bei discorsi lirici e musicali,
per entro ai quali spira un'aria molle e voluttuosa. Questa è la vita
intima del Pastor fido, come dell'Aminta, e se vogliamo
gustarlo, lasciamo lì il dramma co' suoi innesti, le sue mescolanze
e il suo destino, e mettiamoci a questo punto di vista.
Manca al Guarini l'ispirazione, la malinconia, la concentrazione fantastica,
il profondo sentimento del Tasso, e come poeta gli è di gran lunga inferiore.
Parla sempre di amore, ma non lo sente. E non sente la vita pastorale,
quella inclinazione alla solitudine e alla pace idillica, lui che ambizione
e cupidigia tenea distratto tra le più prosaiche occupazioni della vita.
La virtù, la religione, il destino, tutto ciò che la vita ha di più
elevato, è nella sua mente, non è nella sua coscienza. O, per dir meglio,
coscienza non ha: quel focolare interno, dove convivono e si raffinano
tutte le potenze dell'anima, condizionandosi a vicenda; dove si genera
il filosofo, il poeta, l'uomo di Stato, il gran cittadino, centro di
vita, da cui solo esce la vita. E perchè questo centro di vita gli manca,
il Guarini ha immaginazione e non ha fantasia, ha spirito e non ha sentimento,
ha orecchio musicale e non ha l'armonia che nell'anima si sente. Lo
diresti un gran poeta in potenza, a cui sia fallita la formazione per
la distrazione delle forze interiori. Perciò non ha la produzione geniale
del poeta, ma la mirabile costruzione di un artista consumato: della
quale si può dire quello che il coro dice della chioma finta di Corisca,
che gli è un «cadavere d'oro». Splende e non scalda, lusinga l'orecchio
e i sensi, e non lascia alcun vestigio nell'anima: tutti quei personaggi
vestiti di oro e di porpora sono morti con esso Mirtillo e Amarilli.
Ma quali splendori! qual maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori
il primo posto tocca al Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il
Monti. La sua ricca immaginazione si spande al di fuori come iride nella
pompa de' suoi più smaglianti colori; il suo spirito chiaro e acuto
profonde con brio e facilità i concetti più ingegnosi, più delicati
e più fini; il suo verso ti sembra nato insieme con que' colori e con
que' concetti: così è duttile, molle, vezzoso ed elegante. Se ci è lì
dentro un sentimento, è una sensualità raffinata, la poesia della libidine.
È lo stesso mondo del Tasso con le stesse qualità, esagerate dall'emulo,
che pretendea di far meglio: un mondo plasmato nelle corti e ritratto
della coltura. Quel mondo, che nel Tasso apparisce malinconico e contraddittorio
tra gli strazi e le confuse aspirazioni della transizione, eccolo qui
sfacciato e a bandiera spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella
sua ultima forma, purgato e castigato, involto in apparenze morali e
religiose, un naturalismo con licenza de' superiori, o «in maschera»,
come direbbe il Guarini. Non basta la licenza; il nudo disgusta e non
alletta; la sensualità intorpidita ha bisogno degli stimoli dell'immaginazione
e dello spirito. Il cavallo di battaglia per i poeti platonici erano
gli occhi: qui è il bacio. Già il Tasso avea fatto qualche allusione
al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una pittura voluttuosissima, e
il bacio preso per furto diviene il luogo comune dell'Arcadia. Quanti
raffinamenti sul bacio! Odasi il Guarini:
... quello è morto bacio a cui
la baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca...
son veri baci, ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
o seno, o fronte, o mano: unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci,
che baciatrice sia,
se non la bocca, ove l'un'alma e l'altra
corre e si bacia anch'ella, e con vivaci
spiriti pellegrini
dà vita al bel tesoro
de' bacianti rubini:
sicchè parlan tra loro
quegli animati e spiritosi baci
gran cose in picciol suono...
Tal gioia amando prova, anzi tal vita
alma con alma unita:
e son come d'amor baci baciati
gl'incontri di due cori amanti amati.
Poesia splendida, dove lo spirito è così raffinato
ne' suoi concetti, com'è la sensuale immaginazione ne' suoi colori.
Non è la vita in atto; è vita lirica, narrata, descritta, sentenziata.
Anche Corisca e il satiro si esprimono sentenziando, anche il coro.
Uno spirito sottile trova i più ingegnosi rapporti, che l'immaginazione
condensa in versi felicissimi. E poichè si tratta di baci, ecco una
sentenza di Amarilli:
Bocca baciata a forza,
se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
La soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene
un tema astratto, sul quale l'immaginazione intesse i più preziosi ricami.
I discorsi, dialoghi o monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente
è sviluppato qualche sentimento, divenuto un'astrazione dello spirito.
La canzone spesso si sveste la maestà e solennità petrarchesca, e divenuta
elegiaca e idillica anche nella sua esteriorità, ti si presenta innanzi
spezzata in sè, intramessa di versetti e di rime, in brevi periodetti,
tutta vezzi e languori e melodie, assai vicina al madrigale concettoso
e galante, dove il Guarini era maestro. Bellissimo esempio sono le canzonette,
che cantano le ninfe intorno ad Amarilli nel giuoco della «cieca».
Il secolo si chiude sotto le più belle apparenze di progresso letterario.
La sua vita interna è il naturalismo in viva opposizione con l'ascetismo.
Vi si sviluppa l'idillico, il comico, il romanzesco, portandosi appresso
come parti morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita nuova
s'inizia nel Boccaccio, ritratto sintetico del secolo, dove commedia,
idillio e romanzo fanno la loro prima comparsa. L'idillio, tranquillo
riposo dell'anima nel seno della natura, ideale di felicità contrapposto
all'inquieto ideale ascetico, attinge la sua perfezione estetica nelle
Stanze, e fa sentire i suoi susurri tra le fantasie ariostesche.
