I ghibellini, credendosi abbandonati, si
smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla città. Come farli entrare?
Carlo primonstava presso la Signoria, perchè si desse a lui la guardia
della città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra giustizia.
E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto Dino. Ma l'arguto
Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir
lui:
«Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno
gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini, e furonvi
messi i franciosi. E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo
giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune.... E mai credetti
che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede:
perchè passò piccola parte della seguente notte che per la porta che
noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ... molti ... sbanditi.»
Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta
meno tutta la loro speranza, «deliberarono, quando i villani fossero
venuti in loro soccorso, prendere la difesa.» Che erà quel prender tempo
e non risolversi degli animi deboli. Furono vinti senza combattere.
Tutti si gettarono là dov'era la forza:
«I malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli
li tradirono.... Molti soldati si volsono a servire i loro avversari.
Il podestà ... andava procurando in aiuto di messer Carlo.»
Carlo manda i suoi a' priori, «per occupare il giorno
e il loro proponimento con lunghe parole». Giuravano che il loro signore
si tenea tradito», e che farebbe la vendetta grande. - Tenete per fermo
che se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro
modo, fateci levare la testa. - E ora che scrive, Dino aggiunge: «E
non giurò messer Carlo primol vero, perchè [Corso Donati] di sua saputa
venne».
Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma
ad un patto, che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle
due parti. E Dino consente.
«I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza.
Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne
presi quella notte senza paglia e senza materasse, come uomini micidiali.»
Qui Dino non ne può più e prorompe:
«O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la
fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo
vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona
fatto non soldato, ma assassino, imprigionando i cittadini a torto,
e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia!»
L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo.
Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale di Francia, fosse
spergiuro e assassino?
Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio. Dino fa sonare
la campana grossa, che era un chiamare alle armi. Ma nessuno uscì: «La
gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo,
nè a pie armato».
Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una croce vermiglia sopra il
palagio de' priori:
«Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la
vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra
città crucciato.»
La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta innanzi
il quadro:
«Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano
per le case de' loro amici. L'uno nimico offendea l'altro; le case si
cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi
alle case degl'impotenti. I Neri potenti domandavano danaro a' Bianchi;
maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi uomini; e quando una casa
ardea forte, messer Carlo domandava: - Che fuoco è quello? - Eragli
risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo.»
I priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio,
lasciarono il priorato. E venne al governo la parte nera.
Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli.
Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.
In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di più. Tutto è azione,
che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion
fuori caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo,
dopo di aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e chiede
danari a Bonifazio. - Ma io ti ho mandato alla fonte dell'oro, - risponde
il papa. È una risposta, che è un ritratto dell'uno e dell'altro. I
discorsi sono sostanziosi, incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi
vivi, con la loro natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto
che non le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d'impressione
più che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose a prima vista, e ne
rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di Bonifazio ottavo
dice:
«Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa
a suo modo, e abbassava chi non li consentia.»
Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:
«Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano,
ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole
parlatore; adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, coll'animo sempre
intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano, e gran
sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie fece fare;... molto avere
guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati che
per sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava per la terra,
molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua. La vanagloria
il guidava e molti servigi facea.»
La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle
cose. Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue
vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla sua indignazione. Una
cosa soprattutto lo colpisce, che «molte lingue si cambiarono in pochi
giorni». Non vi si sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda
loro quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell'animo secondo
gli eventi non gli potea entrare:
«Donato Alberti, ... dove sono le tue arroganze, che
ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo Salterelli, minacciatore
e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue quistioni, ove
t'armasti? In casa i Pulci, stando nascoso, ... O messer Manetto Scali,
che volevi esser tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi? ...
O voi popolani, che desideravate gli ufici e succiavate gli onori, e
occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? Nelle menzogne,
simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente
per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.»
I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose
sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come
di cose non viste mai, e svegliano nel suo animo onesto una indignazione
eloquente. Ed è da quei sentimenti che è uscito questo capolavoro di
descrizione:
«Molti nelle pie opere divennero grandi, i quali avanti
nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti
cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono nell'avere e nella persona.
Molte magioni guastarono, e molti ne puniano, secondo che tra loro era
ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fosse punito. Non valse parentado
nè amistà; nè pena si potea minuire, nè cambiare a coloro a cui determinate
erano. Nuovi matrimoni niente valsero, ciascuno amico divenne nimico;
i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre, ogni amore,
ogni umanità si spense. ... Patto, pietà nè mercè in niuno mai si trovò.
Chi più dicea: - Muoiano, muoiano i traditori -, colui era il maggiore.»
Tra' proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non rivide più la
sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private,
tutte le passioni che possono covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono
nell'esilio. Chi ha visto l'indignazione di Dino, può misurare quella
di Dante.
Il priorato fu il principio della sua rovina, com'egli dice, ma fu anche
il principio della sua gloria. Non era uomo politico; mancavagli flessibilità
e arte di vita; era tutto un pezzo, come Dino. Priore, volle procurare
una concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare da' Neri
in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non valse a mantenere quella
preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò
soverchiare da' più audaci e arrischiati, e non potendo impedire e non
volendo accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se stesso.
Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sè, sviluppò tutte le
sue forze intellettive e poetiche.
Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che
la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita Nuova con la speranza
«di dire di lei quello che non fu mai detto di alcuna». E fece di questo
suo primo e solo amore «la bellissima e onestissima figlia dell'Imperatore
dell'universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia». Frutto di questi
nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.
Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità
ideale, l'amore che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita.
Intelletto, amore, atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo
amore, la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì
nella scienza.
Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale
ai contemporanei, che chiamavano «sensuale» quel primo amore di Dante,
e poco intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare da
sè l'infamia e per mostrare la dottrina «nascosa sotto figura di allegoria»,
volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.
Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza,
astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile
avea notizia e non superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza
e con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta
tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati,
quante erano le canzoni, tutta la scienza nella sua applicazione alla
vita morale. Un lavoro simile, che Brunetto chiamò Tesoro, e
altri chiamavano Fiore o Giardino, egli chiamò Convito,
quasi mensa dov'è imbandito «il pane degli angeli», il cibo della sapienza.
Brunetto avea scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano
la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa
materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica di Aristotile,
fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato «l'ippocratista». Bisogna
vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere
in volgare. Celebra il latino come «perpetuo e non corruttibile», e
perchè «molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non
può», e perchè «il ... volgare seguita uso e il latino arte»; onde il
latino è «più bello, più virtuoso e più nobile». Ma appunto per questo
il comento latino non sarebbe stato «suggetto alle canzoni» scritte
in volgare, ma «sovrano», e il comento per sua natura è servo e non
signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non può ubbidire,
perchè «comandatore» e sovrano del volgare. Oltrechè, come può il latino
comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il latino non
è conoscente del volgare, si vede: «chè uno abituato di latino non distingue,
s'egli è d'Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco lo
volgare italico o provenzale ». Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze
della scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare, che è
come dare a' convitati «pane di biado e non di formento», gli pare così
grande che a difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie
scolastica. Lasciando stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli
usa «il volgare di sì», perchè loquela propria e «delli suoi
generanti», e suo «introducitore» nello studio del latino, e perciò
«nella via di scienza, ch'è ultima perfezione». Scrisse in volgare le
rime, il volgare usò «deliberando, interpretando e quistionando»; dal
principio della vita ebbe con esso «benivolenza e conversazione»; il
volgare è l'amico suo, dal quale non si sa dividere. Coloro «fanno vile
lo parlare italico e prezioso quello di Provenza», che per «iscusarsi
del non dire o dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare
proprio». La plebe, o come dice egli, le «popolari persone» cadono «nella
fossa» di questa falsa opinione per poca discrezione: «per che incontra
che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita
-, purchè alcuno cominci», e sono da chiamare «pecore, e non uomini».
Gli altri vi caggiono per vanità o per vanagloria, o per invidia o per
pusillanimità. Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui,
gli pare un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: «E tutti
questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile
questo prezioso volgare, lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se
non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri».
E però egli scrive questo comento in volgare, per fargli avere «in atto
e palese quella bontade che ha in potere e occulto», mostrando che la
sua virtù si manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze
della rima e del ritmo, come donna «bella per natural bellezza e non
per gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta», e che altissimi
e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente,
«quasi come per esso latino», vi si esprimono. E finisce con queste
profetiche parole: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà,
ove l'usato tramonterà».
Tanta veemenza nell'accusare, tanto ardore nel magnificare può fare
intendere quanto radicata e sparsa era l'opinione degl'infiniti «ciechi»,
com'egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non
ottenne l'intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato
a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica,
che insieme con l'etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.
Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica, quale
si costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli
antichi, ma è vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi
e sensati. La base di tutto l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana,
illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto
dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare italico è illustre,
in quanto si scosta dagli elementi locali, ove prendono forma i dialetti
e si accosta alla maestà e gravità del latino, la lingua modello. Voleva
egli far del volgare quello che era il latino, non la lingua delle persone
popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti.
Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata con procedimenti
artificiali della scienza. Scegliere il meglio di qua e di là e far
cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica,
ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno all'unità per
processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per graduale
assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino che
dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico,
di cui abbozzava l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, De Monarchia, è diviso in tre libri. Nel primo dimostra
la perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova
questa perfezione essere incarnata nell'impero romano, sospeso, non
cessato, perchè preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni
tra l'impero e il sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.
L'eccellenza della monarchia è fondata sull'unità di Dio. Uno Dio, uno
imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono «polizie oblique», governi
«per accidente», reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d'accordo,
guelfi e ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni
ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo,
e la preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano
che nella società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il
papa e l'imperatore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo,
il papa è superiore all'imperatore. «Il potere spirituale - dic'egli
- ha il diritto d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se
non è buono. E chi resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno
ch'egli non immagini, come i manichei, due princìpi, Ciò che sentenziamo
errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee essere sottoposto al pontefice
romano, e noi dichiariamo che questa sottomissione è necessaria per
la salute dell'anima».
Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il carattere
indiscusso delle premesse consentite da tutti e per l'evidenza delle
conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale e il corpo in se stesso
era il peccato, e non valea se non come apparenza o organo dello spirito,
cos'altro potevano essere i re e gl'imperatori, che erano il potere
temporale, se non gl'investiti dal papa, gli esecutori della sua volontà?
I guelfi, che, salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e
conseguenze, erano detti «la parte di santa Chiesa».
Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone
che spirito e materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza
nell'altro, e da questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri,
amendue «organi di Dio» sulla terra, di diritto divino, con gli stessi
privilegi, «due soli», che indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio,
l'altro per la via del mondo, l'uno per la celeste, l'altro per la terrena
felicità. Perciò il papa non può unire i due reggimenti in sè, congiungere
il pastorale e la spada; anzi, come vero servo di Dio e immagine di
Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di questo mondo, e lasciare
a Cesare ciò che è di Cesare. L'imperatore dal suo canto dee usar riverenza
al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poichè
il popolo è corrotto e usurpatore, e la società è viziosa e anarchica,
il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia, ristaurando
l'impero della legge. Nè è a temere che sia tiranno, perchè nella stessa
sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le franchigie
de' comuni e l'indipendenza delle nazioni. Questa era l'utopia dantesca
o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il
filosofo.
Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia
romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre età
dell'uomo. Nell'infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con
geste maravigliose, una serie di miracoli che attestano la sua missione
provvidenziale, si apparecchiò alla età virile, ordinandosi a monarchia
sotto Augusto, che san Tommaso chiama vicario di Cristo, e che Dante,
seguendo la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea fondatore
dell'impero, per disegno divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo,
e «fu suddito dell'impero», e compì l'opera della redenzione delle anime,
mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.
Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino
dee essere la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire
in terra se non con la ristaurazione dell'impero romano, «la monarchia
predestinata» di cui la più bella parte il giardino, era l'Italia.
In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto
l'avvenire: ci era l'affrancamento del laicato e l'avviamento a più
larghe unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al
di là del comune vedi la nazione, e al di là della nazione l'umanità,
la confederazione delle nazioni. Era un'utopia che segnava la via della
storia.
Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che la società era
corrotta e disordinata, e chiedevano il paciere. La selva, immagine
della corruzione, è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e
a Dante ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie
un legato del papa, come Carlo di Valois, «che giostrò con la lancia
di Giuda», come dice Dante. I ghibellini invocavano l'imperatore. E
credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via
all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso a pacificare l'Italia
e morto al principio dell'impresa, glorificato da Dante, celebrato da
Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi e
ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che
metter l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto
di tutt'i conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo
nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la
più originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito,
si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.
Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu la sua
vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu
per lui un dato, un punto di partenza. L'accettò come gli veniva dalla
scuola, e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna
cosa lasciò un'orma del suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare
che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione anche più assurda, e gran
parte degli errori e de' pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza
Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani.
La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti dell'età.
Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dà pari importanza
a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più
puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in
minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite
distinzioni. Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine,
troverai nella sua Monarchia un'ampiezza ed unità di disegno
ed una concordanza di parti, che ti fa indovinare il grande architetto
dell'altro mondo.
I difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e gl'intralciano
lo stile, e gl'impediscono quell'andamento naturale e piano del discorso,
che potea renderlo accessibile agl'illetterati, a' quali era destinato.
La sua teoria della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave
e semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino,
egli latinizza il volgare, cercando nobiltà e maestà nelle perifrasi,
ne' contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana
e non latina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del
dialetto, e lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino
e a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse
concesso un più squisito senso artistico, avrebbe forse potuto essere
fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia, e senti la rozzezza nello
sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo, che la passione
lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare
l'artista.
Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch'egli
cercava, non potè realizzarlo come scienza e come prosa.
- Che cerchi? - Gli domandò un frate. Rispose: - Pace. - E questo
cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del regno terrestre
col regno celeste, dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla terra.
«Adveniat regnum tuum.» Pace vera quaggiù non può essere; vera
pace è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse:
«Io sono in pace». La vita è una prova, un tirocinio, per accostarsi
quanto si può all'ideale celeste e meritarsi l'eterna pace.
Lo scopo della vita è la salvazione dell'anima, la pace dell'anima nel
mondo celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in cielo. La vita
è la storia dell'anima, è un «mistero». Uscita pura dalle mani di Dio
«che la vagheggia», è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non
può tornare nella patria che purificata di ogni macula terrestre. Per
giungere a pace bisogna passare per tre gradi, personificati ne' tre
esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a' quali rispondono i tre mondi,
inferno, purgatorio e paradiso. Il «mistero» o la storia finisce al
primo grado, quando l'anima sopraffatta dall, Umano e vinta nella sua
battaglia col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima,
la tragedia di Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse
riscattato. Ma quando l'anima vince le tentazioni del demonio, e si
spoglia e si purga dell'Umano, hai la sua glorificazione nell'eterna
pace: hai la «commedia» dell'anima. Questo è il mistero, ora tragedia,
ora commedia, secondo che prevale l'umano o il divino, il terrestre
o il celeste, che giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte
le leggende di quell'età. Messo in iscena, era detto «rappresentazione»:
narrato. Era «leggenda» o «vita», esposto in figura era «allegoria»,
rappresentato in modo diretto e immediato, era «visione»; anzi le due
forme si compenetravano, e spesso l'allegoria era una visione, e la
visione era allegorica. Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni
erano diverse forme di questo mistero dell'anima, del quale i teologi
erano i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiungevano
spesso alla dottrina l'esempio, qualche leggenda o visione, com'è nello
Specchio di vera penitenza. Il mistero dell'anima era in fondo
tutta una metafisica religiosa, che comprendeva i più delicati e sostanziali
problemi della vita, e produceva una civiltà a sè conforme. Ci entrava
l'individuo e la società, la filosofia e la letteratura.
La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per
due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L'Allegoria
dell'anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione
alle virtù, la Commedia dell'anima sono in forma letteraria
la teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge
la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtà
storica ne' Fioretti, nelle leggende e nelle visioni del Cavalca
e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l'impulso
della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come
privo di dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come
si parla era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di
dire illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della quale
Dante die' nel Convito un saggio poco felice. Nè potea piacere
quella semplicità di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad
uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta
erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco conto quella letteratura,
giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto che essi avevano
della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione
rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi indiscutibili.
Tali erano l'unità e personalità di Dio, l'immortalità dello spirito
e lo scopo della vita oltre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando
la coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico
era noto, e la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria
e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il regno
di Dio era conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare
intelletto e atto. Il mediatore era l'Amore, principio delle cose divine
e umane, e non l'amore sensuale, ch'era peccato, ma un amore intellettuale,
l'amore della filosofia. Il frutto dell'amore è la sapienza, che non
è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la virtù. Il regno
di Dio in terra era dunque il regno della virtù, o come dicevano, della
giustizia e della pace. A realizzare questo regno erano istrumenti i
due Soli, i due organi di Dio, il papa e l'imperatore. La politica era
l'arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo
gli uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente etico,
come s'è visto in Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato,
in Dino Compagni. All'effettuazione di questo regno etico concorreva
la tradizione virgiliana; perchè Virgilio era un testo non meno rispettabile
che la Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione
dell'impero romano.
