La parola come parola, fine a se stessa, è il carattere
della forma letteraria o accademica. Nel secolo scorso aveva un aspetto
ciceroniano e boccaccevole; ora, divenuta l'essenza stessa della letteratura,
vi si aggiunge un'aria preziosa, cioè a dire una ostentazione di peregrinità
nella sottigliezza del concetto o nel giro della frase. Citammo già
alcuni esempi di Pietro Aretino. Ora ci è in tutti anche ne' più semplici,
un po' di Pietro Aretino. E quando questo sforzo dello spirito pareva
soverchia fatica, gli scrittori rimanevano senza più semplici parolai
o frasaiuoli: ciò che si diceva «stile fiorito». Queste sono le due
forme della decadenza, di cui si vedono già i vestigi in Pietro Aretino,
e che ora tengono il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici
s'incensano, si batton le mani, si decretano l'immortalità. Abbiamo
gli Ardenti, i Solleciti, gl'Intrepidi, gli Olimpici, i Galeotti, gli
Storditi, gl'Insipidi, gli Ottusi, gli Smarriti. Acquistano un'importanza
artificiale, molti vi pigliano il battesimo di grandi uomini, come fu
del Salvini, dotto uomo ma d'ingegno assai inferiore alla fama. Corona
di questa letteratura frivola sono gli acrostici, gl'indovinelli, gli
anagrammi, e simili giuochi di spiriti oziosi.
La parola, come parola, può per qualche tempo avere un'esistenza artificiale
nelle accademie, ma non potrà mai formare una letteratura popolare,
perchè la parola, se come espressione è potentissima, come semplice
sensibile è inferiore a tutti gli altr'istrumenti dell'arte. La parola
è potentissima, quando viene dall'anima, e mette in moto tutte le facoltà
dell'anima ne' suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola
non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa. Allora la vista
materiale, il colore, il suono, il gesto sono ben più efficaci alla
rappresentazione che quella morta parola. Si comprende adunque come
i parolai con tutto il loro spirito e la loro eleganza mantennero la
loro influenza in un circolo sempre più ristretto di lettori, e come
al contrario presero il sopravvento gli attori, i musici e i cantanti,
divenuti popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del
Fagiuoli doveano piacer meno che le commedie a soggetto, venute sempre
più in voga, dove il fondo monotono e tradizionale era ringiovanito
dagli accessorii improvvisati e dall'abile mimica. D'altra parte nella
parola si sviluppava sempre più l'elemento cantabile e musicale, già
spiccatissimo nel Tasso, nel Guarini, nel Marino. La sonorità o la melodia
era divenuta principal legge del verso o della prosa, e si fabbricavano
i periodi a suon di musica: ciascuno aveva nell'orecchio un'onda melodiosa.
Parte di rettorica era la declamazione, cioè a dire un modo di recitare
solenne e armonioso. La parola non era più una idea, era un suono; e
spesso recitavasi a controsenso, per non guastare il suono. Questo movimento
musicale della nuova letteratura già visibile nel Petrarca e nel Boccaccio,
pure armonizzato con le idee e le immagini, ora in quella insipidezza
di ogni vita interiore diviene esso il principale regolatore di tutti
gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell'orecchio.
E si capisce come, giunte le cose a questo punto, la letteratura muore
d'inanizione, per difetto di sangue e di calore interno, e divenuta
parola che suona, si trasforma nella musica e nel canto, che più direttamente
ed energicamente conseguono lo scopo. Perciò fra tanta letteratura accademica
il melodramma o il dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario,
la mimica, il canto e la musica opera sull'immaginazione ben più potentemente
che la parola insipida, vacua sonorità, rimasta semplice accessorio.
La letteratura moriva, e nasceva la musica.
Già la musica non fu mai scompagnata dalla poesia. Liriche sacre e profane
erano cantate e musicate, e ancora tutta la varietà delle canzoni popolari.
Nel teatro i cori e gl'intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma
divenne insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si cercò l'interesse
nella musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse,
si ricorse a tutt'i mezzi più efficaci su' sensi e sull'immaginativa,
magnificenza e varietà di apparati scenici, combinazioni fantastiche
di avvenimenti, allegorie e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione
e dissoluzione letteraria che uscì il melodramma, o l'«opera», serbata
a sì grandi destini.
Il primo tipo del melodramma è l'Orfeo. Il Tasso, il Guarini,
il Marino sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è in
gran parte melodrammatica. E quelle canzonette, tutti quei languori
di Filli e Amarilli sono i preludi del Metastasio. I trilli, le cadenze,
le variazioni, i parallelismi, le simmetrie, le ripigliate, tutt'i congegni
della melodia musicale, appariscono già nella poesia. La parola, non
essendo altro più che musica, avea perduta la sua ragion d'essere, e
cesse il campo alla musica e al canto.
XIX - LA NUOVA SCIENZA
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione
della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che
si chiuse col Folengo e l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo
dal Concilio di Trento, nacque un'affermazione ipocrita e rettorica,
sotto alla quale senti una delle forme più deleterie della negazione,
l'indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata,
non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico,
il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica.
Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto
l'affermazione del Machiavelli, una prima ricostruzione della coscienza,
un mondo nuovo in opposizione dell'ascetismo, trovato e illustrato dalla
scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il
suo contenuto, il suo motivo, la sua novità. Accettarlo o combatterlo
era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede, lottare, poetare,
vivere, morire per quella.
I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era
sviluppata un'agitazione filosofica nelle università e nelle accademie,
indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione
mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora nelle
scuole. I liberi pensatori eran detti «filosofi moderni» o i «nuovi
filosofi», come predicatori di nuove dottrine, e vedemmo come il Tasso
nella sua giovinezza soggiacque alla loro autorità. Tra questi nuovi
filosofi, che proclamavano l'autonomia della ragione, e la sua indipendenza
da ogni autorità di teologo e di filosofo, disputando soprattutto contro
Aristotile, era Bernardino Telesio, dell'Accademia Cosentina, nel quale
è già spiccata la tendenza all'investigazione de' fatti naturali e al
libero filosofare lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche.
Tra questi «uomini nuovi», come li chiama Bacone, ebbe qualche fama
il Patrizi, e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente Aristotile
e Platone, fuggì il gergo scolastico, e fu detto dal Leibnitz «exemplum
dictionis philosophiae reformatae». Gli uomini nuovi chiamavano
pedanti gli avversari, e come portavano i tempi, alternavano le villanie
con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l'indipendenza
della filosofia dirimpetto la fede e l'autorità, il metodo sperimentale,
e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione
tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura
andavano di pari passo; il Machiavelli e l'Ariosto s'incontravano sullo
stesso terreno, ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha il
suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia
era troppo radicale, perchè non solo negava il papato, ma il cattolicismo,
e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo, e non solo il cristianesimo,
ma l'altro mondo, e non solo l'altro mondo, ma Dio stesso. Non è che
queste cose apertamente si negassero, anzi il linguaggio era pieno di
cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini
le mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la «natura»,
il «mondo», la «forza delle cose», la «patria», la «gloria», altri elementi
ed altri fini. Era in fondo l'umanismo e il naturalismo, appoggiato
alla ragione e all'esperienza, che prendeva il suo posto nel mondo.
Questo grande movimento dello spirito che segna l'aurora de' tempi moderni,
e che si può ben chiamare il Rinnovamento, avea nell'intelletto italiano
la sua posizione più avanzata. Tutte le idee religiose, morali e politiche
del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella
coscienza degli uomini colti, anche de' preti, anche de' papi: l'indifferenza
pubblica aveva la sua espressione nell'ironia, nel cinismo, nell'umorismo
letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea
produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio più di dissoluzione,
che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica
affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo
e il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento
spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e interessi
politici. La Riforma riuscì, perchè fu limitata nella sua negazione
e nelle sue conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito religioso
e morale delle classi colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo
i principi nella loro lotta contro l'imperatore, seppe metter dalla
sua gl'interessi e le ambizioni. Presso noi, la negazione era un fatto
puramente intellettuale, e quanto più assolute le conclusioni dell'intelletto,
tanto più era debole la volontà e la forza di effettuarle. L'ideale
stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne' suoi voli d'immaginazione
rimaneva inferiore a quella posizione così avanzata dell'intelletto.
Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni
solitarie nell'indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli
passarono inosservate. La libertà del pensiero non era scritta in nessuna
legge, ma ci era nel fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia
materia senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora
concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse
potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il
suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle
idee medie, che meno sono lontane dalla realtà, e che si trovano già
delineate nel Machiavelli, il più pratico e positivo di quegli uomini
nuovi. Avremmo forse avuto la «patria» del Machiavelli, una chiesa nazionale,
una religione purgata di quella parte grottesca e assurda, che la rende
spregevole agli uomini colti, e una educazione civile dell'animo e del
corpo. Ma appunto allora l'Italia perdette la sua indipendenza politica
e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte
parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò feroce
persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e più gli
eretici, come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione,
e, cosa anco peggiore, l'educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I
più arditi esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze
più corrette, e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere
in discussione. Salvar le apparenze era il motto, e bastava. E ne uscì
una società scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme,
insipida nel fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtù,
educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii frequentissimi,
con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo, perchè in nessuna relazione
con la serietà e la pratica della vita.
Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori, nè poi i gesuiti co' loro vezzi
poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea
la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene
ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un
secolo, perchè acquistasse importanza sociale.
La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in
questo, che ne' suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale
ed ogni vigore speculativo, volto il lavoro della mente agli accidenti
e alle forme, più che alla sostanza, com'era pure de' letterati; dove
negli altri hai un serio progresso intellettuale, vivificato dalla fede,
e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea
seco tutte le forze sociali, e l'opposizione cacciata via dalle accademie
e dalle scuole, frenata dall'Inquisizione e dalla censura, toltale ogni
libertà e forza di espansione, era una infima minoranza appena avvertita
nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta, dove
si affina l'intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di
alimento rimase stazionaria e arcadica. L'attività intellettuale e l'ardore
della fede rimase privilegio dell'opposizione, sì che dove trovi movimento
intellettuale, ivi trovi opposizione più o meno pronunziata, e spesso
involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa
opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure, là sono i
nostri padri, là batteva il core d'Italia, là stavano i germi della
vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della
coscienza, e la storia di questa opposizione italiana non è altro se
non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale.
Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia,
non umanità, non civiltà. E non ci era più neppure la negazione, che
anch'essa è vita, anzi ci era una pomposa simulazione de' più nobili
sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica
vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita,
cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del
bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi
uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che
portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.
E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande
ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito,
due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati;
nè altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici
del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose, che trovarono alimento
ne' suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono,
l'intuito, facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza,
e avea sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le cose
dalle somme altezze e cercare l'uno nel differente. Non era di ugual
forza nell'analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d'investigazione,
ma quell'acutezza sofistica d'ingegno, che fa di lui l'ultimo degli
scolastici nelle argomentazioni, e il precursore de' marinisti ne' colori.
Supplisce all'analisi con l'immaginazione, fantasticando, dove non giunge
la sua visione, saltando le idee medie, e sforzandosi divinare quello
che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le
sue idee sono immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie.
Ci era nel suo petto un dio agitatore, che sentono tutt'i grand'ingegni;
ed era un dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme poetiche,
che gli guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il mondo,
che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con
queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero
fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua cultura è ampia e
seria: si mostra dimestico non solo de' filosofi greci, ma de' contemporanei.
Ha una speciale ammirazione verso il «divino» Cusano e molta riverenza
pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora, di cui afferma invidioso Platone.
Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico
Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a quel
giovine tutto quell'edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato
dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s'innestava
una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito
fu negativo e polemico, fu la negazione delle opinioni ricevute, accompagnata
con un amaro disprezzo delle istituzioni e de' costumi sociali. Era
il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava
l'Inquisizione. E Bruno era frate, e frate domenicano. Come uscì dal
convento, e perchè esulò, s'ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad
essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggì
Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più intollerante. Fuggì a
Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua, e pubblicò il suo
primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.
Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno
vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli,
la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta
degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e
fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia
italiana dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano,
massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi
«accademico di nulla accademia, detto il Fastidito». Nel tempo classico
delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico.
Quel «fastidito» ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira
più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge
così:
«L'autore, sì lo conosceste, ... have una fisonomia
smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno;
... un che ride sol per far comme fan gli altri. Per il più lo vedrete
fastidito, restio e bizzarro.»
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza
conclusione. E il risultato della sua commedia è «in tutto non esser
cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto abbastanza, poco di bello
e nulla di buono». Nessuno interesse può destare la scena del mondo
a un uomo, che nella dedica conchiude così:
«Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta,
nulla si annichila, è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno
e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia
l'animo mi s'ingrandisce, e me si magnifica l'intelletto.»
Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico, il quale
è appunto nel contrario, nel dar valore alle più piccole rappresentazioni
della natura, e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a
speculare sull'uno e sul medesimo, non certo a fare un'opera d'arte.
Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue
generalità. Ecco in qual modo dipinge l'innamorato:
«Vedrete in un amante sospiri, lacrime, sbadacchiamenti,
tremori, sogni, rizzamenti e un cuor rostito nel fuoco d'amore; pensamenti,
astrazioni, collere, malinconie, invidie, querele, e men sperar quel
che più si desia.»
E continua di questo passo, ammassando tutt'i luoghi
topici della rettorica e tutte le frasi della moda:
«cuor mio», «mio bene», «mia vita», «mia dolce piaga»
e «morte», «dio», «nume», «poggio», «riposo», «speranza», «fontana»,
«spirito», «tramontana stella», ed «un bel sol che all'alma mai tramonta»,
... «crudo core», «salda colonna», «dura pietra», «petto di diamante»,
... «cruda man che ha le chiavi del mio core», «mia nemica», «mia dolce
guerriera», «bersaglio sol di tutt'i miei pensieri», e «bei son gli
amor miei, non quei d'altrui». È il vecchio frasario de' petrarchisti,
venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico, non
ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo,
il Candelaio, lo mena a questa considerazione filosofica: che
è la candela destinata a illuminare le «ombre delle idee». Perciò costruisce
il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando
nelle apparenze l'essenza e la generalità:
«Eccovi avanti agli occhi oziosi princìpi, debili orditure,
vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di
corde, falsi presuppositi, alienazioni di mente, poetici furori, offuscamento
di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto,
fede sfrenata, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive,
e gloriosi frutti di pazzia.»
Con queste disposizioni non individua, come fa l'artista,
ma generalizza, mette insieme le cose più disparate, perchè nelle massime
differenze trova sempre il simile e l'uno, e profonde antitesi, similitudini,
sinonimi, con una copia, un brio, una novità di relazioni che testimoniano
straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova già in pieno
Seicento, e indovina Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:
«Voi, coltivatrice del campo dell'animo mio, che dopo
di avere attrite le glebe della sua durezza, e assotigliatogli il stile,
acciocchè la polverosa nebbia sollevata dal vento della leggerezza non
offendesse gli occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fonte
del vostro spirito deriva, m'abbeveraste l'intelletto.»
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea
mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i
caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre
e chiaroscuri, con una cinica nudità, resa anche più spiccata da una
lingua grossolana, un italiano abborracciato e mescolato di elementi
napolitani e latini.
In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i tre sciocchi beffardi
e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme più spiccate, la
letteratura, la scienza e l'amore nella loro comica degenerazione. La
letteratura è pedanteria, la scienza è impostura, l'amore è bestialità.
Il personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce sculacciato
e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche
del suo mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico.
Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico,
che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari, ed è messo alla
berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante
rappresenta la parte del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale.
A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario, l'allegorico
e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto
immagini e finzioni, com'è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio
della bestia trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi
più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo Degli
eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante, una filza di
sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalità è una
dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto
nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono
dal contenuto, sono appiccate a quello, e sono forme invecchiate e corrotte
dal lungo uso, perciò senza grazia e semplicità, e senza calore intimo.
Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla
sua attività intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende
di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze,
che è il cattivo gusto degli uomini d'ingegno.
Ma quest'uomo così inviluppato in forme tradizionali e già guaste, che
accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana,
era nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo
contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una nuova
letteratura. La sua filosofia è la condanna più esplicita delle sue
forme e de' suoi pregiudizi letterari.
Non vo' già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo storia
di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa
influenza sul progresso umano.
Ne' suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane, a cui si
apre tutto il mondo della cognizione, e cerca riassumerlo, costruire
l'albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi,
come aiuto della memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie
e distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si aggruppino
i particolari, come «cielo», «albero», «selva». Queste note le chiama
«suggelli», a cui è aggiunto «sigillus sigillorum», cioè le idee
prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest'«architettura
lulliana», titolo di un suo scritto, è tale, che la chiama «arte delle
arti», perchè vi si trova «quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam,
naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur».
Bruno non avea attinto che il meccanismo della scienza, perchè queste
categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali
e arbitrarie, e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso
della memoria. Il volgo ci dà molta importanza e crede, imparando quelle
categorie, di avere imparato a così buon mercato tutte le scienze. Dicesi
che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar
dottori in qualche mese, e che beffati gliene volessero: anzi a queste
inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata
a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò Explicatio
triginta sigillorum, con una introduzione intitolata: Recens
et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali
si rivela già un principio organico, che annunzia il gran pensatore.
L'arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa
in una vera arte del pensare, in una logica che è ad un tempo una ontologia.
Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: De umbris
idearum, e lo raccomando a' filosofi, perchè ivi è il primo germe
di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle
bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che
le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo
naturale, perchè uno è il principio dello spirito e della natura, uno
è il pensiero e l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello
che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè la scrittura della
natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l'occhio interiore, negato
agl'inetti. Ond'è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare,
una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza
fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne' sensi
e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo, a cui
è negato il lume interno, la visione del vero e del buono riflesso nella
ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:
Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti;
non vos, sed doctos tam grave quaerit opus.
Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede,
suo danno, e non ci stia a seccare. -
Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo.
Il dualismo teologico-filosofico del medio evo, da cui scaturiva il
dualismo politico, papa e imperatore, dava luogo all'unità assoluta.
E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a
un metodo organico, cioè a dire derivato dall'essenza stessa della scienza.
Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno.