L'idillio è il sentimento della natura vivente e delle belle forme,
che si scioglie dal soprannaturale; è un naturalismo, non è ancora umanismo,
e accosta l'arte alla natura, e nella maggior finitezza del disegno,
de' contorni e delle figure raggiunge l'idealità della bella forma,
e produce i miracoli dell'arte e della poesia italiana. Il comico ha
già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso della nuova generazione,
che fa la parodia del passato ne' suoi diversi aspetti, religioso, etico,
dottrinale, in novelle, capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca
letteratura, buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E come il
comico non chiude in sè alcuna affermazione, anzi viene da indifferenza
e da scetticismo, ha tutt'i segni di una dissoluzione morale, di cui
la più sfacciata espressione sono le commedie dell'Aretino, e riesce
in ultimo superficiale e frivolo. L'immaginazione in quella insipidezza
della vita interiore, in quella poca serietà della vita esteriore si
gitta al romanzesco, e vi si trastulla colla coscienza superiore di
un intelletto adulto, con la coscienza che gli è un giuoco e un passatempo:
situazione che attinge la sua bellezza artistica nel mondo armonico
dell'Ariosto, e si scioglie nell'umorismo del Folengo. E quando, giunta
la licenza al suo ultimo segno ne' costumi e nello scrivere, vi si volle
porre un rimedio e sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando
si volle imporre alla coscienza italiana un'affermazione, e alla letteratura
un ideale, risorse l'idillio, l'ideale del naturalismo, e fu la sola
forza viva fra tanti ideali religiosi, morali, platonici, con visibile
contrasto tra i concetti platonici e religiosi, e la sensualità dell'idillio.
La letteratura prende un'apparenza religiosa e morale, epica e tragica;
e la pompa delle sentenze, il lusso de' colori, la grandiloquenza rettorica,
la finezza de' concetti rivelano la poca serietà di quelle tendenze.
Sotto a quelle apparenze vive ne' più seducenti colori un mondo lirico
idillico; il naturalismo condannato nelle parole è la vera vita organica,
che vien fuori in una forma di apparenze meno licenziose, ma più raffinata
e voluttuosa. Il sentimento di questa transizione nelle sue contraddizioni
e nella sua sincerità si riflette nella nobile anima del Tasso, e ne
cava suoni malinconici, elegiaci, voluttuosi, musicali, che sono l'ultimo
raggio della poesia. Quel mondo idillico fra tanta pompa di sentenze
morali e d'intenzioni platoniche si afferma nella sua nudità presso
il Guarini, e diviene il motivo della nuova generazione poetica. Il
Seicento non è una premessa, è una conseguenza.
La letteratura italiana era allora così popolare in Europa, come prima
fu la provenzale, e poi la francese. In verità, quanto alla parte tecnica,
giungeva allora all'ultima perfezione. I più mediocri scrivono con piena
osservanza delle regole grammaticali, con un nesso logico più severo,
e con un fare più spedito. Si vede una letteratura già formata, quando
le altre erano allora in uno stato di formazione. Critici, retori, grammatici,
professori, accademici pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti
e di prosatori in tutt'i generi. L'Italia del Seicento non solo non
ha coscienza della sua decadenza, ma si tiene ed è tenuta principe nella
coltura letteraria. Nessuno le contende il primato, e le altre nazioni
cercano ne' suoi novellieri, ne' suoi epici, ne' suoi comici le loro
invenzioni e le loro forme.
Dicono che nel Seicento si sviluppò una rivoluzione letteraria, e che
tutti cercavano novità. Il che prova appunto che la letteratura avea
già presa la sua forma fissa, e compiuto il suo circolo. Le novità non
si cercano, ma si offrono, quando la letteratura comincia a svilupparsi:
allora tutto è fresco, tutto è nuovo. Cercavano novità, perchè si sentivano
innanzi ad una letteratura esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme,
divenuta tradizionale, meccanica, e già materia comica nella Secchia
rapita e nello Scherno degli dei, poemi comici comparsi al
principio del secolo, dove sono volte in ridicolo le forme mitologiche
ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo, perchè gli manca il rilievo
nel contrasto di altre forme, e nulla di positivo è nello spirito de'
due autori, il Tassoni e il Bracciolini. Nel loro spirito quelle forme
son morte, e perciò ridicole, ma invano cerchi quali altre forme vivessero
nel loro secolo e nella loro coscienza: ond'è che quel comico cade nel
vuoto e rimane insipido. Al contrario il Don Chisciotte è opera
di eterna freschezza, perchè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve
nella immagine di una nuova società, che gli sta dirimpetto, e con la
sua presenza lo rende comico. Il Tassoni volge in ridicolo anche le
forme liriche petrarchesche, e censura non solo il petrarchismo, ma
esso il Petrarca. Parla in nome della semplicità, del buon senso, e
del verisimile: gli ripugna tutto ciò che è raffinato e concettoso.
Critica caduta nel vuoto, perchè quella semplicità di vita, quel sentimento
del reale non era nel secolo, e nella sua coscienza era un'astrazione
dell'intelletto: un buon gusto naturale, privo di un mondo plastico,
in cui si potesse esplicare. Perciò tutti quelli che scrivono con semplicità
e naturalezza, malgrado certe vivezze e certe grazie di stile, riescono
insipidi, come il Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita
interiore, e l'esteriorità, in mezzo a cui stavano, era affatto insipida,
quando non era pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte
di Culagna:
filosofo, poeta e bacchettone,
che era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Dico il ritratto, perchè nella rappresentazione è così
sbiadito e insipido, come gli altri personaggi. Del Redi è rimasto il
Bacco in Toscana, che ricorda le baccanti dell'Orfeo,
e per brio e calore d'immaginazione, per naturalezza di movenze, per
artificio di verso è di piacevole lettura.
Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è anche
esaurita la vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse
una seria apparenza comandata e servile, via alla fortuna. La storia
ha condannato a un giusto obblio le opere servili, frondose e adulatorie,
e serba grata memoria di quelle dove spira alcuna libertà di pensiero,
perchè, quando anche non possa ammirare lo scrittore, trova degno d'ammirazione
l'uomo. Certo all'uomo è inferiore lo scrittore, perchè la sua critica
è negativa, e non move dalla chiara coscienza di una nuova società,
ma da un semplice sentimento di resistenza e di opposizione. Anche nel
Cinquecento la critica è negativa, ma è negazione universale, col consenso
e fra le risa di tutti, non è il pensiero solitario dell'artista. Questo
spiega il Berni, spiega la Mandragola, le satire dell'Ariosto,
le commedie dell'Aretino, i poemi cavallereschi ironici e umoristici.
La scienza può esser solitaria: l'arte dee avere a sua materia un mondo
plastico e vivente, di cui è la voce. In quel secolo la negazione era
libera, ammessa, desiderata, applaudita, ci era comunione simpatica
fra l'autore e i lettori; e ci era pure in fondo a quella negazione
la coscienza di un mondo nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di
un mondo dell'arte e della natura, che succedeva alla barbarie del medio
evo. Anche nel Trecento Dante avea con sè il secolo, e lo fuse in tutte
le sue direzioni in un mondo plastico, che era appunto il mondo del
medio evo, l'altro mondo. Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale,
dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata
e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L'arte intisichisce, priva
di un mondo libero intorno a se. Chi vuol comprendere la differenza
de' secoli, legga i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini,
l'ardito comentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il
suo Parnaso, che succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di nessunissima
serietà, e rimane una semplice occasione, una cornice, dove inquadra
pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz'altra unità o
centro che il suo ghiribizzo. È un mondo sciolto in atomi, senza vita
e coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa
incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche,
declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno
artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che
pure sono salvate dall'obblio per la maschia energia di un'anima sincera
e piena di vita, che incalora la sua immaginazione e gli fa trovare
novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.
Come suole avvenire, nessun secolo sonò così spesso la tromba epica,
quanto questo secolo così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del
Tasso, come il Graziani nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera
scrisse il Foresto, la Gotiade, la Firenze, l'Amadeide,
il Ruggiero, tutti poemi eroici, oltre ventidue poemetti profani
e quattordici sacri. Il Villafranchi, lo Stigliani e altri cantarono
la scoperta dell'America, e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo
stesso argomento il suo Oceano, quando con miglior consiglio
e con più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare nella
Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti poemi
epici non uno solo è rimasto. Ce n'è di tutti gli argomenti, sacri e
profani, cavallereschi, eroici, mitologici, perchè erano capricci individuali,
e mancava l'argomento del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento
era la scoperta dell'America, che ispirò al Tasso la più geniale delle
sue concezioni, il viaggio alle isole Fortunate. Ma fu trattato col
solito bagaglio classico, e il mondo nuovo apparve stanca e vieta reminiscenza
di un mondo poetico già decrepito.
Il mondo eroico di quel secolo era stato fabbricato dal Concilio di
Trento. Ed era una ristaurazione del mondo cattolico alle prese co'
turchi, e vincitore meno per virtù propria che per la grazia di Dio.
Questo argomento di tutt'i poemi cavallereschi, sciolto nella buffoneria
del Pulci e nell'ironia dell'Ariosto, purgato e nobilitato dal Tasso,
era divenuto l'accento «ufficiale» del secolo. Il poeta di questa ristaurazione
fu Gabriello Chiabrera, che compiuti i suoi studi a Roma, educato da'
gesuiti, guidato da Speron Speroni, ritiratosi nella nativa Savona pieno
il capo di testi greci e latini e d'arti poetiche, verseggiò instancabilmente,
sino alla tarda età di ottantasei anni, fra le ammirazioni de' principi
e de' letterati. In tre volumi di liriche non ti è facile incontrare
un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo a mano argomenti
nobilissimi o affettuosissimi, niente è che ti mova o t'innalzi. Non
ci è quasi avvenimento di qualche importanza che non sia da lui celebrato,
come le vittorie su' pirati delle galee toscane, la battaglia di Lepanto,
le fazioni de' veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano, ma non
mancano lodi di grandi capitani, e soprattutto di santi, come di Pietro,
Paolo, Cecilia, Maria Maddalena, Stefano, Agata, e simili, a cominciare
dalla Vergine. Vi s'inframmettono satire di eretici, come Lutero, Calvino
e Beza, che sono vere invettive personali. Naturalmente non mancano
anche gli amori, temi astratti, ne' quali spuntano già le Filli, le
Amarilli e le Cloe, che più tardi invasero l'Arcadia. Che più? Quando
manca l'argomento vivo e presente, si esercita, come i collegiali, sopra
generalità astratte, come il verno, le stelle, Muzio Scevola, il ratto
di Proserpina, il diluvio, Golia, Giuditta e simili. Canzoni e canzonette,
ditirambi ed epitaffi, sonetti e poemi, trovi qui ogni varietà di forme,
come ogni varietà di contenuto. Ora fa l'eroe, ora fa il cascante, e
suona con la stessa facilità la tromba, la cetra, la lira e la zampogna,
ora scimieggiando Pindaro, ora Anacreonte. Le feste principesche gli
forniscono materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto
è a uno stampo, e tratta di argomenti commoventissimi e presenti con
la stessa indifferenza che scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo
di chiudersi nel suo argomento e cercarne le latebre, divaga in fatti
mitologici o in generalità rettoriche, e riesce vuoto e freddo. Dee
far le lodi di san Francesco? Ed eccoti una tirata sulla fame dell'oro.
Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di affetto o d'immaginazione,
e non ha alcuna esaltazione o entusiasmo lirico. C'è più poesia nelle
Vite del Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene Lucie
Cecilie, Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa nella
memoria santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il Chiabrera,
errante tra reminiscenze sacre e profane, e affatto incapace di cogliere
l'individuo nella sua personalità. In qualche strofa di fra Iacopone
senti la Vergine; ma non la trovi nelle cento strofe che le sono qui
consacrate. Il martirio di san Sebastiano è materia pietosissima. In
mano al Chiabrera diviene ampollosa e fredda rettorica. Dove non è insipido,
riesce pretensioso, come quando, esortando le muse a cantare il santo
trafitto, dice:
tendete, arciere d'ammirabil canto,
musici dardi al saettato Santo.
Se guardi alla materia, ci è qui tutto il mondo eroico,
morale e religioso del cristianesimo, ma non ce n'è lo spirito, nè poteva
infonderlo co' suoi decreti il Concilio di Trento. La letteratura religiosa
è una moda, anzi che un sentimento; lo spirito vi rimane estraneo, e
si conserva classico e letterario quanto alle forme, nell'indifferenza
del contenuto. Che cosa move davvero o interessa il Chiabrera? Nulla,
perchè nella sua coscienza nulla ci è, non fede, non moralità, non patria,
e non amore, e non arte, ancorchè di tutto questo tratti. Certo, il
Chiabrera è un bravissimo uomo, sinceramente pio e onesto, natura soave
e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non basta sia nell'animo
come un mondo abituale e tradizionale, a quel modo che era nel Chiabrera:
dee essere passione, che stimoli l'immaginazione e svegli la meditazione
Una passione l'ha il Chiabrera, e non è pel contenuto, a lui indifferente,
quale esso sia, ma per le forme. Dico «forme», e non «forma», perchè
a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa grandi
i nostri artisti del Cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità
di poeta e di artista, la fede del contenuto e il senso della forma.
Ha pure in grado mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede
così facilmente a italiani, sgraziato nell'intreccio delle rime e nella
combinazione de' suoni, e talora dà in dissonanze e stonature. La sua
idea fissa è di trovare, come Colombo, un mondo nuovo, e parve a' contemporanei
ci fosse riuscito, sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: «novos
orbes poëticos invenit». Mondi nuovi poetici ci erano allora, ed
erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes, Montaigne, Shakespeare
e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita interiore, la novità era nelle
forme, ed esausto il mondo latino, il Chiabrera si mise a cercar novità
nel mondo greco: «thebanos modos fidibus hetruscis adaptare primus
docuit», dice Urbano. I quali modi tebani sono le strofe, l'antistrofe
e l'epodo, accozzamenti di parole fuor dell'usato, costruzioni artificiali,
una certa moralità astratta e volgare, una sobrietà e semplicità di
colori. Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma
sono pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera
che la bellezza greca, quel candore, quella grazia, e quella semplicità;
e spesso la sua semplicità è aridità, il suo candore è volgarità, e
la sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in
quelle forme, che presso i greci sono vezzi natii: veggasi il suo ditirambo.
Del resto, più che nell'eroico, riesce nel grazioso, e se oggi alcuna
cosa si legge pure di lui, sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi
l'Aminta, giudicherà queste canzonette assai povera cosa. Anche
il Gravina studiò alla greca semplicità, come medicina al secolo tronfio
e manierato, e sforzandosi di esser semplice, riuscì insipido, freddo
e volgare. Gli è che l'imitazione greca, dopo tanto latineggiare, era
il naturale sviluppo di un fatto puramente letterario e meccanico, non
animato da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.
Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia, di cui rimangono
le canzoni per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di
profeta, e si dà tutta l'apparenza di un sacro furore. Sembra non parli,
ma canti, anzi urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti
convulsi. Ammassa esclamazioni, interrogazioni ripetizioni, con un grande
rimbombo di suoni e di frasi. Pomposa rettorica, nella quale si scopre
la simulazione della vita. Non è in lui alcun sentimento del reale,
ma un calore d'immaginazione, un orecchio musicale, ed una non mediocre
abilità nella fattura del verso, che gli assegna un posto tra' poeti
di second'ordine.
Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali. L'uno lamenta
la vita molle de' guerrieri italiani, o, com'egli dice, la leggiadria
dell'italica gente:
... ... E dove
calzar potrassi una gentil scarpetta,
un calcagnetto sì polito? ...
Lungo fora a narrar come son gai
per trapunto i calzoni, e come ornate
per entro la casacca in varie guise
serpeggiando sen van bottonature.
Splendono soppannati i ferraiuoli
bizzarramente; e sulla coscia manca
tutti d'argento arabescati e d'oro
ridono gli elsi della bella spada.
Dell'altro è il verso celebre:
O fossi tu men bella, o almen più forte!
Ma l'Italia era per loro un sentimento così superficiale
come la religione, un tema a sonetti e canzoni, come le Vendemmie
o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all'Italia
dov'è il suo braccio, e perchè si serve dell'altrui, e ricorda che gli
stranieri sono tutti nemici nostri, e furono nostri servi, senti ch'è
a mille miglia lontano dalla realtà, che vagheggia un'Italia di tradizione
e di reminiscenza, di cui non è più vestigio neppure nella sua coscienza,
ch'egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i suoi furori,
e che le sue parole sono ebollizioni e ciance rettoriche. I contemporanei
erano pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù con
un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione, come
ammiravano una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello
che diceva il Vangelo e il predicatore.
Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo:
un mondo tradizionale tornato in moda, favorito dagl'interessi, mantenuto
nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato,
non ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà
e non idealità, cioè a dire non praticato nella vita, e non scopo o
tendenza della vita. Il tarlo della società era l'ozio dello spirito,
un'assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche,
le quali, appunto perchè mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali.
La passività dello spirito, naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria,
sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e impaludata,
teneva l'Italia estranea a tutto quel gran movimento d'idee e di cose
da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin d'allora ella era
tagliata fuori del mondo moderno, e più simile a museo che a società
di uomini vivi.
La letteratura era a quell'immagine, vuota d'idee e di sentimenti, un
gioco di forme, una semplice esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale
classico, si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il
mondo greco appena libato era corso in tutte le direzioni, e dava un
certo aspetto di novità alle forme letterarie. La poesia italiana nella
sua lunga durata avea messo in circolazione un repertorio oramai fatto
abituale e vuoto di affetto; e non ci essendo la forza di rinnovare
il contenuto, tutti eran dietro ad aguzzare, assottigliare, ricamare,
manierare, colorire un mondo invecchiato che non dicea più niente allo
spirito. Meno il contenuto era vivo, e più le forme erano sottili, pretensiose,
sonore. Nacque una vita da scena, con grande esagerazione e abbondanza
di frasi un eroismo religioso, patriottico, morale a buon mercato, perchè
dietro alle parole non ci era altro. Di questo eroismo rettorico il
più bel saggio è la Fortuna del Guidi, il quale trovò modo di
rendere ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto
il senso del vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa
e fiorita, della quale dava già esempio l'Aretino, quando la sua mente
non era abbastanza solleticata dall'argomento. Uno degl'ingegni meno
guasti fu il Chiabrera: pur sentasi questo suo epitaffio a Raffaello:
Per abbellir le immagini dipinte,
alle vive imitar pose tal cura,
che a belle far le vere sue Natura
oggi vuole imitar le costui finte.
E il prezioso non è solo ne' concetti, ma nelle forme,
cercandosi i modi più disusati in dir cose le più semplici. Ecco un
esempio di queste forme preziose nella Fortuna del Guidi:
Questa è la man che fabbricò sul Gange
i regni agl'Indi, e sull'Oronte avvolse
le regie bende dell'Assiria a' crini;
pose le gemme a Babilonia in fronte,
recò sul Tigri le corone al Perso,
espose al piè di Macedonia i troni.
Tra' verseggiatori più preziosi e affettati è da porre
il Lemene, e tra' più civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La
degenerazione del genere si vede nel Frugoni, il più vuoto e il più
pretensioso.
Spettacolo assai istruttivo è questo di un popolo che per parecchie
generazioni spende tutta la sua attività intorno a quistioni di forme,
ed erge a suo obbiettivo la parola in se stessa, staccata da ogni contenuto.
Che è divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e di Machiavelli?
Eccola, quale è vantata dal Filicaia:
Qui del puro natio dolce idioma
l'oro s'affina; e se non è a' dì nostri
spenta la gloria de' toscani inchiostri,
forse invidia ne avranno Atene e Roma...
Qui d'ogni voce il peso, il senso, il suono
a rigoroso esame ognor si chiama,
e il reo si purga e si trasceglie il buono.
Onde l'alto lavor fregia e ricama
la gran maestra del parlar, che trono
erge a se stessa, ed a se stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo
trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di qualche ingegno,
trovando insipida e invecchiata la parola, l'ornano, l'aguzzano, l'imbellettano,
e, come dice il Filicaia, vi fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza
che tanto liscio al di fuori, con tanta insipidezza e vacuità nel fondo,
è un'ultima forma della decadenza; anzi abbondano i Pindari e gli Anacreonti,
moltiplicano i poeti in tutt'i canti d'Italia, e co' poeti le accademie,
e si tengono primi in tutta Europa, della quale ignorano la coltura.
Possiamo ora spiegarci come l'Arcadia acquistò l'importanza di un grande
avvenimento, sì che per parecchie decine di anni occupò l'attenzione
pubblica. Si videro uomini dottissimi e gravissimi fanciulleggiare tra
quei pastori e pastorelle, e dettar le leggi dell'accademia con una
solennità, come fossero le leggi delle dodici tavole. Parea che a restaurare
la poesia e il buon gusto bastasse l'osservanza di alcune regole, e
moltiplicarono i medici, quando il malato era morto. Gli arcadi, rimasti
proverbiali, come di gente dotta e insieme frivola, per correggere l'eroico
si gettarono nel pastorale, come se trasportando la vita ne' campi e
tra' pastori, trovassero quella naturalezza e semplicità che non è nella
materia, ma nell'anima dello scrittore. Furono aridi, insipidi, leziosi,
affettati, falsi.
Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino,
onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe de' poeti antichi
e moderni, e non da plebe, ma da' più chiari uomini di quel tempo. Dicesi
che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che
il secolo corruppe lui, o, per dire con più esattezza, non ci fu corrotti,
nè corruttori. Il secolo era quello, e non potea esser altro, era una
conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse. E Marino fu
l'ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza
della sua espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce, molta facilità
di concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi e di
forme, nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento, nessuna
fede in un contenuto qualsiasi. Il problema per lui, come pe' contemporanei,
non era il che, ma il come. Trovava un repertorio esausto, già lisciato
e profumato dal Tasso e dal Guarini, i due grandi poeti della sua giovanezza.