In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele, e persistenti
l'una accanto all'altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita
contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri, e che ha per
risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni,
e l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico,
e abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per risultato somme, enciclopedie,
trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature
erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito
e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola.
Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura, specialmente
nella sua parte più accessibile e pratica, l'etica e la morale. Indi
le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori,
Giardini, Tesori, Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere
fu il Tesoretto.
Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa,
nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne.
È il mistero dell'anima così come è rappresentato nella Commedia
dell'anima. L'anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve
pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale, o luce intellettuale,
è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente colta, è la donna platonica
e innominata de' poeti, battezzata e santificata.
Nella seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve la sua esplicazione
dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a
metter capo nella pura scienza, nell'esposizione scolastica di un mondo
morale, dell'etica.
La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone
di Caterina: il suo difetto ingenito è l'astrazione dell'ascetismo.
La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del
Convito: il suo difetto intrinseco è l'astrazione della scienza.
Tutte e due hanno una malattia comune, l'astrazione, e la sua conseguenza
letteraria, l'allegoria.
Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti, o piuttosto
non era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle qualità
del suo spirito e del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non
è l'ardore della ricerca e della investigazione, che è il genio degli
spiriti speculativi. La scienza è per lui un dogma: il cervello rimane
passivo in quelle scolastiche esposizioni. Avea troppa immaginazione,
perchè potesse rimaner nell'astratto, e studia più a figurarlo e colorirlo
che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice, il vivo sentimento
della realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso,
le ansietà della vita pubblica e privata, non poteano avere appagamento
in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto cara.
Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle realizzare
questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano, farne
un mondo vivente.
Il mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dall'ignoranza. Rimedio
è la scienza, secondo i cui princìpi dovrebb'esser conformato. La scienza
è il mondo ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo ideale si
trova realizzato nell'altra vita, nel regno di Dio, conforme alla verità
e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via,
la contemplazione e la visione dell'altra vita. Per questa via l'anima,
superate le battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua
eterna commedia, la beatitudine.
Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione,
detta la Commedia, rappresentazione allegorica del regno di Dio,
il «mistero dell'anima» o la «Commedia dell'anima.»
VII - LA COMMEDIA
Chi mi ha seguito vede che la «Divina Commedia»
non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello
di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio
è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a
tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati,
tesori, giardini, sonetti e canzoni. L'Allegoria dell'anima e
la Commedia dell'anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti
generali di questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l'etica, che Dante cerca di rendere
accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema
è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate
intorno al mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte
le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura
di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a base della
coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature,
che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che le ispirava,
il mistero dell'anima. La rappresentazione e la leggenda esce dalla
sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della scienza;
la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda.
Indi l'immensa popolarità di questo libro, che gl'illetterati accettavano
nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza,
come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi
quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni,
nè è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa
e come alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno.
- Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani, e
il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di
squarciare il velo lo fanno più denso.
In effetti la Divina Commedia è una visione dell'altro mondo
allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra
vita è il dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito
nell'altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla
seconda vita, a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima:
contemplare e vedere l'altro mondo è la via della salvazione. Per campare
dalla selva del vizio e dell'ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa,
vede in ispirito l'altro mondo e narra quello che vede. Questo è il
motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt'i santi, è
il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della Commedia, visione
dell'altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro
mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o
il mistero dell'anima ne' suoi tre stati, detti nell'Allegoria dell'anima
Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, Purgatorio
e Paradiso. È l'anima intenebrata dal senso, nello stato puramente
umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna
pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non meno che la
lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo
mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella
descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni
terrene. Il mistero dell'anima era la base di tutte le invenzioni, la
leggenda delle leggende. L'uomo, caduto nell'errore e nella miseria,
che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi,
era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto nell'Introduzione
alle virtù e nella Commedia dell'anima.
La Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio pura,
che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e
vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtù combattono, come gli
dei di Omero, intorno all'anima; le virtù vincono e l'anima è salva.
Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in miseria,
a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e
gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando
i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice
di Boezio, così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice
apparve questa «nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo», facendolo
suo amico e servo. Il vizio e l'ignoranza, la conversione per opera
di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di
Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de'
semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e
tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio
e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo.
L'anima nell'inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal
terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la
ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda
e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale,
che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.
Perchè l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella sua storia,
il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo
libero dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme
cristiane, adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza,
sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando
insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane.
Così ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato
dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito
e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo
antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca,
legittimata qui dall'allegoria, che concede al poeta libertà di forme
ch'egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano
e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare
un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono
talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi
tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon
parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate
da un solo concetto, il concetto cristiano.
L'ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua
espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia
dell'anima; e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto.
Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta
la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si
trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all'assalto
delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo
dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l'inferno
e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice,
sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente,
Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia, e l'altro
mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l'etica
realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia
e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo,
come società umana, o umanità. Come l'individuo, così la società è corrotta
e discorde, e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia
o della legge, riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore.
E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio,
fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo
del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma
è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all'individuo e
alla società. È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può
interpretare in un senso puramente etico, per rispetto all'individuo,
e in un senso politico, per rispetto alla società. E non è perciò maraviglia
che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse
interpretazioni.
Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme,
gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo
la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e
indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno
d'idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione
all'idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso
se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L'allegoria
dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la
vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a
sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una
figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e astratte.
La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente
d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato
è fuori di sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila del
Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette «P» incise sulla
fronte.
La poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo
in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche
alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E
verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La
poesia era stimata un tessuto di menzogne, e «poeta» e «mentitore»,
come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati,
come dice san Girolamo, «cibo del diavolo». La poesia perciò non fu
accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie
di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano detti
«poeti solenni», a distinzione de' «popolari», i dotti che esprimevano
in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce
la poesia «banditrice del vero», sotto «il velame della favola ascoso»,
di modo che il lettore «sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e
ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti». La poesia
è in sè una «bella menzogna», che non ha alcun valore, se non come figura
del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri
lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti,
e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte
a questo processo, a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia
scolastica era l'Ente con tutte le altre generalità, e la pratica del
sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa
la maggiore, la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è
la maggiore dell'altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.
La patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi
da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.
L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è «semplicetta», «sa nulla»; ma
ha due facoltà innate, la ragione e l'appetito, «la virtù che consiglia»,
e l'esser «mobile ad ogni cosa che piace», l'esser «presta ad amare».
L'appetito (affetto, amore) la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza
non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s'inganna.
L'ignoranza genera l'errore, e l'errore genera il male.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale.
Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo
dunque, per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al
sommo Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera:
indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.
La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e
del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene,
alla moralità. La moralità è la «bellezza della filosofia»: è l'etica,
«regina delle scienze», «il primo cielo cristallino».
A filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa
di bene e di male, secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore
è «appetito non cavalcato dalla ragione». Il vero amore è studio della
filosofia, «unimento spirituale dell'anima con la cosa amata».
Filosofia è «amistanza a sapienza», amicizia dell'anima con la sapienza.
Nelle nature inferiori l'amore è «sensibile dilettazione». Solo l'uomo,
come «natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù» (alla filosofia).
Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista.
In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi
pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste
della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere
alle passioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza
dell'animo nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male
o del peccato), e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a
salvarla. La ragione andava a tentoni e menava all'errore; «i filosofi
andavan e non sapevan dove»; l'amore rimaso senza «rettore» divenne
appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio
si fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima espiatoria per
lei.
Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede,
l'amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla
teologia, la rivelazione.
Redenta l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con
l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore
e dalla grazia, può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano
sino a Dio, al sommo Bene.
Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene
comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della
morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria
a salute.
La morale è il «Nosce te ipsum», la conoscenza di se stesso.
L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la
morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male o del
vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è
il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza.
L'altro mondo è perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si
trova in questa vita.
La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata, una
storia morale dell'uomo, com'egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno
ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione.
Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.
Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore, la selva
erronea del Convito), vede il dilettoso colle, principio e cagione
di tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che mena dritto
altrui per ogni calle (la scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti
sensuali) gli tengono il passo. L'uomo da sè non può salire il calle,
non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina, l'aiuto
soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore,
ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che, confesso
e pentito e purgato d'ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione
sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo
stato d'ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della
scienza (l'altro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima
l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua
natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora
in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria
e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa
libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo
stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il peccato d'origine,
e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la
sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine), di
grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione
beatifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione
dell'umano e del divino si riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui.
La società serva della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza
e dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca la carne
ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia,
se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che
faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica,
morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema
dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e
a tutte le filosofie, il mistero dell'anima, pensiero della letteratura
volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente.
L'umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica
di Milton è l'antecedente del problema. L'umanità ha racquistato il
paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in
che modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta
a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva,
imitando Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con l'amore. Bisogna
volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare.
- Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima
e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica,
alla comunione tra l'anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura
volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri,
e nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra
vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro
mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera
non sono che un continuo «Memento mori»; è famoso il «Pensa,
anima mia», frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir
dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di
quaggiù sono caduche e «nulla promission rendono intera», se il significato
serio della vita è nell'altro mondo, se là è il vero, è la realtà: l'Iliade,
il poema della vita è la Commedia, la storia dell'altro mondo.
In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani
menavano vanto della loro ignoranza: «Beati pauperes spiritu».
Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano
ex abundantia cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede,
la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso
umiliava l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso.
Aristotele dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella
teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo
avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione,
in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto,
diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra
lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta
nella contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine
è la visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti,
non gli operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere,
bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del
pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione, che non
sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia anche grazia;
Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere
mena a un suo atto del volere. L'intelletto è in cima della scala: l'amore
dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema
si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è
più l'ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza,
l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva.
La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita;
e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la
contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi
nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione
entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa,
credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno esperta della misura
di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea
ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo
della scienza non era speculativo solamente, ma pratico. Nell'ordine
speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro
chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare
anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se questo miracolo
non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza,
doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza.
Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla
all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza
de' costumi e l'arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono
infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo
spirito e l'ardore scientifico, manca in tutti, anche in Dante. La stessa
esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste
condizioni non potea uscire una letteratura filosofica, quella forma,
propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come
in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l'accompagnano,
pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola
intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita
superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio
del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa l'immaginazione.
In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che
tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello
spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola.
La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante
sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli,
non vive della vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta.
Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione,
un mio che non è me, non è fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione
e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro
intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo
sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici
della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne
coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le sue
prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le parti superiori
della scienza, non riman libera che l'ultima e più bassa operazione
dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l'edificio, ne seguitò quella falsa
poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento
della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione
diretta o l'allegorica. Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione
dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono
un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo
allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta
nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me
nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia
morale, la scienza della salvazione. - E i morti parlano ed espongono
la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti
in vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de' morti,
ma anche nella costruzione e rappresentazione dell'altro mondo, dove
essa è sposta sotto figura, in forma allegorica. Il sistema insegue
il poeta in mezzo a' suoi fantasmi, e dice: - Bada che tu non passeggi
per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento
della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della scienza.
- E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue invenzioni, belle
che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando
non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si
dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa
realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la
scienza, come dietro l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo,
e la realtà è l'ombra, «ombrifero prefazio del vero», anzi è meno che
ombra, perchè nell'ombra ci è pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto
della scienza, come la parola è del pensiero, un alfabeto composto non
di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto.