A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente
da lui narrata e con colori molto comici nella Cena delle ceneri,
cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee
nel dialogo della Causa, principio e uno, e nell'altro dell'Infinito,
universo e mondi, pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono
la sua metafisica.
Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione,
anzi l'indiamento della materia scomunicata, chiamata «peccato». Bruno
ha chiara coscienza di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante
aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia.
Il pedante è Polinnio, ed è descritto così:
«Questo è un di quelli che, quando ti arràn fatta una
bella costruzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella
frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta
Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni
sillaba, ogni dizione... Chiamano all'essamina le orazioni, fanno discussione
de le frasi, con dire: - Queste sanno di poeta, queste di comico, queste
di oratore! Questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell'altro
è «humile dicendi genus». Questa orazione è aspera, sarebbe lene,
se fusse formata cossì. Questo è un infante scrittore, poco studioso
dell'antiquità, non redolet arpinatem, desepit Latium. Questa
voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati
autori... - Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piaceno più ch'ogn'altra
cosa i fatti suoi: è un Giove che da l'alta specula rimira e considera
la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie
e fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando
contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio, un dizionario,
un Calepino, un lessico, un Cornucopia, un Nizzolio... Se avvien
che rida, si chiama Democrito; se avvien che si dolga, si chiama Eraclito;
se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si nome Aristotile; se
fa chimere, si appella Platone; se mugge un sermoncello, se intitula
Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille,
approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo,
arguisce Turno, scusa Didone, comenda Acate, e infine mentre «verbum
verbo reddit» e infilza salvatiche sinonimie «nihil divinum a
se alienum putat», e così borioso smontando de la sua catedra, come
colui c'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati gli eserciti,
riformati i mondi, è certo che se non fosse l'ingiuria del tempo, farebbe
con gli effetti quello che fa con l'opinione. O tempora o mores!
Quanti son rari quei che intendeno la natura dei participi, degli adverbi,
delle coniunczioni !
Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così
vivo e vero, come è dipinto qui, ma l'artista è inferiore al critico,
nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice
umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto
intorno alla materia, e tutto solo, «ita, inquam, solus ut minime
omnium solus», come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia
una lezione, anzi, come dice lui, una «nervosa orazione:»
«La materia... di peripatetici dal principe..., non
minus che dal Platon divino e altri, or «caos», or «hyle»
or «silva», or «massa», or «potenzia», or «aptitudine», or «privationi
admixtum», or «peccati causa», or «ad maleficium ordinata»,
or «per se non ens», or «per se non scibile», or «per
analogiam ad formam cognoscibile», or «tabula rasa», or «indepictum»,
or «subiectum», or «substratum», or «substerniculum»,
or «campus», or «infinitum», or «indeterminatum»,
or «prope nihil», or« neque quid, neoue quale, neque quantum»,
tandem ... «femina» vien detta, tandem, inquam, ut una complectantur
omnia vocula, «foemina» .»
Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo
chiama «femmina», la «causa del peccato», la «tavola rasa», il «prope
nihil», il «neque quid, neque quale, neque quantum», è proclamata
da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la materia resta immutabile
nella sua sostanza:
«Nella natura, variandosi in infinito, e succedendo
l'una a l'altra le forme, è sempre una materia medesma... Quello che
era seme, si fa erba, e da quello che era erba, si fa spica, da che
era spica, si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme,
da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra,
da questo pietra... Bisogna dunque che sia una medesima cosa, che da
sè non è pietra, non terra, non cadavere, non uomo, non embrione, non
sangue...; ma che dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l'essere
embrione; dopo ch'era embrione, riceve l'essere uomo, facendosi uomo.»
E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito
e gli epicurei «quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza
vogliono la materia sola essere la sustanza delle cose, e anche quella
essere la natura divina», le forme non essendo «altro che certe accidentali
disposizioni della materia», come sostengono i cirenaici, cinici e stoici.
Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa già in molti contemporanei,
soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse «fondamenti
più corrispondenti alla natura che quei di Aristotile». Cominciò dunque
prettamente materialista; ma considerata la cosa «più maturamente» non
potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto,
chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella conclusione
esserci nella natura due sustanze, l'una ch'è forma, l'altra che è materia,
la «potestà di fare» e la «potestà di esser fatto». Perciò nella scala
degli esseri «c'è un intelletto, che dà l'essere a ogni cosa, chiamato
da' pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale,
che si fa ed informa ogni cosa, chiamata da' medesimi 'fonte delle forme';
una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da
tutti 'ricetto delle forme'.
Quanto all'intelletto, «primo e ottimo principio», «non possiamo conoscer
nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita
e lontanissima da quegli effetti che sono l'ultimo termine del corso
della nostra discorsiva facultade ». Dio dunque è materia di fede e
di rivelazione, e secondo la teologia e «ancora tutte riformate filosofie»
è cosa «da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a ...
definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza».
Dio «è tutto quello che può essere»; in lui potenza e atto «son la medesima
cosa», possibilità assoluta, atto assoluto. «Lo uomo è quel che può
essere; ma non è tutto quel che può essere... Quello, che è tutto quel
che può essere, è uno il quale nell'esser suo comprende ogni essere.
Lui è tutto quel che è e può essere.» In lui ogni potenza e atto è «complicato,
unito e uno: nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato».
Lui è «potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di
tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere.» Perciò
il Rivelatore lo chiama «Colui che è», il «Primo» e il «Novissimo»,
poichè «non è cosa antica e non è cosa nuova», e dice di lui: «Sicut
tenebrae eius, ita et lumen eius». «Atto absolutissimo» e «absolutissima
potenza, non può esser compreso dall'intelletto se non per modo di negazione;
non può ... esser capito, nè in quanto può esser tutto», nè in quanto
è tutto. Ond'è che il sommo principio è escluso dalla filosofia, e Bruno
costruisce il mondo, lasciando da parte la più alta contemplazione,
che ascende sopra la natura, la quale «a chi non crede è impossibile
e nulla». Quelli che non hanno il lume soprannaturale, stimano ogni
cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come gli astri,
e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose,
ma dentro questo e in quelle». Questa è la sola differenza tra il «fedele
teologo» e il «vero filosofo». E Bruno conchiude: - Credo che abbiate
compreso quel che voglio dire. - Il medio evo avea per base il soprannaturale
e l'estramondano: Bruno lo ammette come «fedele teologo», ma come «vero
filosofo» cerca la divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in
fondo la più radicale negazione dell'ascetismo e del medio evo.
Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono
due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due princìpi
costitutivi delle cose.
La forma nella sua assolutezza è l'«anima del mondo», la cui «intima,
più reale e propria facoltà e parte potenziale» è l'«intelletto universale».
Come il nostro intelletto produce le specie razionali, così l'intelletto
o l'anima del mondo produce le specie naturali, «empie il tutto, illumina
l'universo», come disse il poeta: «...totamque infusa per artus /
mens agitat molem, et toto se corpore miscet». Questo intelletto,
detto da' platonici «fabro del mondo», e da Bruno «artefice interno»,
«infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia, ... produce
il tutto». Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia,
perchè non opera circa la materia e fuor di quella, ma figura la materia
da dentro, «come da dentro del seme o radice» forma «il stipe, da dentro
il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance, da dentro
queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura e intesse come di nervi
le fronde, li fiori e li frutti». La natura opra dal centro, per dir
così, del suo soggetto o materia. Sicchè la forma, se come causa efficiente
è estrinseca, perchè «non è parte delle cose prodotte»; «quanto all'atto
della sua operazione», è intrinseca alla materia, perchè opera nel seno
di quella. È causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio,
cioè insito nelle cose. Non ci è creazione, ci è generazione, o, come
dice Bruno, «esplicazione».
La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere
è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. «Se la vita
si trova in tutte le cose, l'anima» è «forma di tutte le cose»: presiede
alla materia, «signoreggia nelli composti, effettua la composizione
e consistenza delle parti». Perciò essa è immortale e una non meno che
la materia. Ma «secondo la diversità delle disposizioni della materia
e secondo la facultà de' princìpi materiali attivi e passivi, viene
a produr diverse figurazioni». Sono queste forme esteriori, che solo
si cangiano e annullano, «perchè non sono cose, ma de le cose, non sono
sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze. Perciò dice
il poeta: «Omnia mutantur, nihil interit». E Salomone dice: «Quid
est quod est? Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum
est. Nihil sub sole novum». Vani dunque sono i terrori della morte,
e più vani i terrori dell'«avaro Caronte, onde il più dolce della nostra
vita ne si rape ed avvelena».
Machiavelli avea già parlato di uno «spirito del mondo» immortale ed
immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello
spirito della storia nella speculazione di Bruno è il «fabro del mondo»,
il suo «artefice interno».
Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè secondo sè,
distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia,
così la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è «informe»,
potenza passiva «pura, nuda, senz'atto, senza virtù e perfezione», «prope
nihil»: è l'indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il
nulla. Appunto perchè è tutte le cose, non è alcuna cosa. E perchè non
è alcuna cosa, non è corpo; «nullas habet dimensiones», è indivisibile,
soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe dimensioni,
certo essere, certa figura, certa proprietà, certa differenzia, non
sarebbe assoluta.»