Ed egli lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità della
sua immaginazione e la facilità della sua vena. La moda era alle idee
religiose e morali, e il Murtola scriveva il Mondo creato, il
Campeggi le Lagrime della Vergine, e il Marino la Strage degl'innocenti,
e le sue stesse poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la
vita era in fondo materialista, gaudente, volgare, pettegola, licenziosa;
il naturalismo viveva nella sua forma più grossolana sotto a quelle
pretensioni religiose. Le prime poesie del Marino furono sfacciatamente
lubriche, come la prima sua giovinezza; e quando venne a età più matura,
cercò non la correzione, ma la decenza esteriore, decorando i suoi furori
erotici di un ammanto allegorico.
Nelle tradizioni della poesia ci è un concetto, che mette capo in Circe
ed Ulisse, ed è l'imbestiamento dell'uomo per opera dell'amore, e la
sua liberazione per opera della ragione. Questo concetto diviene un
episodio importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed eroiche,
ed è anche la Musa che ispira Dante e il Petrarca. Angelica, Alcina,
Armida sono le Circi italiane, co' loro giardini, co' loro palagi e
castelli incantati, co' loro viaggi attraverso lo spazio. Questo è l'episodio
più interessante, anzi è il concetto fondamentale della Gerusalemme
Liberata. L'episodio del Tasso incastrato fra elementi religiosi
ed eroici diviene ora esso solo il poema, diviene l'Adone.
La storia del naturalismo poetico incomincia nell'Amorosa visione,
e finisce nell'Adone. I due poemi sono assai simili di concetto.
L'amore, principio della generazione, è anima del mondo, è la corona
della natura e dell'arte, in esso s'inizia, in esso si termina il circolo
della vita. Venere e Adone è la congiunzione non solo spirituale, ma
corporale del divino e dell'umano; è l'amore sensuale che investe tutta
la natura, cielo e terra. Nel paradiso teologico di Dante il corpo si
solve nello spirito; ma in questo paradiso mitologico lo spirito ha
la sua perfezione e la sua vita nell'amore sensuale. Un senso tragico
si aggiunge a questa commedia terrena. L'uomo è mortale, e i suoi piaceri
sono lievi e fugaci; e la conclusione è la morte di Adone fra il compianto
degl'immortali.
La base è l'amore sensuale rappresentato in tutt'i suoi gradi nel giardino
del Piacere, uno di quei giardini d'amore già celebri nelle rime del
Poliziano, dell'Ariosto e del Tasso, qui diviso in cinque giardini corrispondenti
a' cinque sensi, sì che questa sola descrizione prende già buona parte
del poema. Nel giardino del Tatto Adone gode gli ultimi diletti, e s'indìa,
è rapito in cielo, attinge la felicità. Il cielo o il paradiso del Marino
non comprende che la Luna, Mercurio e Venere, tutto l'universo dell'amore.
La Luna è la sede della natura, Mercurio è la sede dell'arte, e sede
dell'amore è Venere. È tutto il cielo della vita, simile a' diversi
gradi dell'Amorosa visione. Ma l'apoteosi e il trionfo dell'amore
è di breve durata, e Venere non ha il tempo di rendere immortale il
suo amato. Adone muore, vittima della gelosia di Marte, e gli ultimi
canti narrano la morte di Adone, il compianto di Venere e degli dei,
e le sue esequie.
È inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun
valore effettivo ed intrinseco, e che esse sono una materia qualunque
arricchita di moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue
forze poetiche, il solito macchinismo fantastico dell'amore ne' poemi
italiani. I concetti e le passioni sono insulse personificazioni, come
l'amore, l'arte, la natura, la filosofia, la gelosia, la ricchezza ed
altre figure allegoriche. Dico insulse, perchè a quelle personificazioni
manca e la profondità del significato e la serietà della vita. È lo
scheletro de' poemi italiani, aggiuntivi anche certi episodi ingegnosi
per far la corte alle famiglie principesche d'Italia e alla casa di
Francia. Ma è un puro scheletro, dove non penetra per alcuno spiraglio
la vita. E poichè quello solo c'interessa che vive, questo poema non
c'ispira nessuno interesse. Non c'è un solo personaggio che attiri l'attenzione
e lasci di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica
o lirica di qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata,
tutta al di fuori, ne' suoi accidenti, contrasti e simiglianze esteriori;
e come le simiglianze o i contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti
capricciosi, arbitrari tra le cose, che sono veri, quanto a questa o
a quella apparenza, ma ridicoli e falsi per rispetto alla totalità della
vita. Abbiamo veduto in che modo la rosa è rappresentata nel Poliziano,
nell'Ariosto e nel Tasso. Sono pochi particolari che lumeggiano la rosa
nella sua individualità, e non alterano la sua natura. Sentite ora la
rosa del Marino:
Rosa, riso d'amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell'odorifera famiglia;
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de' fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda;
turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
porti d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora de' giardin, pompa de' prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
di te le grazie e gli amoretti alati
son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra, o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
chè ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle;
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie:
di te fia 'l sole, e tu del sole amante.
Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
l'aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne' crini e nelle foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai sempre un picciol sole in seno.
Evidentemente, qui non ci è il sentimento della natura,
e non la schietta impressione della rosa. Hai combinazioni astratte
e arbitrarie dello spirito, cavate da somiglianze accidentali ed esterne,
che adulterano e falsificano le forme naturali, e creano enti mostruosi
che hanno esistenza solo nello spirito. La vita pastorale già nel Tasso
ha i suoi ricami, che però fregiano forse un po' troppo, ma non adulterano
gli oggetti e i sentimenti. Ed anche l'Adone ha il suo pastore, che
vuole imitare, anzi oltrepassare il pastore di Erminia, e conchiude
così:
Lunge da' fasti ambiziosi e vani,
mi è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
servon di coppa, e nèttare il ruscello.
Son ministri i bifolci, amici i cani,
sergente il toro e cortigian l'agnello,
musici gli augelletti e l'aure e l'onde,
piume l'erbette, e padiglion le fronde.
Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama
in una sua lettera a Claudio Achillini «ricchezze di concetti preziosi»,
e ivi pone l'eccellenza della poesia:
È del poeta il fin la maraviglia:
parlo dell'eccellente e non del goffo;
chi non sa far stupir, vada alla striglia.
La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che
è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo uso divenuti
ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo è lo scenario, o lo spettacolo,
vecchio anch'esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene
non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita,
ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da simiglianze o dissonanze
accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all'assurdo: di che nasce
quello stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia.
Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose, come
giardini, campi, fiori, ma anche intorno alle persone allegoriche, come
la gelosia, l'amore, e intorno agli atti, come il riso, il bacio. Il
Marino confessa di avere innanzi un zibaldone, dove avea scritto per
ordine di materia quello che di più piccante e maraviglioso avea trovato
ne' poeti greci, latini e italiani e anche spagnuoli; e ammassa e concentra
tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un
freddo imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra
quelle ricchezze, e diviene attiva, si fa alleata dello spirito, trasforma
quelle combinazioni e quei rapporti in immagini, e le immagini hanno
il loro finimento nella facile e briosa vocalità de' suoni. Talora i
concetti stessi spariscono; ma rimane sempre un'onda melodiosa, la cantilena:
Adone, Adone, o bell'Adon, tu giaci,
nè senti i miei sospir, nè miri il pianto;
o bell' Adone, o caro Adon, tu taci,
nè rispondi a colei che amasti tanto!
Lasciami, lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto;
arresta il volo, aspetta tanto almeno
che il mio spirto immortal ti mora in seno.
La poesia italiana in quest'ultimo momento della sua
vita non è azione, e neppure narrazione, è spettacolo vocalizzato, descrizione
a tendenze liriche, tra lo scoppiettio de' concetti, il lustro delle
immagini, e la sonorità delle frasi e delle cadenze, e i vezzi delle
variazioni. Il suo ideale è l'idillio, una vita convenzionale, mitologica,
amorosa, allegrata dal riso del cielo e della terra. L'Adone
è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico,
come l'Euridice, la Proserpina. Un idillio del Marino,
di colorito freschissimo e moderno, tutto impregnato di ardente sensualità,
è la sua Pastorella. Chi ricordi la pastorella di Guido Cavalcanti,
così sobria e semplice nella sua maniera, può misurare fino a qual grado
di ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste situazioni
liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità era ancora quello che
rimaneva di vivo in questi poeti seicentistici, esalata in tenerezze,
languori, voluttà, galanterie e dolcitudini.
Un ideale frivolo e convenzionale, nessun senso della vita reale, un
macchinismo vuoto, un repertorio logoro, in nessuna relazione con la
società, un assoluto ozio interno, un'esaltazione lirica a freddo, un
naturalismo grossolano sotto velo di sagrestia, il luogo comune sotto
ostentazione di originalità, la frivolezza sotto forme pompose e solenni,
l'inezia collegata con l'assurdo e il paradosso, la vista delle cose
superficiale e leggiera, la superficie isolata dal fondo e alterata
con relazioni artificiali, la parola isolata dall'idea e divenuta vacua
sonorità, questi sono i caratteri comuni a tutt'i poeti della decadenza,
messa la differenza degl'ingegni.
Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere,
tragedie, commedie, poemi, idilli, canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni,
narrazioni, orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e
insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e
fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia
di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose
nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto,
pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo di parole
e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter
dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per
lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione
e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della
coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo
e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non
frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non meno
che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica
e meccanica dell'espressione. Tratta la lingua italiana, come greco
o latino, come lingua morta, già fissata, e da lui pienamente posseduta.
Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può. Fugge le smancene
toscane, e ricorda la risposta fatta a certi messi toscaneggianti, che
domandavano qualche sussidio per rifare il ponte della loro città:
Qualor, talor, e quinci e quindi, e guari,
rifate il ponte co' vostri danari.
La sua lingua spedita, colorita, elegante, copiosa
ha quel carattere di lingua classica italiana già così spiccato nel
Tasso, nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt'i seicentisti. Il toscano
parlato ha poca presa anche su moltissimi uomini colti della Toscana,
e rimane stazionario in bocca al volgo. La lingua classica nella sua
fattura esterna e grammaticale tocca in lui un alto grado di perfezione
per copia e scelta di vocaboli, per regolarità di costruzione, per speditezza
di giunture e movimenti musicali. Ama starsi nel minuto, notomizzare,
descrivere, e vi spiega tutte le ricchezze del dizionario. Descrive
lungamente e con infiniti particolari le chiocciole, e conchiude:
«Eccovene in prima vestite di uno schietto drappo:
argentine, bianche lattate, grigie, nericate, morate, purpuree, gialle,
bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie. Poi, le addogate con lunghe
strisce e liste di più colori a divisa, e quali se ne vergano per lo
lungo, quali per lo traverso, alcune diritto, altre più vagamente a
onda. Ma certe in vero maravigliose, lavorate a modo d'intarsiatura,
con minuzzoli di più colori bizzarramente ordinati, o d'un musaico di
scacchi, l'un bianco e l'altro nero, quanto alla figura formatissimi,
e alle giunture non isfumati punto, ma con una division tagliente, come
appunto fossero alabastro e paragone, strettamente commessi. Le più
sono dipinte a capriccio, o granite, gocciolate, moscate, altre qua
e là tócche con certe leggerissime leccature di minio, di cinabro, d'oro,
di verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e
grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle, o minutissimo
punteggiate; altre corse di vene come i marmi, con un artificio senz'arte,
o spruzzate di sangue in mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri.»