Perciò quel concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o
dell'umana destinazione, non era ancora realizzato come arte; perchè
l'arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se
stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi,
lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura
popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte.
Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese
quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio
del vero, l'allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea
uscir l'arte.
Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta
che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone
un problema assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori
del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore,
non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea rimane invitta nella
sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della
sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire
la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della
poesia e della scienza, ch'egli chiama nel Convito un «eterno
matrimonio», non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle
preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno
carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente,
quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e
anima, la realtà.
L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà,
che però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e
il cui interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che
sia. E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura,
e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta
allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce
qualità non sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza
e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè sue,
ma perchè si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio.
In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per dir meglio
non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato, nel pensiero.
Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di
maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato;
o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico.
La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perchè
figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui
è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato
è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare
innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo, perchè quel
corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sè ed un
altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato
in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e considerato attentamente
mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il
figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso
letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano,
e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci sta o come
immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato
parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini.
Il pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella
figura. Hai forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.
Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni.
Se l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere
nel mondo cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia,
ha d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo, togliendogli
la libertà e spontaneità della vita, divenuto un pensiero e una figura,
una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica
nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe
quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi,
grottesca figura d'idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto
e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella
sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri,
nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già
tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri
di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri
allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo,
gli angioli, i santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che
essi chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che
essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il
santo, il profeta, l'apostolo, banditore della parola di Dio; Dante,
l'amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non
solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo e predicandolo
agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro
che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta,
era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria nel
suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza,
lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva,
anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura,
una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo,
è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come
ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo
pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura,
così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà,
che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è
nei cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa
cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione
religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi
a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi
de' chierici e de' frati, la corruzione della città santa, dove Cristo
si mercava ogni giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato
da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' re. Su questo punto
i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era
l'indignazione. Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi
con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio,
inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi
i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re
di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo
e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale,
era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento
alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella
unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di
Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici
e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi
entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava
il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano,
e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza
con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica.
E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava
un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell, oro della
vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione
astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice
e parte. Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo
tra speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta
e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla
patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c'era
la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta
nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino.
Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante
sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo,
centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e
la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti
dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica,
come entra in quel mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel
pittore che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi
nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la
figura e trova una realtà piena di vita, trova se stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che «poeta» vuol
dire «profeta», banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea
dov'era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all'allegoria. La favola,
ciò ch'egli chiama «bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si
lascia ir dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a
mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col
secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino,
particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce
a' mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se
stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari.
Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò
alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene
nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico,
di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si
è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà
d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature. Sia pure
l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro
mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante,
e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca
dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè nella Commedia, come in tutt'i lavori d'arte, si ha a
distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta
ha voluto e ciò che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello
che può. Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee
e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale
è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro,
logico e concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista,
scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione,
ma il mondo dell'arte.
Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro.
Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare
da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore.
È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo
le tracce del provvisorio. È probabile che la Commedia sia stata
vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle «commedie
dell'anima», di quelle visioni dell'altra vita, così in voga; e che
dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla
rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti
e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde
gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente
drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con
se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il
quale, quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi
quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa
di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi,
tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha
la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla. Ma sono
frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano,
si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita
a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo
tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi.
Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma
stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo
la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento,
è insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella
l'altro mondo non ha ragion d'essere. La base dunque è vera, è nell'argomento;
e se difetto c'è, il difetto è nella natura dell'argomento. Ma Dante
meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento.
Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta
neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema
di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore
dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa
il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà
si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene
un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta
spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere
l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare
un frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari. La lettera
ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di
là dell'apparenza. Ma egli scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti
sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare
di là! E tutti si son messi a guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro
occulto, la figura e il figurato. E poichè l'interesse è in questo senso
occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno cercato,
e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce
infine il buon senso, esce Voltaire e dice: «Gl'italiani lo chiamano
divino ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli;
la sua fama si manterrà sempre, perchè nessuno lo legge». E Voltaire
vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non
ti vuoi far capire, statti con Dio -. E vuol dire ancora: - Ne val poi
la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -. Pure nè
il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo
disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani e
stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto
a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò
ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza
d'ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi,
nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle
ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne'
particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi
che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in
Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere
una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un
pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di
sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è
il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli
appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi
ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore
di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi
pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla
sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere:
«Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo: - Poichè non è là, cerchiamolo
altrove. - La grandezza del dio non è nel santuario, ma là dove si mostra
con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo
ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando
a coro della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano,
si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico,
se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse
in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che
le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo
vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli
sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: -
Cotesto «arri» non ci misi io -. Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra
colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria:
perchè non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde
appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì bella? Perchè le avete
data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare
l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per
me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di
che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo
un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso
morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano
che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello
allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono
un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato,
e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta,
che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò
si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi.
Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra voi
e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto
un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi
infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della
vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che
sono un elogio.
Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva.
Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere
un altro. Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova
mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa
concezione dal vezzo de' tempi, valica l'argomento e si trova in un
mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso
tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma, come
attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova
la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria;
e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione
non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando
a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale, tanto
caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del
mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo,
è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia, è il suo di là,
la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre,
che gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta
ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette,
che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si
discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico,
scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore
o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta,
alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua
poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti
già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura;
e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è
che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca
e tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel
contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato:
spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come
arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran
cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il
contrario dell'arte. La religione era misticismo la filosofia scolasticismo.
L'una scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti
a staccarsi dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e di
citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle
vacue generalità che si chiamavano «essenze». Gli spiriti erano tirati
verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò
che è proprio il contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi il reale
rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende.
Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa
e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c'era
la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima, e fa di questa
storia il centro di una sua visione dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione
non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono
figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta
verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata
per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola
il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a materializzare,
a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel
mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che
non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma
è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto
e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato
e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo,
tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema
universale, dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si
chiamano il «medio evo».
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione
del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta
poesia. La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale
spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro
e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero,
ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d'immagini che pur non
bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue
figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta
bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie
e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli
escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il
lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un altro senso,
che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando
a quando, ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato
alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e
riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico,
pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati.
Or rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di
vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente
e lo esprime con semplicità. Ora rozzo cronista, ora pittore finito.
Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare
la vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze.
Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell'immagine. E
mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti trovi
innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti
dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora
la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva
tutta l'esistenza, com'era allora. I contrari elementi, che fermentavano
in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui.
E senza che ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto
è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano,
contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia
e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e
armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie
e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma
il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle
forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'artista.
E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato,
ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente
doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo.
Perchè un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a
genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto
e le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d'intendere
il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non
è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima
o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi
regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia
e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare
il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che
contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche
della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi,
il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?
È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima
spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente,
l'immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo
non ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una
logica preconcetta, secondo l'idea morale. Reale e ideale diventano
identici, apparenza e sostanza è tutt'uno. L'uomo non ha più libero
arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è
cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria,
famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c'è più successione, nè sviluppo,
non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L'individuo
scompare nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi.
Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto
nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca l'azione; non ci è dramma,
perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione
di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza,
descrizione della natura e dell'uomo.
Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione,
descrizione, una storia naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro
è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio
dall'umano al divino, «di Fiorenza in popol giusto e sano». Ci hai dunque
l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori
sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice,
san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica
è la Commedia dell'anima. Dico apparenza di un dramma, perchè
la santificazione nasce non dall'operare, ma dal contemplare, e Dante
contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque
svanisce nella contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende,
divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato,
gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo.
E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in
lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura è scienza, e
da cui è sbandito l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della
vita reale e dell'arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe
chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria.
Ma Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni
de' vivi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo
o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di
quel tempo, nella quale è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora,
con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose,
con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un
uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l'antica vita,
ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire
vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo. Così la poesia
abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino;
ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta
dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come opposizione,
o paragone, o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il tempo, la storia
e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione
virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita,
ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo,
Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi
e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua
storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue
predilezioni.
Così la vita s'integra, l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale
e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa
comprensione Dante, spettatore, attore e giudice. La vita guardata dall'altro
mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L'altro mondo
guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi. E n'è
uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo.
Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d'azione, che si succedono,
si avvicendano, s'incrociano, si compenetrano, si spiegano e s'illuminano
a vicenda, in perpetuo ritorno l'uno nell'altro. La loro unità non è
in un protagonista, nè in un'azione, nè in un fine astratto ed estraneo
alla materia, ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale,
vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello
spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili,
ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com'è la vita.
Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi,
materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza. Cielo
e terra sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro
reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il
suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni
uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire
l'inferno, non può abolir la coscienza. Appunto perchè i due mondi sono
la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa
il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo rende i corpi
ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre
freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d'imprecazioni terrene
fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso le loro passioni
e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell'attitudine, in
quella espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti
dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra, trasportandola
nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne scopre
il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro,
che è la loro ironia. Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso
della situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un'apostrofe,
ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un'azione, ora nella natura,
ora nell'uomo. In questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile
trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così
largo. Niente è nell'argomento che costringa il poeta a preferire il
tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti
gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità, sono a sua scelta;
e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e
può intramettere nello scopo generale fini particolari, senza che ne
scapiti l'unità. Il che dà al suo universo compiuta realità poetica,
veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà
dell'umana persona e dall'accidente, e moversi con vario gioco tutt'i
contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato
col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci
è una situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito drammatico,
e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive,
vere enciclopedie, bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il
tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia
e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò
nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno entra nell'altro,
l'uno si compie nell'altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati,
che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro -; così i diversi
generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li
dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico.
-
È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti,
il «poema sacro», l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione
incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette
la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo;
la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente
tutte le passioni umane.
L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo,
è il concetto di salvazione, la via che conduce l'anima dal male al
bene, dall'errore al vero, dall'anarchia alla legge, dal molteplice
all'uno. È il concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita
alla pluralità pagana. Questo concetto, se fosse solo un di fuori, spiegato
nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma
allegorica come figurato, non basterebbe a generare un'opera d'arte.
Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato
e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico, ma principio
attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma quel
mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo,
se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù
o la legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha per suo
contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in
un «vasello», da cui si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo,
una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. E la
sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza
e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi
e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità,
la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito
che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione
delle forme, un costante salire di carne a spirito, l'emancipazione
della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore, la collisione
tra il satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta.
Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta
gli uomini nell'altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza;
lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono
come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza
che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l'infinito
spirito; tutto l'altro è «vanità che par persona». Questo assottigliamento
è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L'Inferno
è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno
vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i
caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell'altro
mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato
eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce
il sole, la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza
penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi
dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel
Paradiso l'umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono
ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione
s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto spirito,
la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
... ... tutta cessa
mia visione e ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta
la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate
sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte
le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione,
in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in
tutti gl'indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera
allo spirito, dal simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento;
nella scienza dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione
alla rivelazione; in morale dal male al bene, dall'odio all'amore, mediante
l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità. Sottoposto alle condizioni
di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo,
il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato,
che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre
al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza
della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le
discordie, le colpe e i vizi della barbara età, dalle quali vi sentite
a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in
politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre
a pace e concordia nell'unità dell'impero. Così un solo concetto penetra
il tutto, come forma, come pensiero e come storia. Mai più vasta e concorde
comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro
l'altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione;
Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta
lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di
cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema
o «religioso», o «politico», o «didascalico», o «morale», lo riducono
a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini.
Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto
quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno
si fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante. -
E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè. È il mondo universale
del medio evo realizzato dall'arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo
il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il paradiso sono le
due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore, e il purgatorio
è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de' quali la letteratura
non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia
dantesca vivi e compiuti.
L'inferno è il regno del male, la morte dell'anima e il dominio della
carne, il caos: esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte sia rappresentazione
del bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che
non possa esser nell'arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva
o in sè contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme:
e perciò non è arte il confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato,
il concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare:
tutto questo non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L'altro,
bello o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti, senza
freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale
e al senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza,
negato se stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu
sei brutto. - Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più
la sua impressione è gagliarda, più lo vede vivo e vero innanzi alla
immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo,
anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell'arte; perchè
la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il
falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione,
e la vita si cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni
primitive posero della vita due princìpi attivi, il bene e il male,
l'amore e l'odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte
le grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto, così nella natura,
come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con
maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell'anima del poeta.
Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo contrario,
ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda
di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto riesca
spesso nell'arte più interessante e più poetico. Mefistofele è più interessante
di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.
Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima, abbandonata
alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati
dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con
l'energia di uomo offeso nel suo senso morale:
... ... le genti dolorose,
che hanno perduto il ben dell'intelletto...
Che libito fe' licito in sua legge...
Che la ragion sommettono al talento...
L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza;
peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui il
peccato è non in fatto, ma in desiderio. Onde nell'inferno la vita terrena
è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora
presente al dannato. Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta,
la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona.
Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere.
Più ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza. Questa
è certo perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica.
L'arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui,
non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non species
rerum, Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de'
tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale
è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova,
essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il
rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di
fuori. Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo,
appassionatissimo, libera ed energica natura. Al contrario la vita negli
altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia,
cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori
estatici della vita ascetica e contemplativa.
Essendo l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle
allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è
un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla
materia assoluta.
Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di personalità
e di volontà, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno.
In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non
è forza operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio
di esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più
basso grado nella scala de' dannati e paiono a Dante «sciaurati» più
che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non
serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta.
La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno, la poesia li
pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi
uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra energica del gran poeta
e de' suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo
questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto
dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini
che vissero senza infamia e senza lode», anzi «non fur mai vivi». La
loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono
stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza
morale, sono così vinti nel «duolo», che lacrimano e gettano le alte
strida, che fanno tumultuare l'aria
come la rena quando il turbo spira.
A' loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita,
senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo,
colui che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà,
il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall'inferno. Ritratto
immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali.
Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la negazione
della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi
tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell'inferno, perchè mancò
loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i virtuosi non battezzati
non sono in paradiso, perchè mancò loro la fede, sono nel Limbo. E anche
qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione.
La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il valore poetico
dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia
vitale; non è una idea, ma una forza, il personaggio poetico. Perciò
il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la
negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la
mancanza di fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto nel
valore intrinseco dell'uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo
stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la
loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza
dell'ingegno e delle opere:
... ... L'onrata nominanza
che di lor suona su nel vostro mondo,
grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si
fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini
illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava
questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le impressioni
che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni
quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie
di questo mondo greco-latino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto,
ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava!
Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano
i protagonisti, il «signore dell'altissimo canto» e il «maestro di color
che sanno». E colui, che a quella vista si sente «esaltare» in se stesso
e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de'
tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è non il Dante dell'altro mondo,
ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come
il mondo de' negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un
profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli.
Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.
Come l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo
il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno
del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie
del delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione.
Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi
e gironi. Il concetto etico di questa scala de' delitti è che dove è
più ingiuria è più colpa, e l'ingiuria non è tanto nel fatto, quanto
nell'intenzione. Perciò la malizia e la frode è più colpevole della
incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de' traditori è
più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione dell'inferno,
dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di Dite,
sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo de'
traditori. Questo è l'inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l'inferno
poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente.
L'ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico
una serie di figure, di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti,
il secondo una serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali
individui. Dividere in categorie significa considerare in un gruppo
d'individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha
di comune col gruppo a cui appartiene. Così una classificazione è possibile,
una esatta riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l'individuo
nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale,
ma come forza viva e operante. E più in lui è vita, più è poesia. Perciò,
se l'inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito,
sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale, succede la malizia,
«male proprio dell'uomo», e alla malizia la fredda premeditazione, questo
concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione.
Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte progressiva della
natura, la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta
immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore
la poesia. Indi la storia dell'inferno.
Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita
si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie
tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano
della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista
la coscienza della sua libertà infinita. Preso per se stesso lo spirito
ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta
neppure da Dio, non potendo Dio fare ch'esso non creda, non senta e
non voglia quello che crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola, così
vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione.
- Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò,
e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso. - Queste sono
le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che
rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito,
nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui
è un fragile individuo. E n'esce la tragica collisione tra la passione
e il fato, l'uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il
fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni;
il fato talora è il caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli
naturali e umani in cui intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima
è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile
e onnipotente, e il fato è Dio, come eterna giustizia e legge morale:
onde la prima parte dell'inferno, ove incontinenti e violenti, esseri
tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio,
è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.
Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura
infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri
che la rendono un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le
tenebre. L'eterno è sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo stesso
punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime, perchè
ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi;
la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia,
per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla.
Leggete la scritta sulla porta dell'inferno. Ne' primi tre versi è l'eterno
immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo,
quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo
l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
Continua
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