Ma forma e materia nella loro assolutezza, come aventi vita propria,
estrinseca l'una all'altra, sono non distinzioni reali, ma vocali e
nominali, sono distinzioni logiche e intellettuali, perchè «l'intelletto
divide quello che in natura è indiviso», com'è vizio di Aristotile,
e degli scolastici, che popolarono il mondo di entità logiche, quasi
fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte occasioni di questi
filosofi, che moltiplicarono gli enti, immaginando fino la «socrateità»
come l'essenza di Socrate, la «ligneità» come essenza del legno. Questa
distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran progresso.
Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza, anzi esse sono
una serie corrispondente alla serie delle cose, sono le generalità della
natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali, e credere,
per esempio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto
perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
In natura o nella realtà forma e materia sono una sola sostanza. L'una
implica l'altra: porre l'una è porre l'altra. La forma non può sussistere
se non aderente alla materia, una forma che stia da sè è una astrazione
logica Parimente la materia vuota e informe è un'astrazione; essa è
come una «pregnante che ha già in sè il germe vivo». Non ci è forma
che non abbia in sè «un che materiale», e non ci è materia che non abbia
in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: «Lo ente, logicamente
diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto
e uno». Perciò la potenza coincide coll'atto, la materia con la forma.
Giove, «la essenzia per cui tutto quel ch'è ha l'essere», è «intimamente»
in tutto; onde «s'inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa,
e tutto è uno».
La materia non è dunque nulla, «prope nihil», come vuole Aristotile;
anzi ha in sè tutte le forme, e le produce dal suo seno per opera della
natura, efficiente o artefice «interno e non esterno, come aviene nelle
cose artificiali». Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe
dire ch'ella «non abbia in sè forma e atto alcuno»; ma le ha tutte,
perchè tutte le caccia «dal suo seno». Perciò la materia non è «quello
in cui le cose si fanno», ma quello «di cui ogni specie naturale si
produce». Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese
anche Mosè, quando disse: «'Produca la terra li suoi animali',... quasi
dicesse: 'Producale la materia'». Adunque le «forme» ed «entelechie»
di Aristotile e le «fantastiche idee di Platone», i «sigilli ideali
separati dalla materia ... son peggio che mostri», sono «chimere e vane
fantasie». La materia è fonte dell'attualità, è non solo in potenza,
ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non
è quella che si muta, ma quella intorno alla quale e nella quale è la
mutazione. Ciò che si altera è il composto, non la materia. Si dice
stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere «il
fonte delle forme che è in sé», perchè nessuno appete ciò che possiede.
E perciò, in caso di morte, non si dee dire che «la forma fugge... o...
lascia la materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma»
per prenderne un'altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte
del senso comune e volgare, vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche
di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa esclamazione: - «Or
ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio, ma ancora d'altri
che di Polinnio!». -
Adunque, se gl'individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere
questa unità è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni
naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla speculazione,
ma alla somma monade o atomo o unità, anima del mondo, atto di tutto,
potenza di tutto, tutta in tutto.
Questa sostanza unica è «l'universo, uno, infinito, immobile». «Non
è materia, perchè non è figurato, nè figurabile..., non è forma, perchè
non informa, nè figura» sostanza particolare, «atteso che è tutto, è
massimo, è uno, è universo... È talmente forma che non è forma, è talmente
materia che non è materia, è talmente anima che non è anima; perchè
è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno». In lui
tutto è centro: il centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna
parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte il
centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in cui vi può essere corpo,
e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò
l'universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La
causa finale del mondo è la perfezione, e agl'innumerabili gradi di
perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi, co' loro
organi e il loro sviluppo, de' quali uno è la terra. Per la continenza
di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito, l'eterea regione,
dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare
il loro motore esterno, perchè tutti si muovono dal principio interno,
che è la propria anima.
Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale
e l'estramondano. Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato
da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura,
è natura della natura; se non è l'anima del mondo, è l'anima dell'anima
del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione.
La base della sua dottrina è perciò l'intrinsechezza del principio formale
o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e il buono
luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale.
Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale.
Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che
ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama «asini» o «ignoranti»,
de' quali fa un ironico panegirico nell'Asino cillenico, e tra
questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtù propria
è la stessa differenza che è «tra l'asino che porta i sacramenti e la
cosa sacra». Quelli sono vasi e strumenti; questi principali artefici
ed efficienti: quelli hanno più dignità, perchè hanno la divinità; questi
sono essi più degni, e sono divini. L'asinità è la condizione della
fede: chi crede, non ha bisogno di sapere; e l'asinità conduce alla
vita eterna.
«- Forzatevi, forzatevi dunque ad essere asini, o voi che siete uomini!...
- grida Bruno con umore - così, divoti e pazienti, sarete contubernali
alle angeliche squadre... E voi che siete già asini,... adattatevi a
proceder... di bene in meglio, afinchè perveniate... a quella dignità
che non per scienze ed opre,... ma per fede s'acquista. Se... tali sarete...,
vi troverete scritti nel libro della vita, impetrerete la grazia in
questa militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia,
nella quale vive e regna Dio per tutt'i secoli de' secoli.»
Questa tirata umoristica finisce con un «molto pio»
sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che «il gran Signor li
vuol far trionfanti». Nè solo è l'asino trionfante, ma l'ozio, perchè
l'eterna felicità s'acquista per «fede», non per «scienze», e non per
«opre». Anche dell'ozio hai un panegirico ironico, e per saggio diamo
il seguente sillogismo:
«Li dèi son dèi, perchè son felicissimi; li felici
son felici perchè son senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine
non han coloro che non si muovono e alterano; questi son massime quei
ch'han seco l'ocio: dunque gli dèi son dèi, perchè han seco l'ocio.»
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza.
Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che «per aver studiato
logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti
in quarta figura». L'ozio fa naturalmente l'elogio dell'età dell'oro,
la sua età, il suo regno, e cita i bei versi del Tasso:
... ... legge aurea e felice,
che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice».
E finisce con questa esortazione:
Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
perdere un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lunge diviso,
se in voi stessi trovate il paradiso?
L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della vita ascetica
e monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza.
«[La libertade], - fa egli dire a Giove - quando verrà
ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio
che non vede, e mano che non apprende. Ne l'età... dell'oro per l'ocio
gli uomini non erano più virtuosi, che sin al presente le bestie son
virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste.»
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta «aurea»,
e ch'egli chiama «scempia», fondata sulla passività dell'intelletto
e della volontà, e non può parlarne senz'aria di beffa. Il soprannaturale
è incalzato ne' suoi princìpi e nelle sue conseguenze.
Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell'anima
dall'amore del divino, o dal principio formale aderente alla materia,
e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia
è cosa bestiale e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti,
lodatori di donne per ozio e per pompa d'ingegno, a quel modo che altri
«han parlato delle lodi della mosca, dello scarafone, dell'asino, de
Sileno, de Priapo, scimmie de' quali son coloro che han poetato a' nostri
tempi - dic'egli - delle lodi degli orinali, della piva, della fava,
del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della
carestia, della peste». Obbietto dell'amore eroico è il divino, o il
formale: la bellezza divina «prima si comunica alle anime, e... per
quelle... si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama...
la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito.
Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo
in esso, la qual si chiama 'bellezza', la qual non consiste nelle dimensioni
maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa
armonia e consonanza de membri e colori.» L'amore sveglia nell'anima
il lume naturale, o la visione intellettiva, la luce intellettuale,
e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione, sì che pare
insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non
il volgare, ma l'eroico furore, per il quale l'anima si converte come
Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta
in sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. «Però
ben si dice il regno di Dio essere in noi, e la divinitade abitare in
noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno
la visione intellettuale, perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne'
più domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l'immaginazione,
che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l'amore a
sua immagine:
fanciullo il credi, perchè poco intendi;
perchè ratto ti cangi, e' par fugace;
per esser orbo tu, lo chiami cieco.
L'amore eroico è proprio delle nature superiori, dette
«insane», non perchè non sanno, ma perchè «soprasanno», sanno più dell'ordinario,
e tendono più alto, per aver più intelletto.
La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca,
come ne' mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere
noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell'intelletto
e della volontà, che sono tra loro in reciprocanza d'azione: l'intelletto,
che, suscitato dall'amore, acquista occhio e contempla; e la volontà
che, ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace, o doppiata:
ciò che Bruno esprime con la formola: «io voglio volere». Dalla contemplazione
esce dunque l'azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è «intelletto
e atto mediante l'amore», secondo la formola dantesca rintegrata da
Bruno: è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità
della vita, e più intensa è la volontà, perchè amore è unità e amicizia
de' contrari, o degli oppositi, e nel contrasto cerca la concordia.
La mente è unità,;l'immaginazione è moto, è diversità; la facultà razionale
è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l'uno con la moltitudine,
il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l'inferiore col superiore.
Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della
propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico,
innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontà, con
l'ale dell'intelletto e volontà intellettiva s'innalza alla divinità,
lasciando la forma di soggetto più basso:
da soggetto più vil divegno un dio...
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.
«Cangiarsi in Dio» significa levarsi dalla moltitudine
all'uno, dal diverso allo stesso, dall'individuo alla vita universale,
dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto l'uno
e nell'uno il tutto. O, per uscire da questa terminologia, Dio è verità
e bontà scritta al di dentro di noi, visibile per lume naturale; e cercarla
e possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita.