E segue ancora per un pezzo su questo andare. L'immaginazione
rimane smarrita fra tante ricchezze, e perchè tutto è rilievo, manca
il rilievo. Non ci è senso di arte, nè di natura, e chi vuol sentire
la differenza, ricordi la descrizione che fa l'Aretino del cielo di
Venezia, così trepida d'impressioni e movimenti interni. E non ha neppur
senso d'uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè di tanti suoi
ritratti di personaggi ideali o storici alcuna cosa è rimasta viva.
Eccolo in Terra Santa. Che impressioni e che affetti non dee destare
quella vista in un buon cristiano, com'era il Bartoli! Ma se ne sbriga
così:
«Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto unitamente
si debbono a questo venerabile terreno, che col piè scalzo e in atto
non di curioso geografo, ma di pellegrino divoto, calchiamo.»
E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma
è un cominciare con Plinio e un finire con Lucano, con intramessa di
fredde amplificazioni rettoriche.
Stessa coltura e stesso contenuto nel padre Segneri. Non ha altra serietà
che letteraria, ornare e abbellire il luogo comune con citazioni, esempli,
paragoni e figure rettoriche: perciò stemperato superficiale, volgare
e ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del paradiso: «Al cielo,
al cielo!». Il concetto è questo: - La terra non offre un bene perfetto;
miriamo dunque al cielo. E noi abbiamo conosciuto già questo mondo,
già l'abbiamo sperimentato, ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al
cielo, al cielo! - Ora la prima parte non ha bisogno di dimostrazione,
perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri, e intorno
a questo luogo comune intesse tutt'i suoi ricami. E se avesse veramente
il sentimento della terrena infelicità e delle gioie celesti, non mancherebbe
ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma non è che uno spasso
letterario, un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto; luoghi
comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a convertire, a persuadere
l'uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico, nè unzione; non ama gli
uomini, non lavora alla loro salute e al loro bene. Ha nel cervello
una dottrina religiosa e morale di accatto, ed ereditaria, non conquistata
col sudore della sua fronte, una grande erudizione sacra e profana:
ivi niente si move, tutto è fissato e a posto. La sua attività è al
di fuori, intorno al condurre il discorso e distribuire le gradazioni,
le ombre e la luce e i colori. Gli si può dar questa lode negativa,
che se spesso stanca, non annoia l'uditorio, che tien sospeso e maravigliato
con un «crescendo» di gradazioni e sorprese rettoriche; e talora piacevoleggia
e bambineggia per compiacere a quello. Ancora è a sua lode, che si mostra
scrittore corretto, e non capita nelle stramberie del Panigarola, o
nelle sdolcinature e affettazioni de' suoi successori.
Si può ora scorgere il cammino della letteratura, iniziata nel Boccaccio,
reazione all'ascetismo, negativa e idillica. La negazione percorse tutta
la scala delle forme comiche dalla caricatura del Boccaccio all'umorismo
del Folengo, e si sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro Aretino:
fu essa vita e anima delle novelle, delle commedie, de' capitoli, de'
poemi romanzeschi. Semplice negazione, finì nella sensualità, nella
licenza delle idee e delle forme, in un pretto materialismo. Accanto
a questo elemento negativo ci era l'idillio, un ritiro dell'anima dalle
astrazioni teologiche e dalle agitazioni politiche nella semplicità
e nella quiete della natura, un naturalismo spiritualizzato dal sentimento
della forma o della bellezza, che produsse i miracoli della poesia e
della pittura. La grazia, l'eleganza, la finitezza delle forme, la misura
e l'armonia nell'insieme e nelle parti sono l'impronta di quest'aurea
età. Ma questa letteratura portava in sè il germe della dissoluzione,
ed era la sua tendenza accademica, letteraria e classica, per la poca
serietà del suo contenuto e la sua separazione da tutt'i grandi interessi
morali, politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta
parte di Europa. Giunta l'arte a quella perfezione, aveva bisogno di
un nuovo contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione
tridentina ci avesse dato questo nuovo contenuto, sarebbe stata la benvenuta.
Avremmo avuto una seria ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu
ristaurazione delle forme, non della coscienza. Agli stessi riformatori
mancava nella loro opera la serietà della coscienza, come vedrà chi
studi bene la storia del Concilio di Trento non dico nel Sarpi, ma nello
stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei padri riformatori.
Di che nacque l'ultimo pervertimento del carattere nazionale. L'idea
che a salvare l'anima bastasse andare a messa e portare addosso uno
scapolare, e che l'assoluzione del confessore fosse sufficiente a lavare
tutte le macchie, salvo a tornar da capo, diede alle plebi italiane
quell'impronta grottesca di bassezza, immoralità e divozione, che anche
oggi in molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte,
la vita era menzogna, una vita ostentatrice di sentimenti religiosi
e morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale la vita, tale la
letteratura. Quella sua tendenza accademica e letteraria divenne la
sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a dire menzogna, espressione
pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio Torquato prese sul serio
quel nuovo contenuto, e vagheggiò un mondo eroico e religioso, che naufragò
tra gli elementi che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come sotto
lo scapolare batteva il core del brigante, sotto a quelle forme pompose
viveva invitto il naturalismo lirico, fantastico, idillico del vecchio
contenuto. L'Armida divenne l'Adone, e l'Aminta
il Pastorfido. Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre,
fra tante liriche eroiche, morali e patriottiche, ciò che ancor vive
è il naturalismo, una certa ebbrezza musicale de' sensi, che fa cantare
a' marinai napolitani le stanze di Armida e i lubrici versi del Marino.
Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato, e volevano
rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la
coscienza. Aguzzarono l'intelletto, gonfiarono le frasi, e non potendo
esser nuovi, furono strani L'attività si concentrò intorno alla frase,
e il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di ogni scopo serio,
divenne un esercizio accademico e rettorico.
|