È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso.
La filosofia è in lui ancora in istato di fermentazione. Hai i vacillamenti
dell'uomo nuovo, che vive ancora nel passato e del passato. Combatte
il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua «mens tuens»,
la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla
Dio nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano,
e non sa che farsene, rimasto come un antecedente inconciliato della
sua speculazione. Ora quel Dio è verità e sostanza, e noi siamo sua
ombra, «umbra profunda sumus»; ora quel Dio è proprio la natura,
o, «se non è natura, è natura della natura». Ci è in lui confuso Cartesio,
Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in gran
parte le abitudini. Odia la mistica, e talora, a sentirlo, è più mistico
di un santo padre. Rigetta l'immaginazione, e ne ha tutt'i vizi e tutte
le forme. Manca l'armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non
è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione
del suo sistema.
Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle
sue distinzioni e sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo sviluppo;
anzi è questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la
vita interiore di un grande spirito nella sua lotta con l'educazione,
co' maestri, con gli studi, col tempo, co' pregiudizi, nelle sue imitazioni,
fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo, di
vincere in quella lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si
stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette,
che gli danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno
noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti.
Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè
il sentimento dell'infinito e del divino, com'è di ogni spirito contemplativo.
Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti,
se Dio è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua
coscienza e nella natura. Dio è «più intimo a te che non sei tu a te
stesso». Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse
forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un'analisi assai notevole
delle religioni antiche e nuove. L'amore del divino, il «furore eroico»,
è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atti non
solo a contemplare Dio come verità, ma ancora a realizzarlo come bontà.
Ivi ha radice la scienza e la morale.
Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura
e ne' padri. Ma lo spirito n'è nuovo. Non è solo questo, che «i cieli
narrano la gloria di Dio», ma quest'altro, che i cieli sono essi medesimi
divini, e si movono per virtù propria, per la loro intrinseca divinità.
È la riabilitazione della materia o della natura, non più opposta allo
spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta «genitura di Dio».
È il finito o il concreto che apparisce all'infinito, e lo realizza,
gli dà l'esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile
che succede al Dio astratto e solitario. L'universo, eterno ed infinito,
è la vita o la storia di Dio.
Questo è ciò che fu detto il «naturalismo di Bruno», o piuttosto del
secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle
astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, «dalle credenze e dalle
fantasie», e cercava la sua base nel concreto e nel finito era la prima
voce della natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza
divina, una e medesima che la divinità, «secondo che l'unità è distinta
nella generata e generante, o producente e prodotta». Bruno nel suo
entusiasmo per la natura divina dice che lo spirito eroico
«vede l'anfitrite, il fonte di tutti i numeri, di tutte
specie, di tutti i raggioni, che è la monade, vera essenza dell'essere
di tutti, e, se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede
nella sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perchè dalla
monade, che è la divinitate, procede questa monade, che è la natura,
l'universo, il mondo, dove [ella] si contempla e si specchia»
cioè dove s'intende ed è intelligibile.
Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha nulla
a fare col lume soprannaturale, con la fede, o la grazia, o l'estasi,
o altro che dal di fuori piova nell'anima. Dio, fatto conoscibile nel
mondo, diviene materia della cognizione, e l'anima effettua la sua unione
con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtù. La visione
è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove Dio, o la Verità, si
rivela, come «in propria e viva sede», a quelli che la cercano, «per
forza del riformato intelletto e volontà», cioè per la scienza.
L'amore del divino, spinto sino al «furore eroico», lega Bruno co' mistici.
Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella
licenza e nel cinismo, e mise capo in ozio idillico snervante, peggiore
dell'ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il
divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa
è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso
o intrinseco, ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il
degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano
e lo conquistano col lavoro della mente illuminata dall'amore eroico.
Ciò distingue i vulgari da' nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi
gli eletti. «Molti rimirano, pochi vedono.» Bruno parla spesso con tale
unzione e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un san
Bonaventura.
Ma i mistici sono semplicemente contemplanti, dove per Bruno non è contemplazione
nella quale non sia azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione.
La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l'uomo
che esce dal convento ed entra nella vita militante.
Folengo esce dal convento, rinnegando Dio e sputando sul viso alla società.
In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione.
Anche a Bruno abbonda la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato
negativo e polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione.
Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo
è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento
religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e
con l'entusiasmo, egli tenta con la scienza. Non accetta Dio come gli
è dato, nè se ne rimette alla fede, perchè non è un credente. Dio vuole
cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività intellettuale, con l'occhio
della mente. E questo Dio, da lui trovato, e di cui sente l'infinita
presenza in se stesso e negl'infiniti mondi e in ciascun essere vivente,
nel massimo e nel minimo, non rimane astratta verità nella sua intelligenza,
ma scende nella coscienza e penetra tutto l'essere, intelletto, volontà,
sentimento e amore. Comincia scredente, finisce credente. Ma è un «credo»
generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di fuori. Per
questo «credo» non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo
a' suoi giudici le celebri parole: «Maiori forsitan cum timore sententiam
in me dicitis, quam ego accipiam». Sembra che il suo maggior peccato
innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl'infiniti mondi, come
traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: «Sic ustulatus
misere periit, renunciaturus credo, in reliquis illis, quos finxit,
mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a romanis tractari solent».
Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno, o, com'egli
dice, «eroico», che gli dà la figura di un santo della scienza. Quante
volte l'umanità, stanca di aggirarsi nell'infinita varietà, sente il
bisogno di risalire al tutto ed uno, all'assoluto, e cercarvi Dio, le
si affaccia sull'ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.
Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che parecchi eruditi
lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio.
Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria.
Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle
idee e delle dottrine era così violento, che il gran precursore fu avvolto
e oscurato nel turbinìo. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione.
E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi, Jacobi
e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e riedificarono
la sua statua.
In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna, con
le sue più spiccate tendenze, la libera investigazione, l'autonomia
e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto dell'attività
intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e delle
astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico
«tendenze», perchè nel fatto l'immaginazione e il sentimento soprabbondavano
in lui, e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza
la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice, e quella pazienza
di osservazione e di analisi, senza la quale le più belle speculazioni
rimangono infeconde generalità.
Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile
e conoscibile nella infinita natura, l'unità e medesimezza di tutti
gli esseri, l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne metempsicosi
delle forme, il sentimento dell'anima o della vita universale, l'infinita
perfettibilità delle forme nella loro trasformazione, la produttività
della materia dal suo intrinseco, l'azione dinamica della natura nelle
sue combinazioni, la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata
come la stessa effettuazione del divino o della legge, la moralità e
la glorificazione del lavoro, sono concetti che, svolti lungamente e
variamente da Bruno in opere latine e italiane, appaiono punti luminosi
nella speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in Spinosa,
in Leibnitz, e più tardi in Schelling, in Hegel e ne' presenti materialisti.
Se dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno, lo
chiamerei il «mondo moderno ancora in fermentazione».
Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero
atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto.
- Andiamo a morir da filosofo - disse Vanini, avvicinandosi al rogo.
Eran detti anche «novatori», titolo d'infamia, che è divenuto il titolo
della loro gloria.
Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell'Inquisizione, e Campanella nelle
mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo, e
Campanella aveva la tortura. Così finiva l'un secolo, così cominciava
l'altro. «Tu, asinus, nescis vivere», dicevano a Campanella amici
e nemici: «ne loquaris in nomine Dei». E lui prendeva ad insegna
una campana, con entrovi l'epigrafe: «Non tacebo». Anche Bruno
diceva di sè: «Dormitantium animorum excubitor». La nuova scienza
sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e dal martirio.
«Philosophus» diceva il Pomponazzi per esperienza propria «ab
omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus
prosequitur, fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum,
haec est eorum merces». Pure questi uomini nuovi derisi, perseguitati,
spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel trionfo delle loro
dottrine. L'accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna
crescente, col motto: «Donec totum impleat orbem». Bruno, perseguitato
dal suo secolo, diceva: - La morte in un secolo fa vivo in tutti gli
altri. - Campanella paragona il filosofo al Cristo, che il terzo giorno,
spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all'ingegno. Dietro
al filosofo ci era l'uomo.
Telesio è detto da Bacone il «primo degli uomini nuovi». Ma la novità
era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studi a
Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte
e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò
il motto del pensiero italiano, la «filosofia naturale», fondata sull'esperienza
e sull'osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza
intellettuale tra' suoi concittadini e di aver fondata sotto nome di
«accademia» una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, così egli
non segue altro che l'osservazione e la natura: «poichè la sapienza
umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato
quello che si presenta a' sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia
dalle percezioni sensibili». Sincero, modesto, d'ingegno non grande
ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito
meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il linguaggio. E in verità,
la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio
lo ha fatto Campanella in queste parole: «Telesius in scribendo stylum
vere philosophicum solus servat, iuxta verum naturam sermones significantes
condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem». L'obbiettivo
era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile, «tiranno degl'ingegni»,
e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò
che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo
famoso sonetto a Telesio:
Telesio, il telo della tua faretra
uccide de' sofisti in mezzo al campo
degl'ingegni il tiranno senza scampo:
libertà dolce alla verità impetra.
L'impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte
mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d'istituzioni che l'Aretino
chiamava «la pedanteria», i «Polinnii» di Bruno spalleggiati da francescani,
domenicani e gesuiti, e spesso l'ultimo argomento era il rogo, il carcere,
l'esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a' principi
venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento
era universale, e «Renovabitur» fu il motto del Montano, discepolo
di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino
allora pensato col capo d'altri: gli uomini volevano ora pensare col
capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che la
novità usciva anche da' segreti del convento. Fu là che si formò ne'
forti studi libera e ribelle l'anima di Bruno. E là, in un piccolo convento
di Calabria, si educava a libertà l'ingegno di Tommaso Campanella. Assai
presto oltrepassò gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse
avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle
mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse
immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il
gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito,
e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora.
Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l'uomo, non vollero
permettergli di udire, nè di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio
e l'amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla
bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I cosentini, sentendolo
nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio.
La scuola telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno,
il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro.
Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta.
Venuto a Napoli per la stampa dell'opera, attirò l'attenzione per il
suo ardore nelle dispute, per l'agilità e la presenza dello spirito,
per la franchezza delle opinioni, e per l'immenso sapere. E gl'invidiosi
dicevano: - Come sa di lettere costui, che mai non le imparò? - E recavano
a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari.
Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio
avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava
a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia.
Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l'autore della Magia
naturale e della Fisionomia. Disputavano, leggevano, conferivano
i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu
rerum, a cui successe l'altro: De investigatione. Ivi si
stabilisce per qual via si giunga a ragionare «col solo senso e colle
cose che si conoscono pe' sensi»: ciò che è il metodo sperimentale,
base della filosofia naturale. Ci si vede l'influenza di Telesio, di
Porta e di tutta la scuola riformatrice.
Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non solo gentiluomo
e assai riverito, ma uomo di spirito, e amabilissimo. Ma Campanella
non sapea vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo,
e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E
venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano
perdonare l'odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il convento,
e indi a non molto Napoli, e con in capo già una nuova metafisica tutta
abbozzata, fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare
i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e Galilei.
Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il 15 febbraio del 1564, nasceva
in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio, levato maraviglioso
grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del
pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con
questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che
rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da
Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo
Nunzio sidereo appariva così maraviglioso, come il viaggio di
Colombo. Le montuosità della luna, le fasi di Venere e di Marte, le
macchie del sole, i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza,
che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne' romanzi e nelle oscenità
letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze
nella pubblica opinione. Non si trattava più d'ipotesi e di astratti
ragionamenti. I fatti erano là, e parlavano più alto che i sillogismi
de' teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli, il
lume naturale di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la libertà
dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle
parole di Galileo: - «Ah viltà inaudita d'ingegni servili, farsi spontaneamente
mancipio!» -. Il buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio,
risponde: - «Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta
nella filosofia?» -. E Galileo replica pacatamente: - «...I ciechi solamente
hanno bisogno di guida.. Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente,
di quelli si ha da servire per iscorta» -. Il lume soprannaturale, la
scienza occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo splendore
di questo lume naturale dell'occhio e della mente: la magia, l'astrologia,
l'alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi a' miracoli del
telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle
rovine delle scienze occulte sorgevano l'astronomia, la geografia, la
geometria, la fisica, l'ottica, la meccanica, l'anatomia. E tutto questo
era la filosofia naturale, il naturalismo. - «La filosofia - diceva
Galileo - è scritta nel libro grandissimo della natura.» - E stupendamente
diceva Campanella:
Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
scrisse i propri concetti.
Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo.
Si videro a Firenze: Galileo già famoso, in grazia della Corte, professore,
con un concetto dell'universo e della scienza chiaro, intero, ben circoscritto:
Campanella, oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi
e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna, più che di
un savio tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. -
Chi è costui? - E il Granduca chiese le informazioni al generale di
San Domenico, il quale rispose: «Alquanto differente relazione tengo
io del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra
Altezza... io farò prova del valore e sufficienza sua». Le raccomandazioni
di Galileo non valsero contro l'ira domenicana. Campanella non riuscì,
e la ragione è detta da Baccio Valori:
«Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia
del Telesio, con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica
fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico conseguente
[Tommaso Campanella] della medesima scuola, e per avventura il più terribile
per eccellenza de' suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi.»
Campanella aveva allora ventiquattro anni. L'indomabile
giovane si vendicò, scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già
scritto un trattato De sphaera Aristarchi, dove sostiene l'opinione
copernicana del moto della terra. Vagheggiava una scienza universale,
col titolo De universitate rerum, che diventò più tardi la sua
Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto Galileo,
che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale,
contento ad esplorar la natura ne' suoi particolari. E gli scriveva:
«Invero non si può filosofare, senza un vero accertato sistema della
costruzione de' mondi, quale da lei aspettiamo: e già tutte le cose
sono poste in dubbio, tanto che non sapemo se il parlare è parlare».
Domandava egli a Galileo una riforma dell'astronomia e della matematica
sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo» diceva «che
questa filosofia è d'Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico
la rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro; perchè è gran vergogna
che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche».
Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri
e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse
lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente
vero. E rispondea a Campanella ch'ei non volea «per alcun modo, con
cento e più proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e
perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate, e che sapeva
per dimostrazione esser vere». Stavano a fronte la saviezza fiorentina
e l'immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura
toscana, già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura
meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta l'impazienza e
l'abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in
Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere.
Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito
l'impronta della coltura toscana nella sua maturità, uno stile tutto
cosa e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera,
in quella forma diretta e propria, in che è l'ultima perfezione della
prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità, anzi tra' suoi
baciamano penetra un'aria di dignità e di semplicità, che lo tiene alto
su' suoi protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto,
come uomo intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio.
Ma se causa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza
di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in
quel fraseggiare d'uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e
arditi in una forma petrificata dall'abitudine, pure eletta, castigata,
perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella
la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne' suoi
balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi
ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una
formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata
innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità:
qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi già
nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.
Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette
a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito, e chi vi
leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia,
a Padova, a Bologna, a Roma, co' suoi manoscritti appresso, e scrivendo
sempre per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano,
trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i
manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile.
Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender fiato a Stilo
sua patria. Ivi sperava riposo; ma «accadde a me quello che dice Salomone:
quando l'uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato».
Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo
di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un'accusa,
se ne suscitava un'altra, perchè «gl'iniqui non cercavano il delitto,
ma farmi comparir delinquente». - Come sai tu le lettere, se non le
imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. - «Ma io - rispose il prigioniero
- ho consumato più d'olio che voi di vino.» - Lo si fece autore del
libro De tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed, stampato
trent'anni prima ch'ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica
con l'aiuto de' turchi, e che era un eretico, e aveva dottrina pericolosa,
e non credeva a Dio. Invano scrisse Della monarchia, e l'Ateismo
vinto, e la Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e
da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni,
sottoposto alla tortura sette volte.
«Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell'eculeo
mi lacerò le ossa..., e la terra bevve dieci libbre del mio sangue...:
risanato dopo sei mesi, in una fossa fui seppellito, ove non è nè luce,
nè aria, ma fetore e umidità e notte e freddo perpetuo. »
Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste inventario
de' suoi mali:
Sei e sei anni che in pena dispenso
l'afflizion d'ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de' sciocchi,
il sol negato agli occhi,
i nervi stratti, l'ossa scontinuate,
le polpe lacerate,
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
e il cibo poco e sporco.
Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi
e prose.
I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo, chiuso ne'
suoi studi matematici; era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno,
che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno
libero e speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi
e spiegazione de' fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano
sempre cura di aggiungere: «salva la fede». Così il libro di Copernico,
dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua
dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da Campanella,
da Galileo e da Cartesio, che si preparava a farne una dimostrazione
matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato,
essendo cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire
la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette
confessare che «Terra stat et in aeternum stabit», ancorchè la
sua coscienza rispondesse: - Eppur si muove. - E la sua scrittura sulla
mobilità della terra mandò al Granduca con queste parole, ritratto de'
tempi:
«Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle
determinazioni de' superiori, come quelli che sono scorti da più alte
cognizioni, alle quali la bassezza del mio ingegno per se stesso non
arriva, reputo questa presente scrittura che gli mando, come quella
che è fondata sulla mobilità della terra, ovvero che è uno degli argomenti
che io produceva in sostegno di essa mobilità, la reputo, dico, come
una poesia, ovvero un sogno, e per tale la riceva l'Altezza Vostra.»
Altrove la chiama una «chimera», un «capriccio matematico»,
e nasconde la verità, come fosse un delitto o una vergogna. Di quest'accusa
e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra' tormenti
del carcere scrisse l'apologia di Galileo.
Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, già rifugio del Guicciardini,
dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la
vita. Morì nel 1642, l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli,
suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella
in Francia dov'erasi rifuggito, e dove potè pubblicare la sua filosofia.
A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni
diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono attorno a
lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli,
Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà
di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi
e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la
bandiera con miglior fortuna. E l'Italia, maestra di Europa nelle lettere
e nelle arti, aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come
dicevasi, nella «filosofia naturale». Qui venivano ad imparare gli stranieri;
qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la
circolazione del sangue. Qui sorgeva l'accademia del Cimento, dove «provando
e riprovando» si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia,
medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria, algebra ebbero qui
i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare
Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito
e chiuso in sè, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla
forma moderna.
Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede
che la filosofia non si possa fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava
questa conseguenza, che dunque bisognava prima studiare i fatti. In
tanta scarsezza di fatti naturali, morali, sociali ed economici, in
tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi
un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l'immaginazione divinatrice,
ed avere per risultato l'ipotetico e il probabile, anzi che il certo
e il vero. Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro che
una certa idea del mondo l'avevano anche i filosofi naturali, e che
quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull'osservazione, e
tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era già mettere in vista
un mondo metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro
di gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare secondo
quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella natura, un Dio intimo
e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento che tirava
gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de' fatti
naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento
la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia. Se
necessario fu Galileo, non fu meno necessario Bruno e Campanella. Un
nuovo mondo si formava, una nuova filosofia era in vista all'orizzonte
con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica
e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione
dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi, e corona della
scienza. Quella prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella, appassionatissimi
degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.
È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora
più accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte
e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e Rinascimento,
tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e razionalismo,
e mentre combatte, come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno più
di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale
che hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di
analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell'ingegno,
e si mettono all'opera con l'ardore di una speciale vocazione, si sentono
attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l'infinito
o il divino, a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno, o all'anonimo
autore, questo sublime sonetto:
Poi che spiegate ho l'ali al bel desio
quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo
più le veloci penne all'aria porgo,
e spregio il mondo e verso il ciel m'invio.
Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
fa che giù pieghi, anzi via più risorgo:
ch'i' cadrò morto a terra, ben mi accorgo;
ma qual vita pareggia al viver mio?
La voce del mio cor per l'aria sento:
- Ove mi porti, temerario? China,
chè raro è senza duol troppo ardimento.
- Non temer - rispond'io - l'alta ruina:
fendi sicur le nubi, e muor' contento,
se il ciel si illustre morte ne destina. -
Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione.
Si chiama «luce tra l'universale ignoranza», «fabbro di un mondo nuovo»,
«Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove»:
Con vanni in terra oppressi al ciel men' volo
in mesta carne d'animo giocondo;
e se talor m'abbassa il grave pondo,
l'ale pur m'alzan sopra il duro suolo.
Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo
che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva
età dell'oro, l'attuazione del divino sulla terra, il regno di Dio,
invocato nel «paternostro», quel mondo della pace e della giustizia
appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti Bruno rimane
nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l'universo nelle
sue più varie apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di
cui spera l'effettuazione.
Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti
gl'indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza
è la coscienza di sè, «io, che penso, sono», divenuto la base del sistema
cartesiano. Questa è la sola cognizione innata, occulta: tutto il resto
è cognizione acquisita per mezzo de' sensi. Qui si sviluppa il sensismo
di Telesio non solo come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono
animate; il mondo stesso è «animal grande e perfetto». In ciascuna cosa
è la divina Trinità, i tre princìpi o «primalità», com'egli dice, potenza,
sapienza e amore. Ciascuna cosa che è, può essere: ama il suo essere,
e lo ama perchè lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò tutte le
cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L'animale pensa come l'uomo;
ha fino la facoltà dell'universale. Ci si vede in germe Locke e tutto
il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria dell'uomo, e negata
all'animale, il sentimento religioso. Perciò, quando il corpo è formato,
vi entra l'anima, che esce «fanciulla dalle mani di Dio», come dice
Dante. L'anima è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell'assoluto.
Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa
facoltà dell'assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò
che entra nella mente o visione di Bruno) ma è intuito, estasi, fede,
un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di conciliazione
tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia
dell'assoluto nel suo doppio indirizzo, razionalista e neocattolico.
Tutte le idee e tutti gl'indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze,
fermentano nel suo cervello.
Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure
ha il senso psicologico, ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza,
e le faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda
vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non scrutata, non
compresa e non disciplinata, ch'egli confonde con l'estasi e col puro
intuito, e che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale
e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra' due uomini che
pugnavano in lui, l'uomo di Telesio e l'uomo di san Tommaso, e vi logora
le sue forze, senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume
la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di
argomenti astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a
san Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo, provvisoriamente
crede all'astrologia e alla magia, e oggi gli spiritisti e i magnetisti
lo chiamano loro precursore.
Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà
di Dio: atto conforme al disegno o all'idea del mondo preordinato nella
sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo,
e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l'imperatore.
Qui siamo con san Tommaso nel più puro medio evo, ancora più indietro
di Dante e di Machiavelli, perchè l'elemento laico è sottoposto all'ecclesiastico.
E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli,
uomo «senz'alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico
o empirico», che voleva fare della religione uno strumento dello Stato.
Ma Campanella non si accorge ch'egli è più Machiavelli del Machiavelli,
perchè nessuno ha spinto così avanti l'annichilamento dell'individuo
e l'onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma, ecclesiastica e
laica. In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna
e nella Francia col favore e l'appoggio del papato, egli era la voce
dell'assolutismo europeo, e ci mettea una sola condizione: che quell'assolutismo
fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il vecchio
quadro del medio evo, con tinte ancora più decise. Egli dice a Filippo:
- I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente
«il cattolico», primo suddito della Chiesa. - Questa è la carta di alleanza
fra il trono e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo, nè
ci si può più pensare, perchè il passato non torna più; ma l'Italia
si consolerà, perchè ha nel suo seno il papato, e per esso dominerà
ancora il mondo. Che cosa è l'individuo in questo sistema? Nulla. Egli
ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna,
di crearsi la sua proprietà, di educare ed istruire la sua prole, di
mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere,
accettare o rigettare: non può dire: - Questo è mio -; e non può dire:
- No. - Il dritto è nella società, e per essa nel papa e nell'imperatore.
Hai per risultato il comunismo, l'assolutismo della società e l'ubbidienza
passiva dell'individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie
di monarchia universale e assoluta, di dritto divino, e Campanella va
sino in fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta fuori dell'umanità
in una volontà a lei estrinseca, e quando l'unità rimane astratta, e
tiene non in sè, ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa
unità va a naufragare ogni particolare, l'individuo, la famiglia, la
nazione. Or questa è la filosofia sua, questa è la sua «città del sole»,
la sua rediviva età dell'oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo.
Perchè Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole
che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perchè la ragione
governa il mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche
lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge, ma chi più sa. Il
vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo della scienza è il progresso
e il miglioramento dell'uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare
la razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale
la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico
dell'uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo intelligente
e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici, economici,
che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni
ancora confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con
uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione, «come fecero Aristotile
e Machiavelli», ma nella loro origine e purezza natia, «come fecero
Platone e gli stoici». E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze,
aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo
nuovo.
Con tante novità in capo, la società in mezzo a cui si trovava non gli
dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che
le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un
papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna
poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato, un nuovo
marchese di Posa.
Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una
critica della società, com'era costituita. Il suo punto di mira sono
sofisti, ipocriti e tiranni, come contraffattori e falsificatori delle
tre primalità, sapienza, amore e potenza, «di tre dive eminenze falsatori»:
Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia...
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d'ignoranza, radice e fomento hanno:
dunque a diveller l'ignoranza io vegno.
Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla
storia del mondo, foggiata dall'amor proprio:
Credulo il proprio amor fe' l'uom pensare
non aver gli elementi nè le stelle
(benchè fusser di noi più forti e belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare:
poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
poi il restringemmo a que' di nostre celle;
sè solo alfine ognun venne ad amare,
e per non travagliarsi il saper schiva;
poi visto il mondo a' suoi voti diverso,
nega la provvidenza, o che Dio viva.
Qui stima senno le astuzie: e perverso,
per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
a predicarsi autor dell'universo.
Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza, si comprende
il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto,
perchè vince, anche se tu l'uccidi:
S'e' vive, perdi, e s'ei muore, esce un lampo
di deità dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han più scampo.
I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è adorato
per santo; nè è sventura eh'ei sia nato di vil progenie e patria, perchè
illustra egli le sue sorti. Più è calpesto, e più s'innalza:
E il fuoco più soffiato, più s'accende:
poi vola in alto e di stelle s'infiora.
La sua vita è antica quanto il mondo:
Ben seimila anni in tutto 'l mondo io vissi:
fede ne fan le istorie delle genti,
ch'io manifesto agli uomini presenti
co' libri filosofici ch'io scrissi.
Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de'
corpi
di scena in scena van, di coro in coro,
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatal libro ordinate.
In questa commedia universale l'uomo spesso segue più
il caso che la ragione:
chè gli empi spesso fur canonizzati,
gli santi uccisi, ed i peggior tra noi
principi finti contro i veri armati.
Principi veri sono i savi:
Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in veritate...
Non nasce l'uom con la corona in testa,
come il re delle bestie...
E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?
Se a' lupi i savi, che 'l mondo riprende,
fosser d'accordo, e' tutto bestia fòra.
La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:
In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade, e frutta e cresce
col bene oprare...
Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe
è serva per la sua ignoranza:
Il popolo è una bestia varia e grossa
che ignora le sue forze...
Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra:
ma nol conosce; e se qualche persona
di ciò l'avvisa, e' l'uccide ed atterra.
Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo
sentimento del divino, anzi la scienza non è che il divino, il senno
eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o primalità, la potenza,
la sapienza e la bontà, della quale segno esteriore è la bellezza. Tale
era la natura nell'età dell'oro, e tale ritornerà:
Se fu nel mondo l'aurea età felice,
ben essere potrà più ch'una volta;
chè si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando il giro ov'ebbe la radice...
Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;
e 'l cieco amore in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto.
Base dell'età dell'oro è la fratellanza e uguaglianza
umana, l'amor comune sostituito all'amor proprio:
... chi all'amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende.
Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
«frati appelli»; oh beato chi ciò intende!
È ciò che direbbesi oggi «democrazia cristiana», un
ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a' puri tempi evangelici,
vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si mangiava in carità,
e non ci era ricco nè povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose
nella loro origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Campanella
è che il mondo «nel suo giro torni là ov'ebbe radice». Il progresso
è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l'età dell'oro,
stato d'innocenza, alla quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza,
virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori,
ma prodotto della libera attività individuale. In questo sistema la
libertà è sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo della libertà.
In questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito
moderno, vedi il razionalista e il neocattolico. L'uno volge le spalle
al passato, l'altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso
Attendendo l'età dell'oro, Campanella vede il mondo nella sua degenerazione,
grazie a' tiranni, a' sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i poeti,
seminatori di menzogne:
In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e 'l senno in sottigliezze,
l'amor in zelo, e 'n liscio la beltate,
mercè vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtù, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate.
Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo
e gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè
gli è caro che sciupino l'ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno
del bene: bella ogni cosa è dove serve e quando, e brutta dov'è inutile,
o mal serve, e più s'annoia:
Il bianco, che del nero è ognor più bello,
più brutto è nel capello...
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
note d'ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarian laide: e negli occhi il color giallo,
di morbo indicio, e brutto, è bel nell'auro,
ch'ivi dinota finezza, e non fallo.
Ci s'intravvede la nuova critica, che richiama gli
spiriti dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori
al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove e alte
nel più assoluto disprezzo della forma. La sua poesia nervosa, rilevata,
succosa, e insieme rozza e aspra, è l'antitesi di quella letteratura
vuota, sofistica, e leziosa, venuta su col Marino.
Campanella scrisse infiniti volumi, e de omnibus rebus. Nessuna
parte dello scibile gli è ignota, scienze occulte e naturali, teologia,
metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia,
un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede
cose nuove. Notabile è soprattutto l'interesse che prende per l'educazione
e il benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica,
religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo
sociale che al miglioramento dell'uomo. In lui si vede accentuata questa
tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base
l'istruzione e la felicità delle classi più numerose. A questo scopo
si riferiscono i suoi più bei concetti: la riforma delle imposte, sì
che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando
appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l'imposta sul lusso
e su' piaceri; i ricoveri per gli invalidi; gli asili per le figliuole
de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri sopra pegni, le banche popolari,
gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme, l'uniformità delle
monete, l'incoraggiamento delle industrie nazionali, «più proficue che
le miniere». Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche,
malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio
del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l'ultima parola
di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la
storia de' fatti. Ci è già la nuova società che si andava formando sulle
rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento sociale, accompagnato,
quanto a' suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani
durevoli «son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada»; o, in altri
termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non
sia preceduta e accompagnata dal pensiero.
Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura
con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero.
Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza
si sviluppava in materia politica. Di là all'Italia serva giungevano
i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano
scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe
regnante, Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore,
Ragion di Stato, guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta.
I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di san Bartolomeo
e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano
col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli
altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion di Stato, dove
combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro
i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A
lui sembra che tutto sta benissimo come sta, e che non rimane che a
prender guardia contro le novità: «bonum est sic esse». Nacque
nel 1540, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il più vicino di
spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l'Italia sonnacchiava
tra l'assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie
assolute, lo storico veneto scriveva che «tolta la libertà, ogni altro
bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio»;
che il vero monarca è la legge; e che «chi commette il governo della
città alla legge, lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo,
lo lascia in potere di una fiera bestia». «Nascere e vivere in città
libera», è per lui l'ideale della felicità. Ne' suoi Discorsi politici
trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu, il
senso pratico veneziano e l'acume fiorentino. Il sentimento politico
era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale
e spagnuolo, base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso
alla libertà veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico,
dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più
profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza
possibilità di conciliazione. Nel suo Soliloquio s'intravedono
quegli strazi interiori, che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso.
La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità
di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalità e di sicurezza,
propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello
spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni cattolici,
ma gelosi della loro libertà, avversi alla Curia e soprattutto a' gesuiti,
già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, nè
erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente
in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere
accessibili alle dottrine della Riforma, nè senza speranza i luterani
aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione
dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore
e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate dall'Inquisizione,
che in città così difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni
religiose si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo
e il papa, per le quali non dubitò Paolo V di fulminare l'interdetto
su tutta la città, che sortì un effetto contrario al suo intento, rese
ancora più viva e più tenace la lotta.
Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento, è
Paolo Sarpi, l'amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa
scuola. Teologo, filosofo e canonista sommo, non era meno versato nelle
discipline naturali, fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra,
meccanica, anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione
del sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e Campanella,
e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato,
e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie
le sue armi con la sagacia dell'uomo politico, anzi che con la passione
del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente
filosofico o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi
effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano i
protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico.
Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni potestà su' principi,
e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune, non
altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo,
assicurargli la sua libertà dirimpetto alla corte di Roma, questo era
un terreno comune, dove spesso s'incontravano principi e riformatori.
Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e
fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D'ingegno sveltissimo
e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non
quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella
società, usando una moderazione di concetti e di forme più terribile
che non l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità e
di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò
di ammazzarlo; e all'ultima, colpito dal ferro assassino, esclamò: -
Conosco lo stile della romana curia. -
La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro più serio che
siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione
cattolica, o piuttosto reazione, e delle pretese della corte romana.
Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul
potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia
e gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di
sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo
rammodernato nella superficie, di apparenze più corrette e meno rozze.
Scrivere la storia di quel concilio, e dimostrare la sua mondanità,
cioè a dire i fini, le passioni e gl'interessi mondani, che resero possibili
quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un attaccare
il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la
passione politica fosse in lui soprabbondata, tirandolo a violenza d'idee
e di espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti,
il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e
nella sua sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di uomo politico,
ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia
nelle sue mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio,
che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale
si prepara con ogni maniera di studi e d'investigazioni. E qui è l'interesse
di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sincerità
e gravità di storico, e riesce parzialissimo, perchè l'uomo con le sue
passioni, con le sue simpatie e antipatie, co' suoi fini politici, con
le sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialità
non è volontaria, e non è nella materialità de' fatti, ma è nello spirito
nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle
sue più concrete determinazioni politiche ed etiche. Non ci è autorità
che tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L'autorità
legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e
evangelica, sgombra di ogni temporalità, e non di altro sollecita che
d'interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia, «nata di
ambizione papale e d'ignoranza de' principi». Nè per questo fra Paolo
si crede men cattolico del papa, anzi è lui che vuole una vera restaurazione
cattolica, riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà,
e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni,
che dovea essere procurata, e fu impedita dal Concilio. Perciò chiama
il Concilio l'«Iliade del secolo» per i mali effetti che ne uscirono,
e la sua opera giudica non una riforma, ma una «difformazione». Qual
era la riforma da lui desiderata, traspare da' concetti che attribuisce
a quel buon papa di Adriano sesto, «uomo germano, e pertanto sincero,
che non trattava con arti e per fini occulti», il quale confessava il
male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana,
e prometteva piena riforma, «quando anche avesse dovuto ridursi senza
alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica».
Grande è in questo libro l'armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto
fondamentale del contenuto è questo, che come la verità è nella sostanza
delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha
la sua essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza delle
forme o nelle concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la
diligente narrazione de' peccati, ma il proposito di mutar vita, che
assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello
spirito nuovo, che, già adulto, dalla moltiplicità delle forme e degli
accidenti saliva all'unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito
che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che
in questa Storia penetra anche nella forma letteraria. Perchè qui la
forma non è niente per sè, e non è altro che la cosa stessa, liberata
da ogni elemento fantastico e rettorico, è il positivo e il reale, proprio
l'opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che per commissione
della Curia scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa,
dice: «Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del
terrore o con la pioggia del sangue». Dice cosa gravissima con lo spirito
distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è espressione,
ma ostacolo; nè da questi lisci può venire la grave impressione che
pur dee fare sullo spirito un pensiero così feroce, base dell'Inquisizione.
Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una
energia e una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua
crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento
e come idea.
«Se non potranno con le dolcezze - dice Adriano a'
principi tedeschi - ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via,
vengano a' rimedi aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri
morti.»
Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella
indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l'importanza del contenuto
nella indifferenza della forma, una forma che è il contenuto stesso
nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza
d'ingegno, che gli fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari,
una viva preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata
con un vigore straordinario d'analisi, e quel senso della misura e del
reale che lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l'assoluta padronanza
della materia, la conoscenza de' più intimi secreti del cuore umano,
la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a cui viveva
ne' suoi umori, nelle sue tendenze e ne' suoi interessi, e si può comprendere
come sia venuta fuori una prosa così seria e così positiva. L'attenzione
volta al di dentro, e non curante della superficie, ti forma un'ossatura
solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra
e ruvida.
Continua
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